Improvvisamente il giovane docente ha avvertito un senso di vuoto e di impotenza, ha compreso che Dio non si manifesta attraverso la cultura accademica, snobistica e isolata nel suo superbo distacco dal mondo, ma nel silenzio, nella meditazione, nella testimonianza dell'amore per i più umili...
del 26 aprile 2007
 
 
Se davvero si tratta del suo ultimo film, almeno per quanto riguarda la fiction, “Centochiodi” va considerato non solo come l’addio al cinema, ma soprattutto come il testamento spirituale di Ermanno Olmi. Che cosa si nasconde dietro questo titolo curioso e bizzarro? Cento sono i lunghi chiodi da carpentiere con cui un giovane docente di filosofia delle religioni all’Università di Bologna inchioda al parquet della biblioteca le opere più rare e preziose contenute negli scaffali che ricoprono le pareti. Dopodiché il “professorino” (così i suoi allievi, proprio come i sodali della Comunità del Porcellino, hanno soprannominato il docente) sparisce dalla circolazione e si rifugia in una casupola semidiroccata sulle rive del Po.
Che significato può avere la sua fuga dopo quel gesto inconsulto e vandalico che ha gettato nella disperazione un vecchio prete, rettore dell’Università, per il quale il “professorino” rappresenta non soltanto l’allievo prediletto destinato a continuare la sua opera, ma anche un figlio putativo, l’erede naturale che fra l’altro ha manifestato l’intenzione di prendere i voti?
Improvvisamente il giovane docente ha avvertito un senso di vuoto e di impotenza, ha compreso che Dio non si manifesta attraverso la cultura accademica, snobistica e isolata nel suo superbo distacco dal mondo, ma nel silenzio, nella meditazione, nella testimonianza dell’amore per i più umili. Per questo rifiuta l’arroganza di un sapere che ha trascurato l’amore e la verità per trasformarsi in idolatria e si nasconde in una zona lungo le rive del Po, frequentata da persone semplici, gente alla buona, in maggioranza anziani dediti alla pesca, a partite a carte accompagnate da qualche bottiglia di Lambrusco e da qualche giro di ballo sulle note di un liscio. In questo modo un atto vandalico apparentemente incomprensibile e irresponsabile si trasforma in una parabola religiosa. Come Cristo ha offerto la sua vita per gli uomini, così il “professorino” offre la sua precedente esperienza per una vita nuova, fatta di francescana letizia.
C’è una bella scena che descrive la piccola comunità separata dal mondo, del quale non è se non un pallido riflesso, ed è quando le note di “Non ti scordar di me” che provengono dalla modesta balera all’aperto si smorzano sovrastate dalla stessa canzone che si leva dal battello sfavillante di luci e frequentato da gente elegante che scivola sulle placide acque del fiume. E’ il segnale che qualcosa sta per rompersi nel meccanismo di quel piccolo Eden, dove la ragione conciliata con la natura, la materia pacificata con lo spirito, l’innocenza e la semplicità della vita sembravano aver vinto i condizionamenti dell’esistenza. Come i pesci-siluro portati dal lago d’Aral hanno distrutto il patrimonio ittico del Po, così il progetto di un porticciolo per la nautica da diporto sta per spazzare via il rifugio della piccola comunità.
Quell’armonioso equilibrio è ormai alterato e le forze dell’ordine non tardano a rintracciare il “professorino”. Finalmente, il suo maestro può chiedergli il perché di quell’atto sconsiderato. L’allievo risponde con un rimprovero e accusa il vecchio prete con frasi taglienti: “Lei ama più i suoi libri che gli uomini. I libri servono qualsiasi padrone. Dio non parla con i libri.”
Chissà se Olmi ha letto “Kafka sognatore ribelle” di Michael Lowy, dove, alla pari dei “Centochiodi”, la rivolta del giovane Franz contro il padre Hermann e la sua opera sono interpretate come una generale protesta contro l’autoritarismo e contro il micidiale potere dell’apparato burocratico. Di sicuro ha letto e meditato “L’imitazione di Cristo” perché in quest’opera attribuita a Tommaso da Kempis si ritrovano tutti i temi di questo film in cui è ribadito il valore antintellettuale dell’umiltà e della carità, è affermata la necessità della solitudine e del raccoglimento, nonché la scelta fra il mondo della natura e della grazia da una parte e quello dell’egoismo e dell’avidità dall’altra.
I due testi sembrano calzare a pennello nel tratteggio del protagonista e delle sua doppia immagine. La prima è quella che si delinea nel rapporto padre-figlio, maestro–allievo. Ma proprio da questa interrelazione discende l’altra immagine: quella del Cristo (e la somiglianza di Raz Degan con il Nazareno non è casuale) e della sua esperienza terrena, riproposte in una parabola provocatoria che anticipa all’inizio del film lo scandalo della croce e il suo messaggio di salvezza, abbinando l’identità cristologica del protagonista a personaggi letterari che incarnano l’immagine dell’innocenza e della semplicità come il Candido di Voltaire, il principe Myskin dell’ “Idiota” di Dostoevskij e il Chance di “Presenze” di Jerzy Kosinski.
“E’ forse la follia la soluzione per la nostra esistenza?”. Una citazione di Jaspers chiarisce in parte il senso di una sfida spirituale che proprio ricorrendo alla provocazione tenta di stimolare risposte chiare. Il “professorino” cerca l’autenticità, la semplicità, ma se si volta indietro vede solo libri. “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con gli amici” dice al vecchio maestro che lo interroga, e quando si sente chiedere se non teme il giudizio di Dio risponde: “Il giorno del giudizio sarà lui (Dio) a dover rendere conto di tutte le sofferenze del mondo”.
Una frase che farà discutere (tratta dai “Fratelli Karamazov” di Dostoevskij, autore piuttosto citato in questi ultimi tempi, visto che anche “In memoria di me” di Saverio Costanzo pesca abbondantemente nelle sue pagine) e il cui più autentico significato, perlomeno stando alle ultime indicazioni fornite dalla critica psicoanalitica, dovrebbe andar ricercato nella malattia che anni or sono ha costretto Ermanno Olmi a una lunga e tribolata degenza. Alla domanda se la fede lo avesse sostenuto in quei frangenti rivoltagli da Luigi Vaccari più di un anno fa in un’intervista per “Il Messaggero”, il regista dell’ “Albero degli zoccoli” e “La leggenda del santo bevitore” rispondeva: “Quando ho avuto il problema di quell’abisso, ascoltavo chi, per confortarmi mi diceva: ‘Devi aver fiducia in Dio’. Non ne avevo: avevo fiducia nelle persone che volevano aiutarmi. E penso che Dio voglia proprio questo: se davvero è il creatore della vita, vuole che noi parliamo alla vita”.
Una frase che rispecchia alla perfezione il significato di “Centochiodi”, film di grande complessità, di amarezza e disperazione, ma nello stesso tempo, e non sembri una contraddizione, di speranza e di fede nello spirito dei Vangeli.
A differenza della tv, dove sembra prevalere l’agiografia, al cinema le tematiche religiose si misurano con il dubbio e, se non proprio con la provocazione, con interrogativi inquietanti, spesso senza risposta. Sant’Agostino diceva che il dubbio è il bastone sul quale l’uomo si appoggia nel suo cammino verso la fede. Probabilmente “Centochiodi” e “In memoria di me” sono un paio di bastoni consumati lungo questo cammino.
Enzo Natta
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