"I figli del Santo che frequentarono l'università di Torino furono sempre oggetto di particolare benevolenza da parte sua."
del 07 dicembre 2011
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        Il prof. Annibale Pastore, nato ad Orbassano nel 1868 e morto a Torino nel 1956, fu, negli anni della sua attività, uno dei docenti più stimati e benvoluti dell'Ateneo torinese (1921-1939). Lo ricordiamo ora, non come filosofo, ma come alunno di don Bosco (Valdocco 1881-1882), di cui conservò sempre il più indelebile ricordo, tanto da commemorarlo, ogni anno, nelle sue lezioni universitarie e da parlarne volentieri negli ambienti salesiani.
I figli del Santo che frequentarono l'università di Torino furono sempre oggetto di particolare benevolenza da parte sua.
 
Vengo dalla miseria.
Prossimo al tramonto, ricordava i giorni passati con don Bosco «come il suo paradiso in terra». «Vengo - diceva umilmente - dalla miseria: Pastore di nome e pastorello di fatto che non finiva di scorrazzare sulle rive del Sangone. Mia madre non sapeva scrivere, ma era religiosissima; quando veniva a trovarmi, sentiva don Bosco alla distanza di metri! Mio padre, conoscendo il mio amore per lo studio, ardeva dal desiderio di accontentarmi e mi portò a Torino da don Bosco, il cui centro educativo aveva, ormai, raggiunto notorietà mondiale. La mia prima impressione fu quella di essere piombato in una prigione. Ero cresciuto nella libertà dei campi e quella vita regolare non sembrava adatta per me. Ma non tardai ad essere conquistato da don Bosco; capii subito che mi prediligeva. Quando mi vedeva, mi chiamava e mi fissava con attenzione pensosa. Non posso dimenticare quello sguardo».
 
Chi è quel ragazzo che piange?
«Leggeva forse nel mio futuro? Mia mamma, di tanto in tanto, veniva a trovarmi; mi portava frutta, qualche cosa. Un giorno mi accorsi che i miei compagni me l'avevano rubata. Mi sono messo a piangere dirottamente. Don Bosco, dal balcone, mi vide e disse in piemontese: 'Chi ca le' chul li ca piura?' ('Chi è quello li che piange?'). Mi chiamò a sé, mi portò in camera sua, mi fece sedere sulle sue ginocchia e mi diede una bella mela che aveva con sé, lasciandomi tutto consolato. Come si comportava con me, si comportava certamente con tutti da uomo universale che era. Quanto più uno era immeritevole tanto più lo prediligeva: è incredibile! Mi diede tanti libri sapendo della mia passione per lo studio, tra cui, ricordo, la sua Storia d'Italia».
 
Ci andrai.
«Don Bosco si occupò personalmente di me e mi aperse alla vita spirituale, al mondo interiore: sapeva trasfonderci le sue certezze e la sua gioia. Ci parlava della vita eterna, del paradiso come se ci fosse stato ed io e i miei compagni eravamo sicuri di andarci come si va in America. Un giorno siamo andati a passeggio in Via Po; siamo passati davanti al Palazzo dell'Università, dove sventolava una bandiera; io guardavo pieno di stupore e di esaltazione. Giunti a casa, lo dissi a don Bosco ed egli: 'Ti piacerebbe andare là?', mi disse; ed io gli risposi di sì. 'Ebbene, - rispose - ci andrai, ci andrai'».
 
Mi trovarono a terra con la schiuma alla bocca.
«Mi domanderete: perché sono andato via dall'Oratorio, mio paradiso e mia vita, dopo appena un anno? La cosa andò così.
Una sera, mentre don Bosco parlava alla Buona Notte, ebbi l'idea di mettermi in un confessionale della chiesa [di San Francesco], e li mi addormentai. Mi risvegliai più tardi in quel silenzio, tra quelle tenebre, con un freddo che mi dava il senso del sepolcro - eravamo in febbraio - e fui preso da vero terrore. Mi misi a gridare disperatamente, ma le mie grida si ripercuotevano strazianti lungo la volta senza che nessuno m'ascoltasse e venisse in mio aiuto. Già in preda al terrore e alle convulsioni, scavalcai la balaustra per aggrapparmi alla luce della lampada, ma diedi del capo nella catenella: la lampada si mise ad ondeggiare paurosamente e io in preda al terrore caddi svenuto al suolo. Al mattino mi trovarono a terra con la schiuma alla bocca, ferito al capo, ancora in stato di choc. Mio padre se la prese con don Bosco e non volle più saperne di Valdocco, benché don Bosco mi cercasse e insistesse per riavermi».
Dai Registri dell'Oratorio risulta che il giovane Pastore lasciò effettivamente l'Oratorio il 24 febbraio per rimettersi; vi fece ritorno il 10 marzo per conchiudere l'anno scolastico. A pochi intimi il prof. Pastore confidava di essere stato poi messo in un istituto, retto da una persona di dubbia fama, dove, a poco a poco, finì per perdere la fede, ma con un rimpianto che più nulla valse a placare. Il prof. Pastore aveva l'anima naturaliter religiosa: era un lettore assiduo di Sant'Agostino e dei grandi mistici cristiani, ma rimase sempre un animo diviso tra le chiarezze della sua intelligenza e lo squarcio profondo dell'anima che non riusciva a sanare.
 
La mano sulla spalla.
Diceva e ripeteva spesso di sentire in forma quasi fisica la mano di don Bosco, non pi√π sul capo, come quando era bambino e il Santo affondava la mano nei suoi capelli ricciuti, ma sulla spalla destra, come la mano di un amico fedele di cui avvertiva, quotidianamente, l'invisibile presenza. E don Bosco gli fu vicino tutta la vita, ma specialmente nelle ore estreme, nella persona di un suo figlio, tanto dotto quanto santo, don Nazareno Camilleri, il quale, attraverso sofferte meditazioni, fece di tutto per sollevarlo verso il soprannaturale.
Del tempo passato con il Santo due furono sempre le sue impressioni più forti: la prima, quella di essere il suo preferito, il giovane a cui don Bosco voleva più bene; probabilmente - soggiungeva - era l'impressione anche di tutti gli altri e ciascuno riteneva in cuor suo di essere il beniamino di don Bosco, tanta era la carità che egli effondeva verso tutti; la seconda, la certezza che c'è un'altra vita, la quale è a nostra portata e che perderla è una stoltezza. Chi si avvicinava appena e parlava un poco con lui, sentiva questa seconda realtà, la cui certezza irradiava da lui e si trasfondeva negli altri. «In tanti anni questo sentimento non si è mai affievolito in me».
 
 
Pietro Brocardo
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