Cecilia: la fragilità, la forza, la gioia e la morte

Testimonianza di Cecilia Poli, una giovane madre, deceduta a soli 33 anni per una leucemia. Ricoverata per ricevere le prime cure, decide di tenere un diario: un inno all'amore e alla vita. “In questi giorni penso a come è cambiata la mia esistenza... Piombi in un'altra dimensione, rifai i conti con te stessa..."

Cecilia: la fragilità, la forza, la gioia e la morte

da Quaderni Cannibali

del 08 marzo 2011 “Mi sento roccia, pietra erosa dall’acqua, levigata dal vento, solcata dal tempo. Pulita però, modellata e resa bella, capace di ricevere e contenere, concava. Una culla di pietra liscia, venata da cento sfumature di rosso.Generosa, solida. Non è crollata nella tempesta, non si è spezzata, ma oggi il solco che la attraversa è un po’ più profondo. Forse la pietra così è più sinuosa”. 

          Cecilia Poli è una giovane donna, sposata da due anni con Marco e da tre mesi madre del piccolo Emanuele. Il 22 ottobre 2004 scopre di essere affetta da una grave forma di leucemia. Ricoverata per ricevere le prime cure, decide di tenere un diario: un inno all’amore e alla vita. Cecilia muore il 26 luglio 2007 a trentatre anni. Come pietra solcata dal vento. 'Diario di un’anima' (Paoline, 2011), è quel diario.

          26 ottobre 2004: “In questi giorni penso a come è cambiata la mia esistenza… Piombi in un’altra dimensione, rifai i conti con te stessa, capisci che se vuoi vivere non devi barare; devi sì essere ottimista, ma non ingannarti. Devi prendere atto dei rischi che corri e metabolizzarli, imparare a conviverci. E reagire. La mia vita non si è sospesa; è cambiata, drasticamente, ma è ancora vita e come tale vale la pena di essere vissuta al massimo. Io qua dentro leggo, scrivo, danzo, ho intenzione di studiare il portoghese; parlo con la gente, conosco storie nuove e immagazzino tutto come bagaglio personale di conoscenze e di esperienza. Penso che fino all’ultimo respiro si può dare qualcosa agli altri e questo è ciò che rende una vita degna di essere vissuta”.

           7 novembre 2004: “Non ho più sonno, penso a Marco [il marito]. Mi mancano le sue labbra di velluto e il miele del suo collo. Ogni attimo desidero le sue braccia pulsanti intorno alla schiena e i suoi sguardi da gazzella innamorata. Ieri sera, quando ho smesso di scrivere di mio figlio, mi sono messa istintivamente a danzare. E ho danzato la mia maternità. Ho danzato i sussulti del grembo per Emanuele, [il piccolo figlio] la forza delle braccia che lo sorreggono; i sorrisi che vorrei dedicargli e il pianto con cui lo rivedrò. Ho danzato la gioia e la gratitudine di essere madre; il coraggio e la forza, la dolcezza, la pazienza, la dedizione discreta e il desiderio feroce di protezione. Ho danzato il sospiro delle viscere che reclamano la propria creatura. Tutto questo ho danzato ieri sera, con ardore e devozione, davanti al crocifisso, prima di spegnere la luce”.

           8 novembre 2004: “La mia malattia. Io ho sempre chiesto a Dio, nelle mie preghiere, di darmi la capacità di fare, nella mia vita, qualcosa di grande, di nobile, che lasciasse un segno del mio passaggio nel mondo. Adesso mi pare che questa sia la mia grande occasione; attraverso il modo in cui io affronto la malattia posso dare una grande testimonianza di fede e di amore per la vita”.

           12 Gennaio 2006: “Ho una pace nuova nel cuore. Dal momento in cui mi sono venuti i dolori forti, domenica sera, e ho capito che il giorno dopo non avrei potuto vedere mio figlio, ho sentito anche entrarmi dentro una forza e una serenità mai provate. Adesso è tempo di questo. Lele sa. Capisce e capirà tutto. Sente quanto lo amo. La mamma dice che questa è una condizione di grazia concessa a pochi e che si definisce vivere il presente”.

 

Elisabetta Pittino

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