"In questo sogno, molto elaborato, don Bosco non trova di meglio, per definire il volto del salesiano, che rifarsi alla triade teologale, sintesi e sostanza della vita cristiana."
del 07 dicembre 2011
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        Siamo cristiani per un dono assolutamente libero e gratuito, che il Padre mediante il Figlio, nello Spirito Santo, comunica agli uomini. Il battesimo, in re o in voto, cambia radicalmente il nostro modo di essere e di vivere: rende partecipi della natura divina, incorpora al mistero di Cristo, datore del suo Spirito, fa di noi figli e «creature nuove» (Gv 3,5), dà la capacità di entrare in rapporto dialogale con le Persone divine. E perché sia resa possibile questa «novità di vita» lo Spirito Santo infonde in noi i dinamismi potenti della fede, della speranza, della carità, con gli altri doni, che implicano un capovolgimento di tutta la realtà nella sfera di Dio.
Le 'virtù' teologali, più che mezzi di unione, vanno considerate come l'unione stessa con Dio; sono grazia creata e grazia increata; azione divina e collaborazione umana. Sono, in termini reali e dinamici, la santità stessa. Ogni cristiano «deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza, opera per mezzo della carità» (LG, n. 41).
Parlare della fede, speranza e carità come di 'virtù' o 'abiti' di una particolare potenza è troppo limitativo, perché esse sono piuttosto dimensioni totalizzanti dell'esistenza cristiana in cammino verso Dio, attitudini fondamentali non riducibili a dimensioni parcellari. Coinvolgono infatti tutto l'uomo, tutta la globalità del suo orientamento fondamentale e della sua comunione con Dio. Credere per Abramo, come per Maria, voleva dire darsi, pieni di fede e di speranza, nella totalità del loro essere e della loro esistenza, ad una Persona sommamente amata e collaborare al suo amore preveniente.
Aggiungiamo che nella Bibbia fede, speranza e carità sono sempre presentate in 'unità vitale' come «aspetti diversi di un atteggiamento spirituale complesso ma unico» (J. Duplacy). La carità non esiste senza la fede e la speranza; la fede e la speranza sono vive solo se informate dalla carità.
È importante fare atti separati delle singole virtù teologali; più importante viverli 'insieme', congiuntamente, sintetizzati nella carità. Anche in questo, come in altri campi, non ci attenderemo da don Bosco una qualche tematizzazione della vita teologale. La stessa terminologia gli è estranea. Ma la sua vita di fede, speranza e carità, l'esperienza concreta e dinamica che egli dimostra di possedere, tocca livelli altissimi.
Indicativi a questo riguardo possono essere la predica di Trofarello, del 18 settembre 1869, e la prima parte del cosiddetto «sogno dei diamanti». Nella predica di Trofarello don Bosco svolge questo tema: «Lavorare con fede, speranza e carità», senza immaginare, ovviamente, che il Concilio Vaticano II avrebbe fatto l'identica raccomandazione alle persone dedite all'apostolato. «L'apostolato si esplica nella fede, nella speranza e nella carità, che lo Spirito Santo effonde in tutti i figli della Chiesa» (AA, n. 3).
A questo tema si ricollega, tra l'altro, in particolare, il «sogno dei diamanti», di cui, a differenza di altri sogni, possediamo l'autografo. I diamanti rappresentano le virtù più proprie, seppure non tutte, che brillano sul manto del personaggio nel quale possiamo vedere la personificazione di don Bosco. Cinque sono collocati sul petto e disegnano il volto del salesiano quale deve apparire di fronte al mondo; cinque sono collocati nella parte posteriore e sono destinati a rimanere piuttosto nascosti. I diamanti che sfolgorano sul petto sono quelli della «fede, speranza e carità». Quest'ultimo è collocato sul cuore. Sulla spalla destra e su quella sinistra spiccano i diamanti del «lavoro» e della «temperanza», e tutti sono in connessione organica con i precedenti.
In questo sogno, molto elaborato, don Bosco non trova di meglio, per definire il volto del salesiano, che rifarsi alla triade teologale, sintesi e sostanza della vita cristiana.
Che egli, come ogni altro santo, abbia prediletto e praticato in grado eminente le virtù teologali lo dimostrano, ad esempio, le biografie dei suoi piccoli eroi. Di Savio Domenico loda «la vivezza della fede, la ferma speranza, l'infiammata carità». Precisiamo meglio il suo pensiero.
 
La fede.
La fede, dono assolutamente gratuito, è fondamento e radice della vita e spiritualità cristiana. Senza di essa nessuno è gradito a Dio (Ebr 11,6). Oggi si è molto sensibili al suo contenuto «parole ed opere», e cioè al mistero di salvezza che Dio ha definitivamente portato a compimento nella passione, morte e risurrezione di Cristo. Ma il contenuto non sarà mai disgiunto dall'atto di fede, che coinvolge la persona intera e nel quale «vengono a confluire tutte le nostre energie spirituali: intelletto, volontà, sentimento» (W. Kasper), con gli atteggiamenti fondamentali che ne conseguono: l'accoglimento convinto della parola e dell'amore di Dio, che spinge all'azione (Gc 2,17); la fiducia sicura, carica della speranza di possedere le cose che ancora non si vedono (Ebr 11,1); l'ubbidienza alla volontà di Dio (Rm 1,5); il servizio all'uomo (Gv 3,16); il credere nella Chiesa e con la Chiesa, comunità di credenti.
Chi abbia anche solo una sommaria conoscenza di don Bosco non tarda a prendere atto della sua fede profonda e senza incrinature, operosa e coinvolgente. La fede è realmente per lui la carta del cielo nella quale è tracciato il disegno di Dio sulla sua esistenza, la visione globale dall'alto sulla sua missione, i suoi progetti, le sue opere, le sue iniziative audaci. La fede gli infonde l'intima coscienza della sua identità cristiana e sacerdotale; lo porta a vedere, giudicare, agire secondo l'ottica di Dio Padre, di Cristo e del suo Spirito; la fede è veramente la ragione di tutto il suo operare: «La fede - diceva - è quella che fa tutto»; senza «il fuoco della fede l'opera dell'uomo è nulla».
La fede lo portava a valutare con sguardo critico e discernimento soprannaturale le realtà di ogni giorno, ad affrontarle con «vivezza» e «grandezza di fede». Asseriva: «In mezzo delle prove più dure ci vuole una gran fede in Dio». Esortava, con S. Paolo, ad imbracciare, con coraggio nell'ora della prova, «lo scudo della fede» (Ef6,16).
Benché avesse più di un motivo per consolarsi del bene fatto, guardava a quello che restava da fare e si rammaricava di non avere avuto abbastanza fede e di non aver fatto di più. «Se avessi avuto cento volte più fede, avrei fatto cento volte di più di quello che ho fatto». Raccomandava ai suoi giovani che gli ottenessero una fede più grande. Anche per i santi la fede è un cammino mai interamente percorso.
Eppure fu un formidabile credente: viveva, operava e pregava «come se vedesse l'invisibile» (Eb 11,27). Nelle udienze, richiesto di consiglio, non rispondeva immediatamente; alzava gli occhi al cielo come chi va cercando da Dio la luce necessaria, poi dava risposte piene di fede.
Tutta la sua vita - è stato scritto - fu un esercizio di fede vissuta: «Pensieri, affetti, imprese, ardimenti, dolori, sacrifici, pie pratiche, spirito di orazione furono tutte fiamme sprigionantisi dalla fede». Benché la sua fiducia in Dio fosse senza limiti, ripeteva spessissimo: «Se l'opera è vostra, Signore, voi la sosterrete; se l'opera è mia sono contento che cada». «Vado avanti - affermava - come la macchina a vapore, a base di puf, puf (= debiti)»: ma soggiungeva che il fuoco della sua locomotiva era «il fuoco della fede in Dio».
Il Concilio Vaticano II ha fatto questa affermazione importante: «Solo alla luce della fede e nella meditazione della parola di Dio è possibile sempre e dovunque riconoscere Dio nel quale 'viviamo, ci muoviamo e siamo', cercare in ogni avvenimento la sua volontà, vedere il Cristo in ogni uomo vicino od estraneo, giudicare rettamente del vero senso e valore, che le cose temporali hanno in se stesse in ordine al fine dell'uomo» (AA, nn. 4,5). Don Bosco non poteva conoscere queste parole, ma il senso cristiano lo ha guidato a praticarle puntualmente, sotto l'influsso dello Spirito. Viveva la sua fede nella Chiesa e con la Chiesa: «Divenuti membra del sacratissimo Corpo di Gesù - diceva - dobbiamo a Lui tenerci strettamente uniti, ma in concreto, nel credere e nell'operare».
Educava i giovani a lottare contro il nemico con le armi «invincibili» della fede: «Su, su, figliuoli, - leggiamo nel movimentato sogno sulla fede vittoriosa - ravviviamo, fortifichiamo la nostra fede, innalziamo i nostri cuori a Dio».
Implorava nella preghiera «quella fede che trasporta le montagne nel luogo delle valli e le valli nel luogo delle montagne». Ovviamente egli non trasportò le montagne nelle valli, ma si deve alla sua fede incrollabile se, dal nulla, ha innalzato vere montagne verso il cielo in senso più che metaforico. Pensiamo alle tre grandi chiese di Maria Ausiliatrice, di S. Giovanni Evangelista a Torino, del Sacro Cuore a Roma; pensiamo all'espansione della sua opera con mezzi umanamente inadeguati. Per difesa della fede mise, più volte, a repentaglio la propria vita e fu solo la decisa volontà di portare la fede tra i lontani che gli fece affrontare l'immane fatica delle spedizioni missionarie.
Sembrava sommerso in un cumulo di affari e di attività, ma la sua fede era l'anima di tutto: sapeva cogliere l'invisibile nel visibile, sapeva collaborare, come pochi, con il divino Risorto alla diffusione del Regno, alla salvezza delle anime. Ha scritto E. Viganò; «Don Bosco percepiva quasi spontaneamente lo spessore storico della fede cristiana. Anche come studioso e come scrittore egli è un entusiasta degli aspetti concreti della storia della salvezza. Infatti, più che un pensatore, è un narratore di Dio; un narratore della storia sacra, un narratore della vita dei santi, della storia della Chiesa».
Si è sempre battuto perché i suoi figli avessero una fede 'operosa' e 'dinamica' come vuole S. Giacomo (Gc 2,17). Fu un impareggiabile «educatore della fede» di generazioni di giovani. La sua esortazione a lavorare con fede» non era solo una convinzione radicata nella sua anima: era l'espressione del suo vissuto, una sintesi della sua esistenza, del suo orientamento globale in Dio.
 
La speranza.
La speranza è intimamente e strettamente congiunta con la fede (Ebr 11,1). «Infatti ciò che forma l'oggetto della fede, la potenza di Dio che in Cristo opera la salvezza del mondo, è nello stesso tempo il motivo della nostra speranza; chi si incammina nella fede non può far a meno della speranza (Tt 1,1)» (F.X. Durrwell). I battezzati sono dei credenti e sono degli uomini che sperano in Cristo (1 Cor 15,18).
La speranza per don Bosco, come per tutti i cristiani, ma in grado superiore all'agire comune, sgorga dalla sua fede intensa e gli dà coraggio nei suoi ardimenti, nelle sue imprese e nelle sue prove. Ai suoi figli oppressi dalle fatiche raccomanda: «Quando siamo stanchi, quando abbiamo delle tribolazioni, alziamo gli occhi al cielo; una grande mercede ci attende in vita, in morte, nell'eternità. Facciamo come quel solitario che prendeva conforto dal cielo». Ecco un suo tipico modo di pensare e di ragionare. La sua mente non si fissa nel passato, non si chiude nell'attimo presente, si protende, come per istinto, verso le realtà ultime.
Senza anelito verso l'eterno non c'è speranza. Il pensiero del paradiso, motivo di speranza, è, come in don Cafasso, «una delle idee sovrane» (P. Stella) di don Bosco, una dominante della sua vita, dei suoi scritti biografici. Il ripetutissimo «un pezzo di paradiso aggiusta tutto», del suo maestro di spirito, è anche il suo.
L'uomo che sembrava tutto assorbito dalle attività terrene gravitava, in realtà, verso l'eterno. Diceva: «Camminate con i piedi per terra» - ecco il suo realismo - «ma con il cuore abitate in cielo» - ecco la sua speranza -.
La speranza, pur conoscendo il 'già' della salvezza, non trascura il 'non ancora'; non ignora i rischi e le difficoltà, che incontra l'uomo decaduto incline al male, che vive e fa la storia; gli infonde perciò la certezza soprannaturale della presenza e dell'aiuto onnipotente del Risorto e del suo Spirito. L'intelligenza della fede, che porta don Bosco ad aprirsi con lucidità sul male del mondo da curare e prevenire e sulle immense possibilità di bene da far crescere, stimolava potentemente il dinamismo della sua speranza e lo lanciava all'azione. Ripeteva spesso: «Coraggio, lavoriamo, lavoriamo sempre, perché lassù avremo un riposo eterno».
«Tutta la nostra confidenza - diceva - sia riposta in Dio e speriamo tutto da Lui». Tutto da Dio e da Cristo, «nostra speranza» (1Tim 1,1), nostro Salvatore. La speranza attende «Lui in persona, ma con tutta l'opera sua, la storia della salvezza, l'ordine cristiano» (G. Thils). «Tutti - esortava don Bosco - dobbiamo riporre in Gesù Cristo la nostra fiducia, credere in Lui, sperare in Lui, perché Egli solo colla sua Passione e Morte ci ha fatti figli di Dio, suoi fratelli, eredi dei medesimi tesori del cielo». E quanto non ha fatto per l'avvento del Regno; quanto non ha fatto per elevare, trasfigurare, umanizzare l'ordine del mondo, persone e cose.
La speranza è un atteggiamento onnipresente nella vita di don Bosco, quanto la fede e la carità. La speranza è l'attesa dei beni futuri, lo slancio verso il possesso di Dio, la certezza del Dio «davanti a sé»; e, inseparabilmente, la confidenza illimitata nella potenza soccorritrice del Padre, di Gesù. È la voce di coraggio dello Spirito Santo, che lo lancia in imprese ardimentose, inedite, non esenti da rischi. La Scrittura insegna che la speranza, anche se alata, non va esente da oscurità e tentazioni, non è sempre trionfante; comporta lotta, combattimento, prova: «Sono alcune settimane - scrive alla Marchesa M. Assunta Frassati - che io vivo di speranza e di afflizioni». Anche da questo punto di vista don Bosco si rivela grande nella speranza, perché capace di «sperare contro ogni speranza» e di tentare l'umanamente impossibile confidando nella forza di Dio.
Ripeteva spesso: «Posso tutto in Colui che mi conforta» (Fil 4,13). «Di questo nulla in paradiso». «Coraggio! la speranza ci sorregga quando la pazienza vorrebbe mancare». «Ciò che sostiene la pazienza deve essere la speranza del premio». E, come era solito fare, alzava la mano destra verso il cielo, indicando la sua piena fiducia nel Signore.
La frase di S. Paolo: «Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili con la gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18) è un suo motivo ricorrente. Ripetiamo ancora che la sua speranza era ferma e incrollabile, perché ancorata al 'già' della Pasqua del Signore, della Pentecoste, della realtà della Chiesa, dei sacramenti, delle primizie dello Spirito Santo, che ci sono date in germe, ragione non ultima della sua instancabile attività.
Tra i frutti più belli della speranza nella vita di don Bosco ricordiamo: la 'gioia' prorompente, insita nella certezza del 'già' della fede; la 'pazienza' inalterabile nelle prove, legata alle esigenze del 'non ancora'; la sua sensibilità pedagogica, nella quale hanno grande parte la fiducia nelle risorse positive della personalità giovanile, la magnanimità, l'avvedutezza, la santa furbizia, virtù tipiche di chi crede e spera fermamente che il suo futuro «non delude».
In una parola come in cento, quando esortava i suoi discepoli a «lavorare con speranza», don Bosco li invitava a guardare al paradiso per il quale siamo fatti; a confidare nell'aiuto onnipotente del Padre celeste e di Maria; ma, nello stesso tempo, ad impegnarsi a fondo per combattere i germi del male che infestano il mondo, e a sviluppare, ottimisticamente, quelli del bene, per costruire un avvenire migliore per la Chiesa ed il mondo. Questo significava per lui «lavorare con speranza».
 
La carità.
La carità teologale copre tutti gli atteggiamenti dell'esistenza cristiana, a livello di persona singola, di Chiesa e di mondo. Prima che norma etica e comandamento del Signore, è il «dono primo e più necessario» (LG, n. 42) del Padre per mezzo del Figlio e dello Spirito Santo, diffuso largamente nei nostri cuori (Rm 5,5). È un atteggiamento di amore radicale verso Dio, amato sopra ogni cosa, e verso il prossimo, amato per amore di Lui. Dio sempre al primo posto: «Dio è amore e chi sta fermo nell'amore sta in Dio e Dio in lui» (1 Gv 4,16). Solo il suo amore è causa e fonte del nostro amore verso il prossimo. L'amore di Dio e del Salvatore, una volta sperimentato, ci «incalza» (2Cor 5,14) ad amare tutti, buoni e cattivi, amici e nemici, ad amarli «nello spazio della persona divina sulla stessa linea dell'amore di Dio» (S. Dianich), che manda il suo sole sui giusti e sugli ingiusti.
La carità amabile è il tratto più caratteristico della personalità di don Bosco, la sua più insistita raccomandazione. Non possiamo ripeterci: il discorso sulla carità del Santo dei Becchi corre, in filigrana, si può dire, in tutte le pagine di quanto siam venuti dicendo. Anche l'aspetto della carità come morte a se stessi, come dedizione agli altri senza limiti e avversioni, in connessione vitale col Cristo crocifisso, è sempre sottesa. Qui ricordiamo solo che, se egli si sofferma di preferenza sull'esercizio della carità verso il prossimo, dà sempre la precedenza assoluta all'amore di Dio. Affermava: «Lavorare con carità verso Dio. Egli solo è degno di essere amato e servito, vero rimuneratore di ogni più piccola cosa che facciamo per Lui. Egli ci riama come un Padre affettuosissimo. Charitate popetua dilexi te. (Ger 31,3)».
Lo sguardo di don Bosco su Dio non è mai disgiunto dalla certezza che Dio ci ama con tenerezza infinita - come Padre - e dall'idea della ricompensa che riserva ai suoi eletti. Dio, diceva, è «infinitamente ricco e di generosità infinita. Come ricco può darci larga ricompensa per ogni cosa fatta per amor suo; come Padre di generosità infinita paga con abbondante misura ogni più piccola cosa che noi facciamo per amore».
«Fare per amore», «lavorare per amore» è tutta la sua vita, la sua grande raccomandazione. Lo prova questa testimonianza autorevole del Card. Cagliero, scelta fra molte: «L'amore divino gli traspariva dal volto, da tutta la persona, da tutte le parole che gli sgorgavano dal cuore quando parlava di Dio sul pulpito, in confessionale, nelle conferenze private e pubbliche e negli stessi colloqui familiari. Questo amore fu l'unica brama, l'unico sospiro, il più ardente desiderio di tutta la sua vita».
Don Bosco è certamente un grande innamorato di Dio, anche se sa abilmente celarsi.
Come modello pratico di vita da proporre ai suoi figli, non ha trovato di meglio che la dolce bontà di S. Francesco di Sales, la finezza della sua carità mite e paziente. Non gli importava, lui, figlio di umili contadini, che fosse un santo aristocratico, figlio di principi. Ciò che più ammirava in lui - «dottore della carità» - era il coraggio dimostrato nella difesa e promozione della fede, la costante mansuetudine e dolcezza. Tra i propositi della prima messa non a caso aveva scritto: «La carità e la dolcezza di San Francesco di Sales mi guidino in ogni cosa». E volle che da lui - immagine viva del Salvatore, come fu definito - la sua Congregazione prendesse nome.
Fugacissimi accenni che lasciano intravedere a quali livelli di profondità don Bosco abbia vissuto - ed inculcato agli altri con l'esempio e la parola - le virtù teologali della fede, speranza e carità, elementi costitutivi di ogni santità. Una fede, la sua, fondamento e base di tutto; una speranza radicata nel trionfo del Signore; una carità che è amore che si dà e si dona fino al sacrificio, partecipe come è dell'amore infinito di Dio.
 
 
Pietro Brocardo
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