"Ma non tutti i santi hanno manifestato la loro allegria allo stesso modo. La vita di S. Tommaso Moro, di S. Filippo Neri, di don Bosco è talmente traboccante di gioia che potrebbe offrire materia per una "teologia della gioia"."
del 07 dicembre 2011
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          «Il primo aspetto che ci colpisce nella santità di don Bosco, e che è li quasi a nascondere il prodigio dell'intensa presenza dello Spirito, è il suo atteggiamento di semplicità e di allegria che fa apparire facile e naturale ciò che in realtà è arduo e soprannaturale» (E. Viganò).
La gioia, di cui l'allegria è la manifestazione o esplosione esterna, fa parte della santità cristiana. È infatti, come si esprime Paolo VI nella sua Esortazione sulla gioia Candele in Domino, «partecipazione spirituale alla gioia insondabile, insieme divina e umana, che è nel cuore di Cristo glorificato. Quaggiù scaturisce dalla celebrazione congiunta della morte e della risurrezione del Signore».
È cioè la gioia che lo Spirito Santo ha effuso in Maria SS.ma, nella sua cugina Elisabetta, in Simeone, in Gesù. Santi tristi non esistono: sarebbero dei tristi santi, diceva S. Francesco di Sales. «Il demonio - ripeteva a sua volta don Bosco - ha paura della gente allegra».
Ma non tutti i santi hanno manifestato la loro allegria allo stesso modo. La vita di S. Tommaso Moro, di S. Filippo Neri, di don Bosco è talmente traboccante di gioia che potrebbe offrire materia per una 'teologia della gioia'.
Sia che scherzi, sia che parli di cose serie o preghi, don Bosco dà colore alla vita e diffonde allegria. Si poteva leggere la gioia nei suoi occhi luminosi e profondi, sul suo volto «invariabilmente sorridente, affascinante ed indimenticabile» (P. Albera). Si poteva coglierla nelle battute piacevoli piene di arguzia e buon umore. Dopo la fucilata che per poco non l'uccise, «povera sottana - esclamò - l'hai pagata tu». Diceva: «Vada come vuole, purché vada bene». «Appena troveremo un bue senza padrone voglio che stiamo allegri». Ripeteva: «Laetare et benefacere e lasciar cantar le passere».
Ad un ragazzo scalzo: «Vieni a Torino - gli dice -, là ti farò mettere i chiodi alle scarpe». Non si smentì neanche sul letto di morte: «Viglietti, dammi un po' di caffè ghiacciato, ma che sia molto caldo».
La gioia ampia e profonda che filtra dalla persona di don Bosco è, come scrive E. Viganò, molte cose insieme: «E la gioia di vivere testimoniata nel quotidiano; è l'accettazione degli eventi come strada concreta e ardita per la speranza, è l'intuizione delle persone con i loro doni e i loro limiti per formare famiglia; è il senso acuto e pratico del bene nell'intima convinzione che esso è (in noi e nella storia) più forte del male; è il dono di predilezione verso l'età giovanile, che apre il cuore e la fantasia al futuro e infonde una duttilità inventiva per saper assumere con equilibrio i valori dei tempi nuovi; è la simpatia dell'amico che si fa amare per costruire pedagogicamente un clima di fiducia e di dialogo che porta a Cristo: è un pergolato di rose che si percorre cantando e sorridendo, anche se ben muniti di scarponi di difesa contro numerose spine».
La gioventù sente con maggior freschezza l'anelito della felicità. Don Bosco lo aveva compreso, sin da quando, giocoliere e saltimbanco improvvisato, sapeva tenere allegri i suoi giovani amici per farli più buoni.
Studente a Chieri aveva fondato la «Società dell'allegria». Scopo: tener lontano la «melanconia e stare sempre allegri», compiere «con esattezza i doveri scolastici e religiosi». Ma ogni suo Oratorio o istituto diventerà una «Società dell'allegria» ed in ogni adunanza egli stesso prenderà la direzione dell'allegria; accomiaterà i suoi amici con un «Sta' allegro!», che li faceva trasalire di contentezza.
«Non passò giorno - scrive G.B. Lemoyne -, si può dire, senza che con modi spiritosi o racconti ameni destasse ilarità, o in pubbliche adunanze o nelle parlate agli allievi o nei crocchi che formavano intorno a lui i suoi salesiani, i suoi giovanetti, nei viaggi, nelle case o palazzi dei cittadini, insomma dovunque apparisse».
Benché si possa essere sicuri che la sua vita sia stata un silenzioso martirio, egli compose sempre il volto a letizia. Più soffriva, più si mostrava lieto.
 
Undicesimo comandamento.
L'allegria è l'«undicesimo comandamento delle case salesiane» (A. Caviglia). È uno dei grandi segreti del sistema preventivo. Come S. Filippo Neri, don Bosco non si è mai stancato di ripetere ai giovani: «State sempre allegri»; «Servite il Signore stando lieti»; «Vivete pure nella massima gioia, purché non facciate peccati».
Guidato dalla esperienza e da un sicuro intuito pedagogico sapeva che per crescere bene, nello spirito come nel corpo, i giovani hanno bisogno di gioia e di allegria come di pane. «La gioia corrisponde, in grado altissimo, al tono generale della vita del bambino e del giovane. Bimbi e adolescenti possono crescere bene solo in ambienti dove esista molta gioia e un'atmosfera di generale serenità» (M. Keilhacker) Come lo aveva compreso il santo! «Don Bosco - scrive P. Braido -, molto più comprensivo e intuitivo di tanti genitori, sa e comprende che il ragazzo è ragazzo e permette e vuole che lo sia; sa che la forma di vita del ragazzo è la gioia, la libertà, il giuoco, la 'società dell'allegria'. Egli sa che per un'azione educativa normale e profonda il ragazzo va rispettato ed amato nella sua naturalità, che non consente oppressioni, forzature, violenze».
Una estate, verso la metà degli anni cinquanta o poco prima, don Bosco portò con sé nella villeggiatura del barone Bianco di Barbania, a Caselle, per una breve vacanza, 4-5 ragazzi tra i più meritevoli. Quando, la sera, salivano lo scalone che li portava a riposo nelle stanze superiori, erano preceduti da un valletto che teneva in mano un doppiere acceso. Con una rapida corsa il vivacissimo Cagliero gli fu vicino e con un soffio spense le due candele lasciando tutti al buio. Il barone non nascose la sua contrarietà; ma don Bosco, con voce dolce e confidente, lo ammansì mormorandogli all'orecchio: «A son masna! (sono ragazzi!). Compatiamoli». Il racconto è di vecchi salesiani, ma quanti, più significativi, sono riportati nella sua vita.
Nella sua esortazione Paolo VI afferma che la gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali: «Ci sarebbe bisogno anche di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell'esistenza e della vita, gioia e soddisfazione del dovere compiuto, gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione, gioia esaltante del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle».
Don Bosco si ritrova in queste affermazioni, lui che si è sempre prodigato perché ai giovani non mancasse la gioia squillante delle ricreazioni rumorose, dello sport, delle passeggiate, della musica, del canto, del teatro, della ginnastica. Fin che le forze glielo permisero, quando era in casa, era egli stesso l'anima del divertimento. L'ultima sfida alla corsa alla quale prese parte risale al 1868; aveva cinquantatre anni, le sue gambe erano già gonfie, ma ancora di una sveltezza meravigliosa.
Nel giorno di carnevale all'Oratorio si impazziva dalla gioia. La cronaca di don Ruffino descrive l'andamento della giornata: S. Messa nel primo mattino, poi colazione seguita da un'ora e mezza di giuochi; pranzo speciale con vino e frutta; nel pomeriggio ricreazione con la classica rottura delle pignatte, classe per classe; seguivano i Vespri, rallegrati dallo spassoso dialogo tra il Teol. Borel e don Cagliero, la Benedizione. Teatro e cena speciale chiudevano la giornata. Dopo le preghiere della sera e la parola paterna di don Bosco, stanchi morti, ma con l'animo gonfio di letizia, i giovani andavano a riposo.
A differenza del Can. Allamano, ora Beato, che durante il carnevale non permise mai il più lieve svago; egli amava insegnare con i fatti che si può stare santamente allegri senza offendere il Signore.
Assecondando i giovani nelle cose di loro gradimento, don Bosco riusciva a fare amare quelle verso le quali essi non inclinano per natura, come lo studio, il lavoro, l'adempimento del dovere, la pietà. Era convinto che il destino dell'uomo si gioca nella giovinezza ed ammoniva nel Giovane Provveduto: «Quella strada che l'uomo comincia in gioventù, si continua nella vecchiaia; se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati». «Ricordatevi - sono parole del Regolamento - che la vostra età è la primavera della vita. Chi non si abitua al lavoro in tempo di gioventù per lo più sarà sempre un poltrone sino alla vecchiaia».
Li voleva operosi, alacri, attivi, sempre impegnati; non dava pace ai poltroni. Sapeva educare i giovani a gustare le soddisfazioni e le gioie intime insite nel dovere compiuto, a percepire la verità del trinomio che gli era caro: allegria, studio-lavoro, pietà. Tre grandi valori inseparabilmente congiunti della sua pedagogia. Egli non credeva ad una pietà che non portasse all'impegno, né all'impegno disgiunto dalla pietà. In questa sintesi collocava la fonte della felicità: «Pietà, studio e allegria vi daranno tante soddisfazioni dolci come il miele».
«Se vuoi farti buono - leggiamo nella biografia di Besucco Francesco - pratica tre sole cose e tutto andrà bene. Eccole: allegria, studio e pietà. E questo il grande programma, il quale praticando, tu potrai vivere felice e fare molto bene all'anima tua».
Ha scritto con verità F. Orestano: «Se S. Francesco santificò la natura e la povertà, S. Giovanni Bosco santificò il lavoro e la gioia. Egli è il santo della euforia cristiana, della vita cristiana operosa e lieta».
E all'euforia cristiana voleva che fossero improntati gli stessi esercizi di preghiera, la stessa relazione con Dio. Bandiva perciò le lungaggini monotone e ripetitive, che generano nei giovani tedio e rigetto. Anche il tempo passato in chiesa doveva risolversi in «un'ora di gioia», di «festa». «Cose facili - scriveva - che non spaventano, non stancano, non preghiere prolungate». Le pratiche di pietà «siano come l'aria, la quale non opprime, non stanca mai, sebbene ne portiamo sulle spalle una colonna pesantissima».
L'anno scolastico era costellato di feste liturgiche, di esercizi devoti, di tridui, di novene, ma non se ne sentiva il peso. Don Bosco sapeva preparare i giovani alla 'festa'; sapeva farla vivere come un incontro sacramentale gioioso con Cristo; sapeva farla gustare come preludio della felicità eterna, con la magia del canto, lo splendore delle cerimonie e dei riti. Le celebrazioni che si facevano a Valdocco diventano col tempo un vero centro di attrazione per i fedeli della città di Torino.
Dalla chiesa la gioia traboccava nella vita, nelle ricreazioni spensierate, nell'allegria del pasto più copioso. Don Bosco, il quale non ha mai ammesso dicotomie tra l'anima e il corpo, voleva che «anche il corpo stesse allegro»; la melanconia doveva essere bandita. «Il cozzar delle scodelle e dei bicchieri» doveva formare «una bella armonia». Tutti gli elementi positivi non distrutti dal peccato erano, come si vede, ottimisticamente assunti nel suo metodo educativo.
Giuseppe Brosio, il «bersagliere» famoso, che dirigeva fantastiche battaglie oratoriane combattute con fucili di legno, ci ha tramandato un minuto resoconto della festa di S. Luigi, celebrata all'Oratorio il 29 giugno 1852. È una testimonianza preziosa, che riproduce dal vivo, nello stile esaltatorio ed ampolloso del tempo, lo svolgimento di una solennità religiosa, organizzata e preparata con cura e fantasia creatrice da don Bosco. La festa, dice il cronista, fu un non plus ultra: chiesa tappezzata dentro e fuori che «pareva un paradiso»; confessioni e comunioni a non finire - oltre 300, su un totale di circa 700-800 ragazzi e giovani -; la celebrazione fu presieduta da un vescovo; poi il «santo spettacolo di una bella processione» con molti invitati illustri: clero, autorità, nobili della città. A funzione finita il tradizionale «pane e salame per tutti». La gioia dei cuori, pieni di grazia e in pace con tutti, esplodeva quindi in cortile in una allegria incontenibile: «tutti i collegi ed oratorii passati, presenti e futuri non ebbero e non avranno mai tanti divertimenti quanti ne abbiamo avuti noi nel dopo pranzo di quel giorno; semplici, sì, ma causa di grande unione, di grande vivacità e cordialità in chi li godeva. Vi era la corsa nel sacco, giuochi di bussolotti, evoluzioni militari, ginnastica, fontane in cortile che gettavano zampilli rossi e bianchi per le droghe infuse nell'acqua, e globi aerostatici. I piccoli divertimenti erano poi senza numero». Ancora: sotto una tenda «caramelle, confetti, frutta, gazeuse, birra, acque dolci e via via». Per ordine di don Bosco e di altri signori, il bersagliere, da solo «alla spicciolata», distribuì dieci lire di caramelle. Ne diede anche una a don Bosco «affranto per il caldo soffocante», affinché inumidisse la gola. «Ma egli - ecco il padre ed il santo - ne regalò la metà ad un giovane. Tutto per noi; niente per lui».
Il prete dei Becchi ha davvero preso in seria considerazione il giovane nella sua traboccante naturalità.
 
L'allegria: cammino di santità.
Parlando della gioia nell'animo dei santi, Paolo VI nomina don Bosco «fra quelli che hanno fatto scuola sul cammino della santità e della gioia». E meritatamente. Benché la gioia sia inseparabile dal messaggio cristiano, non tutti i santi l'hanno espressa univocamente e non tutti ne hanno fatto «una via», «un cammino esplicito» di santità, rivolto preferenzialmente ai giovani, come egli ha fatto. Questa 'scuola', questo 'cammino' egli non lo ha teorizzato in termini astratti; l'ha scritto con la sua vita, con la forza dell'esempio, ispirandosi a principi semplici, quanto solidi, che affondano nell'humus della tradizione cristiana.
«Solo la religione e la grazia - diceva, ed era una delle sue convinzioni più radicate - possono rendere l'uomo felice». Già nella prima edizione del Giovane Provveduto (1847) aveva scritto: «Quelli i quali vivono in grazia di Dio, sono sempre allegri ed anche nelle afflizioni hanno il cuore contento», mentre «coloro che si danno ai piaceri, vivono arrabbiati sempre più infelici». Intende far capire ai giovani che la felicità terrena ed eterna si gioca nel rapporto con Dio.
Non esiste, dunque, che una via sola per raggiungere la felicità e la gioia: quella che passa per la religione dell'amore e della salvezza; per l'amicizia e l'intimità con Cristo e il suo Spirito come accesso al Padre.
La pedagogia di don Bosco sarà pertanto «radicalmente e per essenza una pedagogia spirituale delle anime» (A. Caviglia); una pedagogia cioè della vita di grazia, della crescita e maturazione in Cristo, perciò della santità e della gioia, perché la gioia è elemento costitutivo della santità. La scuola torinese credeva nella vocazione universale alla santità. S. Giuseppe Cafasso parlava dei suoi «santi impiccati»; S. Leonardo Murialdo incitava alla santità anche le ragazze sviate del Ritiro del Buon Pastore; don Bosco la proponeva come meta suprema tanto ai suoi 'birichini' e ai suoi 'barabba', quanto ai suoi giovani migliori. Una santità «a misura di giovane», ma esigente ed anche eroica.
Quando la prassi romana riteneva improponibile la causa di beatificazione e canonizzazione dei giovani, muovendo dal presupposto che solo una persona adulta poteva praticare la virtù in grado eroico, il Santo affermava, alludendo a Savio Domenico: «Vi assicuro che avremo dei giovani della casa elevati agli onori degli altari». La Chiesa gli ha dato ragione.
Benemerenza non piccola è certamente l'aver creduto alla santità giovanile, ma merito più grande è quello di averla presentata ai giovani nella stimolante prospettiva dell'allegria, non ostacolo, ma via alla santità.
«Io sono contento che vi divertiate, che giuochiate, che siate allegri. È questo un metodo per farvi santi come S. Luigi, purché procuriate di non commettere peccati».
Dopo la famosa predica sulla santità (1855), di cui conosciamo solo gli enunciati incisivi: «È volontà di Dio che ci facciamo tutti santi; è assai facile farsi santi; un gran premio è preparato in cielo a chi si fa santo», Domenico Savio si presenta a don Bosco e gli dice: «Non pensavo di potermi far santo con tanta facilità, ma ora che ho capito che ciò si può fare anche stando allegro io voglio assolutamente ed ho assolutamente bisogno di farmi santo».
Trasportato dalla sua fantasia di adolescente vorrebbe imitare i grandi asceti, digiunare severamente, darsi a lunghe preghiere. Il maestro loda il proposito di farsi santo, ma ne frena l'idealismo eccessivo, gli traccia, realisticamente, il programma di santità adatto alla sua età e condizione: «Per prima cosa» gli suggerisce «una costante e moderata allegn a»; poi l'adempimento esatto «dei suoi doveri di pietà e di studio»; la «ricreazione con i compagni»; d'adoperarsi per guadagnare anime a Dio, perché non c'è cosa più santa al mondo». La proposta della carità apostolica come progetto di santità fatta ai giovani era, allora, possiamo dirlo, piuttosto un gesto inconsueto, innovatore ed audace, Sono i consigli che egli sviluppa nelle note biografie di Savio, Magone e Besucco, dove è evidente lo sforzo di dimostrare come la vita dei suoi protagonisti sia stata, dal principio alla fine, un graduale e progressivo cammino verso la pienezza della santità.
Tutto, ancora una volta, si riporta, in sintesi, all'insistito trinomio: allegria, studio-lavoro, pietà. Quel «noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri» detto da Domenico Savio all'amico Camino Savio è convinzione profonda, è un tocco dello Spirito: «un tesoro divino, dunque, rivestito di semplicità e di gioia quasi a nascondere il prodigio» (E. Viganò).
Perché la santità che don Bosco propone non ha nulla di complicato, di arcano, di straordinario; è la santità del quotidiano, dei gesti consueti vissuti non comunemente, come faceva Domenico Savio, di cui il Santo loda «l'esemplare tenor di vita e quella esattezza nell'adempimento dei suoi doveri oltre cui difficilmente si può andare».
La proposta di santità racchiusa nel trinomio ricordato non esclude ma implica, evidentemente, le altre virtù cristiane che il santo Educatore ha sempre inculcato. Quando parliamo della grande santità fiorita a Valdocco come il frutto più bello del sistema preventivo, pensiamo immediatamente all'azione dello Spirito Santo, autore della santità. Non possiamo però scordare che lo Spirito si è servito dell'azione delicata e discreta del suo servo fedele don Bosco, della sua straordinaria abilità di direttore spirituale dei giovani. Uno dei più grandi di tutti i tempi.
A quali criteri ed indirizzi egli ispirasse la sua missione di guida ed accompagnatore spirituale lo dice A. Caviglia, in una felice sintesi che merita di essere ricordata: «Libertà di spirito e di movimento, rispetto alla libertà della grazia, pratica santificante del dovere, attenzione a Dio, orientamento verso Gesù Sacramentato e Maria, mortificazione della vita: in capo a tutto fiducia in Dio, serenità, gioia, allegria, senza terrori e scontrosità paurose, ma colla vista al Paradiso: tutto con amore e per amore, nell'interno come all'esterno». Non è tutto don Bosco, ma è certamente don Bosco.
Aggiungeremo, infine, che la proposta di santità fatta da don Bosco non è mai disgiunta dall'idea del 'premio', del Paradiso. «Un gran premio è preparato in cielo a chi si fa santo». Sul firmamento di Valdocco «si affacciava sempre, di giorno e di notte, con nubi o senza nubi, il Paradiso» (E. Viganò). Il Santo, riportando frasi di don Cafasso o di sua creazione, ne parlava spesso: «Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto»; «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in Paradiso»; «Pane, lavoro e Paradiso». Per tre notti consecutive, il 3, 4 e 5 aprile 1861, sogna di fare una 'passeggiata' con i suoi giovani in Paradiso. Nelle biografie dei suoi ragazzi, anche descrivendone l'agonia, egli ama sottolineare come più dell'orrore della morte essi vivessero l'attesa del Paradiso. Del resto era questa la prospettiva inculcata nella spiritualità del tempo.
Il pensiero del Paradiso è uno dei frutti della presenza dello Spirito Santo, e don Bosco è un'«anima di Spirito Santo». Cammina su questa terra; ma il cuore e la mente sono rivolti al cielo.
 
Pietro Brocardo
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