Che cosa c'entrano memoria e bellezza con la logica?

Se ci troviamo di fronte a un fenomeno sorprendente, non catalogabile nella nostra esperienza precedente, formuliamo un condizionale che lo introduca in una spiegazione nuova. Ma come facciamo a conoscere questa bellezza? Con quale criterio la giudichiamo? Come facciamo a sapere che esiste e che cos'è? Esiste in noi un criterio molto efficace: l'“istinto razionale”, la Bibbia “cuore”...

Che cosa c’entrano memoria e bellezza con la logica?

da Quaderni Cannibali

del 30 giugno 2011

 

 

          Che cosa c’entrano memoria e bellezza con la logica? È vero che la logica esprime solo verità necessarie per cui da certe premesse seguono inevitabilmente certe conclusioni? “Inevitabilmente” significa “meccanicamente”?

          Incominciamo dalla seconda domanda, sperando che essa poi illumini le altre due. Certo, ci sono tipi di ragionamento che sono necessari, il che significa che è impossibile che le premesse siano vere e la conclusione sia falsa. I sillogismi classici studiati a scuola sono di questo tipo. Se tutti gli uomini sono mortali e Socrate è un uomo, inevitabilmente Socrate sarà mortale.

          Si appoggiano sulla necessità anche le ardite formalizzazioni della logica tardo-ottocentesca e primo-novecentesca che si studia tuttora nelle università. Da Frege a Gödel questa logica ha garantito una comprensione molto più precisa della logica delle proposizioni (“se piove, prendo l’ombrello”), di quella predicativa (“qualche professore è sapiente”) e di quella modale (“è necessario che i tifosi del Torino soffrano”). Come si sa, il progetto di una comprensione dell’intera logica tramite questo impianto necessitarista ha trovato nei teoremi di incompletezza di Gödel un limite, nel senso che il grande logico ha mostrato che la formalizzazione, se coerente, non può mai essere completa.

          Per quanto utile sia questa logica necessaria (e lo è, nonostante i suoi denigratori), a essa sfuggono alcuni processi razionali, che sono stati normalmente classificati come “ampliativi”, nel senso che allargano la nostra conoscenza anche se perdono in necessità. L’induzione classica è il più noto di questi tipi di ragionamento: un certo numero di campioni esemplificativi mi conduce a identificare una legge generale. Se i campioni sono stati scelti adeguatamente (a caso, ecc.) e l’ipotesi è limitata, l’induzione ha buone probabilità di essere utile alla ricerca.

          Tuttavia, rimangono fuori anche da questo tipo di ragionamento processi logici come: certe scoperte scientifiche particolarmente significative (l’aneddoto della mela di Newton ne è una buona metafora), la diagnosi medica, i ragionamenti indiziari (il caso di Cogne), le certezze morali in situazioni nuove (mi fido o non mi fido?). Qui la necessità sembra persa del tutto. Ma si perde anche l’uso della ragione?

          C.S. Peirce, celebre logico americano della fine del XIX sec., aveva elaborato un processo per tutti questi casi. Si chiama abduzione o retroduzione ed è il passaggio dal conseguente all’antecedente: nel caso precedente sarebbe “prendo l’ombrello, quindi piove”. Nella logica classica si tratta di un errore (fallacia), ma se usciamo da una logica necessaria, esso può essere giustificato. Come?

          Se ci troviamo di fronte a un fenomeno sorprendente, ovvero non catalogabile nella nostra esperienza precedente (altrimenti si tratta di un’induzione), possiamo formulare un condizionale (se la spiegazione fosse X, allora il fenomeno sorprendente si spiegherebbe) che lo introduca in una spiegazione nuova e convincente, che possiamo poi verificare deduttivamente (se così fosse, le conseguenze sarebbero...) e induttivamente (con una verifica sui campioni). Ma come facciamo a trovare la spiegazione in cui il caso sorprendente possa essere letto? Qui Peirce aveva le idee meno chiare ma ha lasciato delle indicazioni che possono essere sistematizzate nel seguente modo.

          Troviamo una spiegazione leggendo dei segni che si trovano al di sotto della soglia simbolica, cioè leggendo segni che non sono parole o simboli - che richiamano il loro oggetto tramite un’interpretazione -, ma leggendo segni più elementari, icone e indici, che richiamano il loro oggetto per similarità e connessione (la mela che cade come segno di un ordine - che sarà una forza - e la sua connessione con il resto dei fenomeni di “caduta”). In questo modo leggiamo dei segni secondo la loro bellezza e la loro plausibilità nel contesto. Due modi diversi per intendere estetica ed etica in senso gnoseologico: l’ideale a cui il ragionamento si ispira e la concordanza tra l’ideale e il ragionamento in corso. I migliori gialli adottano questa strategia (si veda Gli assassinii della Rue Morgue di Poe) come fanno anche le grandi scoperte scientifiche e le certezze morali decisive.

          Ma come facciamo a conoscere questa bellezza? Con quale criterio la giudichiamo? Come facciamo a sapere che esiste e che cos’è? Esiste in noi un criterio, spesso vago (che vuol dire “non determinato”) ma molto efficace: Peirce lo chiamava “istinto razionale”, la Bibbia “cuore”. Mi sembra che sia lo stesso “strumento” che Agostino indicava con il termine “memoria” nel libro X delle Confessioni. Uno vuol fare il soldato per essere felice e un altro vuole non fare il soldato per essere felice. Dove ha conosciuto la felicità per usarla come criterio? Essa si trova inscritta al fondo della nostra ragione e rimane come criterio insuperabile, anche se spesso solo indeterminato, più propenso a non essere soddisfatto che ad accontentarsi, a dire dei no piuttosto che dei sì (come diceva Socrate del suo daimon), ma segno inequivocabile che al fondo dei nostri ragionamenti, la nostra ragione è fatta per una bellezza senza fine.

Giovanni Maddalena

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