Carcere: quale utilità sociale?

Dell'utilità della pena, del ruolo sociale del carcere si parla a corrente alternata, per ripicche; se ne discorre per eliminare un fastidio, non per rendere giustizia a chi è stato offeso, né a chi l'offesa l'ha recata.

Carcere: quale utilità sociale?

da Quaderni Cannibali

del 02 dicembre 2009

 

Quante volte abbiamo scritto sul perimetro, deliberatamente dimenticato, del carcere? Infinite volte ai silenzi assordanti sono seguiti sofismi e editti rimasti lettera morta. Ampie porzioni di società, istituzioni, governi, hanno speso parole e intenzioni, ma le opere condotte a termine sono state ben poche, nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane.

 

 

 

Dell'utilità della pena, del ruolo sociale del carcere si parla a corrente alternata, per ripicche; se ne discorre per eliminare un fastidio, non per rendere giustizia a chi è stato offeso, né a chi l'offesa l'ha recata. Se ne parla per confondere, per nascondere l'ingiustizia della «giustizia». Il detenuto non è un numero, né un oggetto ingombrante... Lo dice il messaggio cristiano, dapprima, e quello dell'umanità ritrovata poi, e invece la realtà che deborda da una prigione è riconducibile all'umiliazione che produce il delitto.

 

È proprio questa irrazionalità che genera pericolose disattenzioni, al punto da ritenere il recluso qualcosa di estraneo, pericoloso per sempre. Dimenticando che stiamo parlando di persone. Carcere duro, organici insufficienti, corpi speciali e corpi adagiati stancamente, lamenti e grida formano l'ossatura del carcere odierno, intriso di commiserazione, dove ogni dignità è calpestata.

 

Eppure, nonostante le fratture, le lacerazioni, le assenze siano le fondamenta su cui poggiano le ultime speranze, è palese l'involuzione che incoraggia ideologie senza alcun Dio, se non quello della forza. Nei decenni trascorsi tra sbarre e filo spinato, ho avuto netta l'impressione che incapacitare fosse l'unica risposta della società, e quindi dello Stato, dinanzi al dilagare della violenza.

 

Sebbene tremendo nel suo effetto, non sorprende l'intenzione di spersonalizzare e annullare l'identità del detenuto. Ma oggi che il carcere è per lo più un contenitore di numeri e di miserie, a che pro imbracciare le armi della sola repressione?

 

È vero, il detenuto non è la vittima, le vittime sono i feriti, gli offesi, gli scomparsi, ma il detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe riparare, se posto nella condizione di poterlo fare.

 

Vincenzo Andraous

http://www.avvenire.it

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