"A chi un giorno gli rimproverava di non aver usato le stesse armi dell'avversario rispose con pacatezza: «È il Signore che ha guidato ogni cosa»."
del 07 dicembre 2011
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          Il rigore con il quale la Chiesa procede nei processi di Beatificazione e Canonizzazione è tale che basterebbe una qualche colpa grave commessa nell'ultimo periodo di vita, per compromettere la causa di ogni candidato alla gloria degli altari.
Ma la Chiesa non pretende dai santi la perfezione assoluta che è, evidentemente, solo di Dio; né quella, compiuta nel suo genere, di cui godono i Beati comprensori. Su questa terra la perfezione, anche degli stati elevati, porta ancora con sé «qualche cosa - scrive J. De Guibert - di incompleto, di carente, persino di precario, sempre di incompiuto».
In altre parole, i santi e le sante restano sempre, nella mirabile varietà dei loro carismi, figli di Adamo e di Eva, alle prese con la loro natura, i loro limiti e - diciamolo pure - con i loro difetti, che sanno espiare e correggere. Anche dopo un lungo tirocinio ascetico, per mantenerli fermi nell'umiltà e nella preghiera, Dio permette piccole imperfezioni, debolezze di sorpresa, scatti temperamentali ed altre fragilità - del resto subito riscattate dalla delicatezza di coscienza - che fanno parte della natura di cui siamo impastati. Bernardetta Soubirous - afferma il biografo F. Trochu - «nel suo raffinato senso di spiritualità, si stupiva che la maggior parte delle biografie [dei santi] non fossero altro che panegirici. Avrebbe preferito che gli storici mettessero in maggior rilievo le imperfezioni di questi grandi amici di Dio. 'Io penso - diceva - che si dovrebbero segnalare i difetti dei santi ed indicare i mezzi che essi hanno usato per correggersi. Ciò servirebbe molto'». È l'evidenza. Ma questo comporta alcune conseguenze pratiche che vanno tenute presenti. Quando la Chiesa «propone come esempio da imitare la vita dei santi e dei beati, non intende affatto sanzionare la perfezione di ciascuno dei loro atti, e, meno ancora, la loro imitabilità, il loro valore formativo. Solo l'insieme di queste vite viene proposto come modello, unitamente a questo o quell'aspetto sottolineato dai decreti pontifici, a questa o quella virtù particolarmente rimarcata in essi. Questi stessi santi, lo sappiamo, hanno avuto delle leggere debole dalle quali nessun uomo è esente; non sono arrivati, anche dopo essersi donati a Dio, di colpo alla sommità; in molti di loro si noteranno quelle 'sante follie' ammirabili quando si giudicano secondo lo spirito che le ha determinate, ma poco imitabili senza una ispirazione molto straordinaria della grazia» (J. De Guibert).
 
Qualche piccola imperfezione.
Queste considerazioni vanno tenute presenti anche quando si parla di don Bosco e lo si propone come modello di vita. In un quadro di intatta bellezza qualche piccola imperfezione, subito riscattata da atti di intensa carità, non guasta. S. Girolamo biasimava in S. Paola l'ostinato attaccamento alle penitenze, ma egli stesso per il suo temperamento spinoso e difficile ebbe a scontrarsi, non poche volte, con parecchi suoi contemporanei. S. Bernardo usava con i suoi monaci un rigore giudicato eccessivo; sappiamo dalla sua prima biografia che ebbe espressioni piuttosto dure verso il suo medico; derubato, a Roma, da gente del mestiere, si espresse, nei loro riguardi, in termini non propriamente 'melliflui'. S. Vincenzo de' Paoli scorgeva in certi tratti comportamentali della Chantal tracce di colpa. Non meraviglia dunque che leggere ombre di fragilità non acconsentite si riscontrino anche nella vita di don Bosco.
Scrive il Card. Salotti, promotore della fede nella causa del Santo: «Se in un uomo così straordinario riscontriamo qualche ombra - amplificata del resto più del giusto - essa non oscura la splendida luce che promana dalle sue molte virtù o dalle sue santissime azioni».
Mons. Bertagna, autorevole testimone della santità di don Bosco, dichiara a sua volta: «Se guardo a qualche tratto della sua vita, alla tenacità, cioè, con cui talvolta tentava di riuscire nel suo intento, mi pare di vedervi alquanto di umanità. Così, a quanto sembra al primo aspetto, parve talora alquanto inopportuno nel dirnandar limosine, alquanto ardente, e più del convenevole, per ottenerle sino ad esser troppo facile a promettere ricompense del Signore a chi le dava e lasciar timore che le cose, né della sinistra né della destra, sarebbero andate bene se gli si negavano. Parimenti qualche volta parve troppo restio ad abbandonare le proprie opinioni». Giudizio calibrato ed anche grave, non però fino al punto - come già si è detto - da farlo dubitare della sua santità eroica. Condivise, com'è naturale e come dimostrano i suoi scritti, gli errori comuni alla scienza profana e religiosa del suo tempo. Delicatissimo di coscienza, non diede tregua, come s'è visto, al suo temperamento irascibile, ostinato, ricco di esuberante sensibilità. Per don Berto, suo fedelissimo segretario, don Bosco era un vero sole, ma riconosceva che, come il sole, aveva le sue macchie. Accadeva cioè anche a lui, come a tutti i santi, che la natura, in certe circostanze, prevenisse la grazia con leggere imperfezioni - qualche impazienza, qualche scatto, qualche variazione di umore, ecc. - delle quali umilmente subito si pentiva, riconquistando la sua pace.
Una volta, dicono le Memorie Biografiche, di ritorno da Roma, avendo perso il treno in una piccola stazione e dovendo attendere per ore, «si mostrò assai contrariato», ma non tardò a rassegnarsi e riconquistare la calma.
Durante il secondo Capitolo Generale (1880) don Barberis - si legge nei verbali - non finiva di parlare impedendo persino a don Bosco di esprimere il suo pensiero. Il santo non perse le staffe, come altri, ma, «un po' seccato», finì per zittirlo con una frase piemontese che destò ilarità. Poteva essere, ad esempio, un «piantla li tarluc»: espressione quasi intraducibile, il cui senso dipende molto dal tono di voce con cui viene pronunziata: «Smettila, sciocchino!».
Una sera ad Alassio - febbraio 1879 - don Bosco si confida con alcuni intimi; manifesta le sue sofferenze: affronti subiti, udienze impedite, lettere intercettate, opposizioni palesi e segrete da più fronti, parole dure, mortificanti. Ma ad un tratto s'interruppe, rifletté un istante e poi disse davanti a tutti: «Ho parlato troppo». E quella sera stessa volle confessarsi.
All'origine del lungo, sofferto contrasto, che oppose tra loro, per un decennio, Mons. Gastaldi e don Bosco, due uomini superiori e prima amicissimi, ci sono errori di calcolo da parte di don Bosco e un eccessivo confidare nell'uomo. Interponendosi presso Pio IX affinché Monsignore fosse trasferito dalla diocesi di Saluzzo all'Archidiocesi di Torino, sperava di poter contare molto sul suo aiuto. Fu invece l'inizio di una dolorosa Via Crucis: «Quel confidare nell'uomo - riconoscerà umilmente - non era piaciuto al Signore». Ne portò le conseguenze con animo forte e con eroica ubbidienza, ma la natura reclamava i suoi diritti.
Don Rua attesta di averlo visto «piangere per la pena che provava nel trovarsi in urto con il suo superiore», di averlo sentito esclamare: «Ci sarebbe tanto bene da fare e resto così disturbato da non poterlo fare». Pianto e parole amare sussurrate più a se stesso che all'indirizzo del suo Arcivescovo, che pure rispettava ed amava, uscirono dalla sua bocca in momenti di angoscia estrema. «Ormai ci manca solo che mi pianti un coltello nel cuore»: «Un sonoro gagliardo schiaffo non poteva mortificarmi di più»; «A forza di accumulare disgusti il povero stomaco si rompe». 
Si direbbero parole troppo umane, ma don Bosco non ha mai ceduto all'impulso del risentimento o della ribellione; questi sfoghi avvenivano solo in una cerchia strettissima d'intimi. Soffriva, taceva, continuava a fare il suo bene. Solo 'una volta', attesta Mons. Bertagna, con il quale il santo poteva confidarsi come a uomo di scienza e di consiglio, ma anche come ad amico, «parmi [che] parlasse dell'arcivescovo con alquanto ardore». 
A chi un giorno gli rimproverava di non aver usato le stesse armi dell'avversario rispose con pacatezza: «È il Signore che ha guidato ogni cosa».
Il Console argentino in Savona, Comm. Gazzolo, si professava benefattore dei salesiani. In realtà badava solo ai propri interessi. «Il Comm. Gazzolo - scrive a don Cagliero in America - dopo una settimana di calcoli e di chiacchiere ridusse la sua domanda a L. 60.000 per i suoi 700 metri di terreno. Come vedi lo pagò 19 e per farci un beneficio ce lo dà a L. 60.000. Ah! Rogna, rogna!». Espressione piemontese sottilmente ironica, ma forte sulla bocca del Santo.
Nessuno va esente da errori pratici non previsti, non voluti, non colpevoli, frutto della migliore buona volontà. Fanno parte della condizione umana e don Bosco non ne andò esente. Non sempre infatti i suoi conti tornavano: accadeva che la fiducia posta in certi collaboratori andasse delusa; accadeva che opere avviate con tanta speranza dovessero venire abbandonate. Succedeva anche che certi progetti «dopo lunghe, complicate e noiose pratiche da dover perdere la testa» - sono parole sue - andavano poi «a monte». E a monte andò, ad esempio, la sua paziente fatica per mettere ordine, per espresso desiderio di Pio IX, nell'Istituto dei «Fratelli Ospedalieri di Maria SS. Immacolata», detti «Concettini», i quali attraversavano un periodo di grandi difficoltà. Don Bosco aveva accettato volentieri il difficile incarico perché si trattava di un desiderio del Pontefice e, forse, anche perché pensava di incorporare, in qualche modo, l'Istituto alla sua opera. Ma l'impresa fallì; non mancò chi lo mise in cattiva luce presso il Papa, come risulta da questa lettera del Card. Bilio, suo sincero ammiratore.
«Caro e Rev.mo don Bosco. Mi dispiace doverLe significare che il S. Padre non mi parve così ben disposto come l'anno scorso. I motivi di ciò, se non ho mal inteso, sono principalmente due: 1° l'affare dei Concetti; 2° l'abbracciare ch'Ella fa troppe cose insieme. Mi studiai di togliere dall'animo del Papa ogni men favorevole impressione verso di Lei. Non so se ci sia riuscito».
Il Santo era certamente vittima di insinuazioni e calunnie; ma bisogna anche dire che la scelta di don Giuseppe Schiappini a suo rappresentante non era stata la più accorta. L'esemplificazione non si ferma, senza dubbio, a questi pochi accenni. Dopo tutto nessun santo è uno spirito angelico.
Don Bosco - e lo abbiamo detto - è stato certamente un grande carismatico: leggeva nei cuori, faceva profezie, ma poteva anche sbagliarsi. Un giorno un suo giovane gli ricorda una predizione non avverata. Il Santo si fa serio; poi scherzando e sorridendo dice: «E se anche non si avverasse che importa?», e deviò il discorso.
Le Bolle di Beatificazione e Canonizzazione gli riconoscono il carisma straordinario delle guarigioni. Ma le guarigioni non avvenivano sempre. Don Rua ha potuto asserire che don Bosco «volentieri raccontava certi fatti in cui si era ottenuto il risultato contrario ai desideri di chi implorava la sua benedizione». 
Don Guancia, futuro fondatore dei «Servi della Carità» e delle «Figlie di S. Maria della Provvidenza», ora beato, si era fatto salesiano essendo già sacerdote, ma Dio lo rivoleva in diocesi. Don Bosco fece di tutto per tenerlo con sé: «Uno - gli scrive - che sia legato in religione, se non vuole burlare, bisogna che rinunzi ad ogni progetto se non è secondo la materia dei voti e sempre col beneplacito del superiore». Questa lettera ed altre dello stesso tono furono «una grave spina» nell'animo delicato di don Guancia, il quale decise, non di meno, di lasciare don Bosco. Due santi a confronto: lo Spirito che li guida dona all'uno luci superiori, che non concede all'altro. La storia è ricca di simili esempi.
 
 
Iperbole propagandistica. 
Noteremo ancora che neppure i santi andarono esenti da certe anomalie innocue, da piccole stranezze, da sante furbizie che rendono la santità più umana e più vicina alla nostra natura.
S. Francesco di Assisi, a volte, si accompagnava nel canto con un pezzo di legno come fanno i bambini; S. Caterina da Siena, dolce e austera, baciava i bambini per le strade e mandava mazzi di fiori, fatti con le sue mani, agli amici; S. Filippo Neri prediligeva una vecchia gatta dal pelo rosso ed un cane chiamato 'Capriccio', e faceva salti in aria per esprimere la gaiezza. Anche la vita di don Bosco offre aspetti che non è facile ridurre entro schemi correnti.
Il Santo, così concreto ed aderente al reale, parlando dei suoi progetti e delle sue opere indulgeva all'amplificazione per colpire l'animo e la fantasia dei suoi uditori, per guadagnarli più facilmente alla sua causa: «Tutta l'Italia e l'Europa politica e religiosa parlano del nostro progetto per la Patagonia».
Nel descrivere, nelle sue Memorie, la sua abilità di prestigiatore, doveva sorridere tra di sé, quando faceva, ad esempio, la seguente affermazione: «Il veder uscire da un piccolo bussolotto mille palle tutte più grosse di lui; da un piccolo sacchetto tirar fuori mille uova, erano cose che facevano trasecolare».
Santo moderno, comprese d'istinto l'importanza che la 'propaganda' andava assumendo nella nuova società e se ne servì in grande attraverso giornali, libri, opuscoli, conferenze. «È l'unico mezzo - diceva - per far conoscere le opere buone e sostenerle: il mondo attuale è diventato materiale, perciò bisogna lavorare e far conoscere il bene che si fa». E della propaganda adottò anche il linguaggio e il metodo, senza scendere però a compromessi con la sua coscienza.
Sempre ingolfato nei debiti e sull'orlo del fallimento, quando si rivolgeva ai benefattori, all'opinione pubblica, riteneva non solo lecito, ma doveroso l'uso del linguaggio iperbolico. «L'iperbole - diceva - è una figura retorica, vuol dire che non è condannato farne uso».
All'uso dell'amplificazione dovevano spingerlo i suoi sogni profetici e «quel suo far grande che lo portava sempre di colpo ai programmi massimi e al concepimento di piani mondiali messi appena pensati e senza remora in corso di attuazione» (F. Orestano).
C'è anche in don Bosco la forte tendenza a gonfiare i numeri delle sue opere, dei suoi giovani. «È cosa strepitosa!», diceva a don Barberis alludendo alle 'venti' fondazioni del solo 1878. In realtà le venti fondazioni sono le case che il Catalogo ufficiale elenca per l'anno 1878, tre in più rispetto all'anno precedente. Nella sua relazione alla S. Sede del 1880 il Santo tiene ad assicurare Leone XIII che i suoi cinquemila giovani pregano per Lui; pochi anni dopo la cifra sale a duecentocinquantamila, a trecentomila. Che cosa dire?
Commenta don Cena: «Don Bosco non andava per il sottile nei computi, indulgendo a moderne forme di pubblicità comunemente in voga che proclamano anche tre volte di più perché s'intenda almeno metà della metà». Più sottilmente P. Stella: «L'iperbole propagandistica si spiega nell'atmosfera di entusiasmo, di arguzia, di facezia e di furbizia tra familiare e popolare che vigeva a Valdocco e in vari ambienti nei quali don Bosco si muoveva».
E questo è ancora don Bosco.
Ma non potremo mai dimenticare che egli resta sempre un uomo immensamente più grande di noi; un capolavoro dello Spirito Santo, che ha tradotto il Vangelo in azione; una esistenza regolata da leggi superiori alla nostra comune esperienza; un santo che in tutto quello che dice o fa ha di mira unicamente la gloria di Dio e la salvezza delle anime. 
Pietro Brocardo
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