"Amava il proverbio piemontese: “fè 'l bonom sensa eslo: fare il bonomo, ma non esserlo». «Sai - diceva un giorno ad un suo sacerdote - che cosa significa essere furbo? Saper fare il bonomo! Così faccio io: lascio dire tutto, ascolto, attendo bene alle parole, ma infine nel decidere tengo conto di tutto e vengo a conoscere perfettamente ogni cosa»."
del 07 dicembre 2011
          Le parole 'furbo', 'furbizia' possono avere, nell'uso corrente, un significato peggiorativo. In questo senso la Gazzetta operaia in un velenoso articolo del 15 ottobre 1887 dal titolo: Furbo don Bosco, lo presentava come un prete 'intrigante', 'astuto', 'scaltro', capace di stravolgere ogni cosa al proprio tornaconto.
Ma non manca la connotazione positiva. La furbizia «può essere infatti espressione di intelligente buon senso, di acuta prudenza nell'approfittare santamente e sanamente delle situazioni» (E. Viganò). Furbo è pertanto l'uomo previdente, accorto, sagace, che sa trarsi di impiccio nelle difficoltà giocando di intelligenza; l'uomo che non si lascia ingannare e sa raggiungere i propri scopi usando mezzi onesti, anche imprevedibili.
È in questa ottica che dobbiamo guardare la 'furbizia' di don Bosco, non dimenticando che, trattandosi di un santo, essa rimanda al dono della 'scienza' la cui proprietà è quella di perfezionare, sotto l'azione illuminatrice dello Spirito Santo, la virtù della fede, la quale porta a giudicare rettamente delle cose create nelle loro relazioni con Dio, ma in modo superiore a quello del cristiano comune.
 
Fare il bonomo senza esserlo.
La fama di prete santamente furbo don Bosco l'ebbe, praticamente, sempre. «Più volte - scrive G.B. Lemoyne - abbiamo udite persone estranee, oltre quelle che lo conoscevano da vicino, dire: 'È veramente singolare: quest'uomo le indovina tutte. Che furbacchione!'». In lui ci fu sempre l'antica furbizia del prestigiatore che incantava il suo piccolo pubblico; qualcosa della raffinata sapienza contadina, che sa difendere così bene i propri interessi.
Amava il proverbio piemontese: “fè 'l bonom sensa eslo: fare il bonomo, ma non esserlo». «Sai - diceva un giorno ad un suo sacerdote - che cosa significa essere furbo? Saper fare il bonomo! Così faccio io: lascio dire tutto, ascolto, attendo bene alle parole, ma infine nel decidere tengo conto di tutto e vengo a conoscere perfettamente ogni cosa».
La casa di Nizza attraversava un periodo di grave dissesto economico. Il direttore don Ronchail non osava più presentarsi ai benefattori importunati ormai da troppe insistenze. «Fatti furbo - gli dice don Bosco - i denari siano per i tuoi figli; le mortificazioni tientele per te». E voleva dire: «Non mollare; insisti, ma con santa furbizia».
Per fare il bene, il suo bene - osserva A. Caviglia - egli ha bisogno di tutti, «guelfi e ghibellini che siano». La sua abilità sta proprio in questo «approfittare di quel tanto di inconscio che è in loro e del lato buono che è - se non si vuole essere del tutto pessimisti - in ogni uomo, anche quando è votato ad un partito che di buono sembra aver poco».
Per liberare il bene che c'è nel cuore di ogni uomo, nota il suo primo biografo, sapeva allearsi, con mezzi onesti, con lo stesso amor proprio dei suoi interlocutori. Dovendo trattare con persone che gli erano ostili, mal disposte, quando «si avvedeva che ragioni di convenienza, di carità o di dovere a nulla avrebbero approdato, egli con arte finissima e senz'ombra di adulazione o di menzogna facevasi alleato il loro amor proprio e sapeva sollecitare in modo questa corda, da farla rispondere a quella nota che aveva in mente. Una parola di lode, un ricordo onorevole, un atto e un motto di stima, di confidenza, di fiducia, di rispetto faceva la maggior parte delle volte sparire ogni difficoltà o avversione».
Lo stesso comportamento usava con i suoi, abbondando sempre nella lode, con i benefattori, con tutti. Quando attribuisce alla madre l'età della figlia, o quando loda la fantesca avara di un suo amico parroco, sa di fare complimenti graditi dai quali non ne deriva che un bene, ed è questo che vuole.
Le sue profezie contro la casa reale, «funerali a corte», scatenarono le are del Conte Generale d'Angrogna, il quale, precipitandosi a Valdocco, coprì don Bosco di insulti minacciandolo seriamente. Il Santo reagì con molta calma, appellò all'onorabilità dell'uomo di armi che non poteva colpire un inerme, lodò il suo coraggio e valore, se lo fece amico. I due brinderanno insieme.
La telegrafica letterina con la quale ringrazia la contessa Girolama Uguccioni, che gli ha preparato il necessario per il viaggio da Firenze a Roma, dimostra con quanta grazia e furbizia sapesse conquistarsi i suoi benefattori. «Mia buona mamma. Nostro viaggio stupendo; pollastro ottimo ha fatto servizio stupendo. Vino eccellente: bottiglia rimasta interamente vuota».
Alla contessa Bonmariti Mainardi di Padova scrive: «L'ultima volta che ci siamo parlati, non ricordo precisa la cifra, ma parmi che volesse per ridere farmi un regalo di dieci o dodici mila lire. Non ricordo però bene. Ma accetto l'una o l'altra cifra: meglio la seconda».
A don Biagio Foeri, cooperatore di Lanzo, non esita a dire: «La spedizione di missionari è pubblicata, ma mi mancano i mezzi per effettuarla. Dire a Lei che vada pare cosa strana; dunque mandi un missionario a sue spese e le anime che egli guadagnerà a Dio saranno a suo merito».
C'è in questi, come in tanti altri piccoli tasselli della sua corrispondenza, semplicità e humor, ma come non rilevare quel pizzico di innocua furberia che gli era così abituale?
 
Non si lasciava ingannare.
Santamente furbo, don Bosco non era l'uomo che si lasciasse ingannare o al quale si potessero contare frottole e ordire tranelli. «Il Cardinale - scrive a don Dalmazzo - ti attendeva per farti fare il pulcinella. Ci caveremo anche da questa [situazione]».
Il ministro degli Esteri gli promette «mari e monti» per il viaggio dei suoi missionari: «Vedremo - scrive - se, lasciando a lui la proprietà del mare e dei monti, mi darà qualche cosa per passarli».
A Roma la costruzione della chiesa del Sacro Cuore ingoia cifre ingenti che non danno respiro al povero don Bosco; molti vogliono metterci le mani e tutto si complica. Allora il Santo taglia corto e scrive a don Dalmazzo: «Credo indispensabile che il Card. Vicario non si rompa più il capo nelle cose materiali e lasci al solo curato che paga il disbrigo degli affari». «Invece di biasimare quello che fabbrichiamo a Roma, io vorrei che certi signori pensassero a darci denaro».
Quando nel 1884 si tiene a Torino l'Esposizione nazionale dell'industria, don Bosco vi partecipa in grande con la migliore macchina tipografica che fosse allora sul mercato, la «regina delle macchine», come fu subito battezzata. I visitatori potevano assistere alla trasformazione degli stracci in carta, dalla carta alla stampa, dalla stampa alla legatura del libro. Tutti, esperti e visitatori, ritenevano don Bosco meritevole del primo premio. La commissione, anticlericale e massonica, gli assegnò invece solo la medaglia d'argento. Il Santo la rifiutò con dignità e fierezza: impose anche il silenzio stampa. Nella sua lettera di protesta dichiarava tra l'altro: «A me basta aver potuto concorrere coll'opera mia alla grandiosa Mostra dell'ingegno e dell'industria italiana e di aver dimostrato col fatto la Premura che nel corso di oltre 40 anni mi sono sempre dato a fine di promuovere, col benessere morale e materiale della gioventù povera ed abbandonata, anche il vero progresso delle scienze e delle arti».
Quando sono in gioco interessi superiori, don Bosco si rivela non solo abile diplomatico, ma anche lottatore audace: «Nelle cose che tornano a vantaggio [come le sue istituzioni] della pericolante gioventù o servono a guadagnare anime a Dio io corro avanti fino alla temerità» Al teol. Rho, suo compagno, fratello del provveditore agli studi e suo alleato nella pretesa che si chiudessero le scuole di Valdocco per difetto di insegnanti patentati, scrive con un linguaggio insolitamente duro, quasi tagliente: «Teologo Rho, Tu ti appelli alla legge che è superiore a tutto e a tutti. Io direi che la giustizia deve regolare tutte le leggi. Tu aggiungi che sono tre anni che il Sig. Provveditore insiste che io mi uniformi alla legge. Io risposi che tutti i provveditori, tutti i ministri di Pubblica Istruzione sempre hanno lodato, approvato, aiutato e sussidiato questo Istituto per oltre trent'anni. Ci voleva un amico, un compagno di scuola, a proporre la chiusura, e proporre la chiusura allora che con non leggero disturbo io mi era messo in tutta regola in faccia alla legge».
L'uomo pi√π comprensivo del mondo non tollerava che i suoi giovani fossero vittima di ingiuste vessazioni.
 
Beneficenza galante.
Don Bosco fu accusato di scaltrezza disinvolta, di maneggi subdoli ed altro; non solo dalla stampa - certa stampa - che gli era avversa, ma anche da persone bene intenzionate, le quali non riuscivano a comprendere la elevatezza dei suoi sentimenti e la rettitudine di intenzione con la quale agiva, unicamente mosso dal desiderio della gloria di Dio e della salvezza delle anime. Chi non lo conosceva a fondo, guardando solamente ai suoi gesti più audaci, a quell'esporsi con disinvoltura di fronte all'opinione pubblica, poteva giudicarlo un prete temerario, persino esibizionista. Un esempio lo possono offrire le lotterie pubbliche - non quelle interne che servivano a finalità educative - che organizzava spinto da necessità estreme: i suoi conti, infatti, erano sempre in rosso.
Quella del 1861 non poteva cadere in un momento più sfavorevole: le relazioni tra Stato e Chiesa erano tese quanto mai; la sua stessa casa era stata oggetto di due minute perquisizioni (1860-1861); ma c'erano tante bocche da sfamare, tante scadenze improrogabili. Si rimboccò le maniche e si mise all'opera. Mobilitò mezza Italia, per non dire tutta: il Sindaco di Torino, il marchese Rorengo Rorà, cui addossò la presidenza; i Prefetti delle provincie annesse; i Sindaci del Piemonte; i membri di Casa Reale. Furono interessati Pio IX, numerosi Vescovi, moltissimo clero, laici facoltosi, amici. I biglietti furono distribuiti, a migliaia, a chi li voleva e a chi non li voleva. Al barone Feliciano Ricci di Ferres, dopo un primo blocco, ne mandò un secondo, che fu respinto; ma don Bosco non mollò, come si ricava da questa simpatica letterina: «La Signora Baronessa ci ha rimandati i biglietti. Ci pensi bene: ché se mi troverò in assoluto bisogno io ricorrerò ugualmente alla sua carità ed essa, nella sua bontà, non saprà rifiutarsi. Così Ella manderà poi denaro senza che io possa dare biglietti di lotteria».
Fu un lavoro colossale, ricorda il biografo, fatto in gran parte a penna da don Bosco e dai suoi collaboratori: «Proporzioni colossali aveva preso il lavoro per mandar lettere e biglietti di lotteria ad ogni ceto di persone non solo in Torino ma nelle provincie». È certo in gioco il talento manageriale del santo, ma anche la sua accorta lungimiranza, il suo modo sagace ed originale di svolgere «in tempi tristissimi» un'attività di marca chiaramente religiosa, ma tutt'altro che contraria al clima patriottico del tempo. Tutti infatti vedevano che le somme ricavate andavano a vantaggio dei giovani e dei ceti più indigenti; tutti potevano rendersi conto che i preti, operando a pieno campo, non erano né degli oziosi né dei retrivi, come taluni pensavano.
Ai politici, credenti e non credenti, ai filantropi avversi alla Chiesa, a rutti in una parola, il Santo con le sue lotterie e le sue martellanti richieste di aiuto, offriva un «modo - come bene fu scritto - di beneficare, a così dire, galante», cioè bene accetto, non compromettente. E questa non è ingenuità.
 
Candida furbizia.
La furbizia di don Bosco si esprime anche in gesti semplici, quasi irrilevanti, ma che hanno un loro significato. Per dimostrare la sua riconoscenza all'Arcivescovo di Buenos Aires gli fa pervenire dall'Italia due cassette di vini sceltissimi: Bordeaux, Màlaga, Grignolino, ecc. Le bottiglie devono però avere l'apparenza di vino molto vecchio. Che cosa fa don Bosco? Scrive al suo segretario di spargere sulle bottiglie un po' di polvere «per nobilitare la nascita del vino e dare un'esistenza alquanto antica». Il dono sarà più gradito.
L'oggetto più pregiato di una delle tante lotterie non era stato ritirato dal vincitore: don Bosco, come risulta da testimonianze, organizzò una mini lotteria, ma il numero vincente pensò bene di tenerlo nelle sue tasche. Il premio fu suo.
Di passaggio sulla costa Figure dopo una fruttuosa questua fatta in Francia, i direttori della zona, sempre al verde come lui, gli andarono incontro nella speranza di ricevere qualche aiuto dal buon padre; ma questi con tutta semplicità e franchezza fece vedere che soldi non ne aveva. Ed era vero: prevedendo l'assalto dei suoi figli, per mezzo di persona fidata, li aveva dirottati a Torino presso don Rua.
Per dimostrare ai benefattori più insigni la sua gratitudine don Bosco si ingegnava per ottenere loro onorificenze sia ecclesiastiche che civili, ma voleva essere lui a comparire. «Se vi sono spese - scriveva a Roma a don Dalmazzo - saranno fatte, ma desidero farle io per poter dire che è un regalo. Cosa che frutterà assai di più». Desiderava poi che, nei limiti del possibile, la consegna dei diplomi avvenisse con solennità, scendendo a particolari che nel mutato clima culturale possono anche far sorridere, ma che avevano allora una sicura efficacia psicologica.
«Ricevuto il Breve di Benítez e il Diploma per il Sig. don Ceccarelli, - scriveva a don Cagliero - tu ti intenderai con don Fagnano. Porterai tutto in persona. Inviterai la Commissione del Collegio e gli amici dell'uno e dell'altro. Don Tomatis prepari un bel dialogo da recitarsi in quell'occasione; e due giovanetti sopra di un disco portino il Breve di Commendatore, in un altro il Diploma; ma tu e don Fagnano accompagnerete gli allievi, prenderete etc. e li consegnerete nelle mani loro. Sono cose cui si deve dare tutta la importanza».
La sua furbizia - egli parla anche di «sante industrie» - era non eufemisticamente 'santa'; non aveva nulla di tortuoso o di torbido, non degenerava nella scaltrezza; era sano senso pratico che lo muoveva ad usare ogni mezzo lecito per attirare l'attenzione sulla sua opera.
E santamente furbi voleva i suoi giovani. «Al mondo - diceva loro facendo sue le parole di S. Filippo Neri - vi sono molti pazzi e molti furbi. I furbi sono coloro che faticano e patiscono un po' per guadagnare il paradiso; i pazzi sono coloro che s'incamminano all'eterna dannazione».
Avendo parlato delle 'astuzie' usate da S. Atanasio per sventare le insidie dei nemici, terminava la sua predica con questa convinta esortazione: «Santi di questa sorte vorrei che vi faceste tutti voi. Sì, miei cari, cercate sul serio di farvi santi; ma di quei santi che, quando si tratta di fare il bene, sanno cercarne i mezzi, non temono la persecuzione, non risparmiano fatiche: santi astuti che cercano prudentemente tutti i modi per riuscire nel loro intento».
Furbizia, sì, ma come via alla santità.
 
 
Pietro Brocardo
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