«Che fatica qui vivere la fede insieme»

Gli italiani invece danno l'impressione di un popolo stanco di essere cristiano e di portare addosso la fede come un vestito scomodo. c'è bisogno di un rilancio della fede, di un risveglio religioso e della consapevolezza di ciò che vuol dire essere credenti, in un Paese in cui la fede ha significato molto.

«Che fatica qui vivere la fede insieme»

da Quaderni Cannibali

del 16 marzo 2011

 

 

Don Denis, congolese da dieci anni parroco  in provincia di Roma: «Venite in chiesa come si va alla posta...»

           «Come vedo la 'cattolica Italia'? Sicuramente c'è bisogno di un rilancio della fede, di un risveglio religioso e della consapevolezza di ciò che vuol dire essere credenti, in un Paese in cui la fede ha significato molto. In Africa un proverbio recita: 'Non puoi rinnegare il tuo padre anziano'.

          Beh, gli italiani invece danno l'impressione di un popolo stanco di essere cristiano e di portare addosso la fede come un vestito scomodo. Ma non possiamo rinnegare le nostre radici, l'appartenenza: sarebbe una finzione illusoria». Si sente un po' italiano don Denis Kibangu Malonda, da un decennio parroco di Santa Maria Goretti a Villalba di Guidonia, circa quattromila anime in provincia di Roma ma in diocesi di Tivoli. Nella capitale è approdato 23 anni fa: era un giovane seminarista ventiquattrenne, inviato per motivi di studio dal vescovo di Boma (Repubblica Democratica del Congo).

          Nel ‘92 l'ordinazione, poi la specializzazione in teologia dogmatica alla Pontificia Università Urbaniana e quella in scienze patristiche all'Augustinianum. Ma la sua esperienza pastorale inizia subito come fidei donum nella diocesi di Tivoli, dove inizia come viceparroco a Collefiorito, poi da parroco a Roccagiovine. Dove capisce che vuole «fare il prete all'africana in Italia: ogni famiglia era la mia famiglia, ogni casa era la mia casa. Entrare in contatto diretto con ogni fedele mi permise di penetrare nella cultura locale, aiutando i credenti a superare la paura delle differenze». Nel 2000 chiede l'escardinazione al suo vescovo di Boma, che accetta dopo un'iniziale riluttanza: «Nella mia diocesi ci sono molti presbiteri, mentre a Tivoli siamo pochissimi: circa 80 diocesani per 84 parrocchie; ho capito che la mia missione era qui, pur continuando a sostenere la mia Chiesa africana». E i fatti danno ragione a don Denis: oltre al suo incarico di parroco, è direttore della Migrantes diocesana e coordinatore nazionale degli africani cattolici francofoni (circa 30 comunità sparse dalla Lombardia alla Sicilia, seguite da una decina di sacerdoti); infine insegna come docente invitato all'Urbaniana.

          Terra italiana come frontiera missionaria, dunque. Perché il contesto tiburtino, limitrofo a quello romano raggiunto dai numerosi pendolari, necessita di un primo annuncio: «Spesso i cosiddetti 'lontani' - ma anche i fedeli tiepidi - si presentano in parrocchia per chiedere un sacramento o un documento; non desiderano, se non in modo inconscio, iniziare una ricerca del Signore, ma pretendono un servizio a cui pensano di aver diritto. Li definisco 'utenti' della parrocchia come istituzione pubblica: si rapportano al prete come se fossero alla posta o in banca». Ma anche i praticanti hanno frequentemente «una superficiale esperienza spirituale, per cui sono facile preda di preconcetti e giudizi sulla Chiesa e sulla parrocchia, sui sacerdoti e sul parroco, sui fedeli più assidui della comunità. Oppure vogliono mettersi in evidenza e il loro obiettivo è il protagonismo personale».

          Si fa fatica a scardinare l'individualismo, dunque. Anche per questo il prete congolese ha pensato di intitolare il piano pastorale parrocchiale «La Chiesa siamo noi». Perché il senso di comunità appare deficitario, non solo in quel di Tivoli; gli africani lo avvertono in modo particolare sbarcando nella penisola: «Sembra che ciascuno viva per conto proprio, mentre la sensibilità religiosa dell'africano nasce dalla fede in Dio unico creatore e Padre di tutti, manifestandosi nel vivere insieme, in quanto famiglia allargata unita. Si dice 'Chiesa formato famiglia', però in ambito sociale è diffusa una radicata visibilità della Chiesa come edificio, potere, forza di opinione.

          Eppure sempre di meno si sente l'impatto di questa Chiesa nella vita degli uomini che se ne professano membri: tutti ne parlano come di una realtà estranea a sé». E poi c'è la freddezza delle liturgie, che somigliano più a un precetto da adempiere che a un momento da condividere «esprimendo la fede con gioia, che per l'africano si rende visibile e contagiosa».

          Non manca un certo provincialismo, che don Kibangu Malonda vive quale «parroco-immigrato, di colore: una situazione già di per sé particolare che richiede un continuo e reciproco dialogo interculturale con l'ambiente ecclesiale circostante». All'inizio del ministero, celebrava la Messa e confessava, «ma mi sembrava troppo riduttivo, avendo consacrato tutta la mia vita al Signore e al servizio dei fratelli. Allora formai un gruppo giovanile in parrocchia, che dopo due mesi contava già oltre cinquanta ragazzi. Un mormorio cominciò a farsi sentire: 'Ma don Denis li formerà con la mentalità africana!'. Allora mi accorsi che il mio modo di pormi portava naturalmente con sé una carica specifica e che avevo un dono da offrire alla mia Chiesa qui in Italia. Ma capii anche che per gli altri non sarebbe stato così naturale aprirsi e accogliere il mio 'essere africano'. Perché, nonostante la globalizzazione, l'africano e l'Africa continuano a essere percepiti in Occidente come i poveri a cui si deve donare».

          Inoltre la popolazione locale, composita in partenza perché formata da persone provenienti da diverse regioni italiane, si ritrova a confrontarsi con un numero crescente di romeni, peruviani e altri latinoamericani, ucraini e africani di vari Paesi. «Occorre aprirsi a una visione multiculturale della vita. La nostra diocesi vive questa realtà, che a nome del vescovo devo per primo rendere accessibile e permeabile alla missione della Chiesa, chiamata a guidare il popolo italiano a cogliere la ricchezza non solo liturgica dell'incontro con gli immigrati», osserva il parroco quarantaseienne. C'è da imparare, in questo vivere gomito a gomito, a non sfruttare le badanti, «rispettando i loro diritti di riposo e di frequentare la parrocchia. Dai romeni, poi, ricevo lezioni nella trasmissione della fede ai figli, mentre i ragazzi italiani si allontanano dopo la cresima. È fondamentale la testimonianza dei genitori, a volte più presi dal lavoro e dalla carriera che dalle questioni dell'emergenza educativa».

 

 

 

Laura Badaracchi

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