Che fine hanno fatto le mie piume di gallina? da Giovani per i Giovani

Il paese è piccolo e la gente mormora. È normale. Ma tutti diciamo che non dovrebbe essere così. E allora, che si fa? Si racconta che un giorno una donna, notoriamente chiacchierona, andò a confessarsi da San Filippo Neri. Egli, dopo averla ascoltata attentamente...

Che fine hanno fatto le mie piume di gallina? da Giovani per i Giovani

da GxG Magazine

del 03 novembre 2008

Si racconta che un giorno una donna, notoriamente chiacchierona, andò a confessarsi da San Filippo Neri. Egli, dopo averla ascoltata attentamente, le diede una curiosa penitenza: “Vai a casa, spenna una gallina, e spargi le sue piume per tutta la città. Poi torna da me”. La donna, benché stupita, fece ciò che il confessore le aveva comandato e, tornata, si senti dire:”La penitenza non è finita. Ora va’ e raccogli tutte le piume che hai sparso”. “Ma è impossibile”, rispose lei sconsolata. “Ed è così per ciò che hai fatto con le tue chiacchiere. Non è possibile rimediare al male che è stato fatto”.

Questa storiella piace a tutti. E tutti dicono “è vero, è vero”. Allora c’è qualcosa che non capisco. La mormorazione è male, tutti sanno che è male, ma d’altra parte è considerata normale, come una male necessario. Mi spiego. Tutti noi siamo, praticamente da sempre, protagonisti e osservatori di relazioni sociali. Abbiamo scoperto ben presto che ognuno è fatto a modo suo, ma anche che certe caratteristiche sono comuni un po’ a tutti. E abbiamo capito altrettanto presto che non ci piacciono tutti quelli che incontriamo, né possiamo piacere a tutti. A conseguenza di ciò, abbiamo accettato la mormorazione (il pettegolezzo, la maldicenza) come frutto, acido certo, ma di cui accontentarsi, delle nostre relazioni. Peggiore del male è, forse, l’abitudine ad esso. Perché ci toglie la volontà di intervenire. Non solo. Presto offusca la nostra percezione del male, impedendoci mano a mano di scovarlo. E infatti, nel modello relazionale che il nostro mondo ci propone, la mormorazione è parte integrante della vita sociale, mascherata da “diritto a esprimere le mie idee”, perché “siamo persone vere che non nascondono ciò che sentono”, fino a “lui/lei mi ha fatto questo, si merita la mia reazione”, e probabilmente molto altro ancora.

Qualcuno non è d’accordo. Dice che ci sono almeno due tipi, ben diversi, di questa cosiddetta mormorazione: per capirci, distingueremo in “cattiva” e “neutra” (“buona” appare eccessivo). La mormorazione cattiva si identifica facilmente quando è pianificato l’intento di nuocere alla persona in oggetto, utilizzando ogni possibile canale comunicativo, sfruttando ogni occasione per, diciamolo in termini evocativi, “spettegolare”, magari aggiungendo o togliendo liberamente particolari più o meno interessanti. La mormorazione neutra, invece, è ben altra cosa. Significa dire ciò che si pensa della persona in oggetto, utilizzando ogni possibile canale comunicativo, sfruttando ogni occasione per farne notare i difetti, gli errori, le incoerenze, tutti veri o presunti. Tutto in nome della libertà di opinione, magari. Sì, è indubbiamente ben altra cosa. In ogni caso, per trovare una risposta soddisfacente a tutta la questione, bisogna andare alla radice.

 

Quali sono le motivazioni che creano la mormorazione?

Perché coloro che incontriamo cadono, così come noi stessi cadiamo, in quest’abitudine? Rileggendo ciò che è stato scritto, potrebbe essere più immediato domandarsi perché non farlo. Voglio dire, abbiamo visto che è la reazione più istintiva, è la normale conseguenza della nostra geniale scoperta: non tutti ci piacciono, perché dunque frustrarsi e togliersi la libertà di pensare liberamente? E ora che ci siamo riempiti di domande, vediamo di trovare qualche risposta.

Innanzitutto, un problema a cui va trovata presto una soluzione è: ciò che è istintivo è necessariamente giusto? Può essere istintivo cercare il fresco in agosto con quaranta gradi, e si può arrivare a dimostrare istintivo anche un pluriomicidio. Possiamo stare qui a dissertare su quale sia la soglia che rende l’istinto accettabile, soglia che potrà essere diversa per ognuno. Il punto è che né l’istinto, e diciamola tutta, neanche il solo nostro personalissimo ragionamento, hanno la capacità di dirci ciò che è giusto. Non solo, bisogna anche mettere in conto che ciò che personalmente sentiamo e pensiamo, beh… può essere sbagliato. Chiarito questo, arriviamo al punto principale: qual è il modo giusto di vedere me stesso, chi mi sta intorno, e le relazioni che si creano tra noi? Cos’è che mi dovrebbe impedire la mormorazione, e tuttavia non privarmi dei miei occhi sugli altri, della mia capacità di pensare e di valutare?

Noi proponiamo un cambio di prospettiva: la nostra vita non è un caso, come non lo è il fatto di avere certe persone intorno. La nostra vita è preziosa agli occhi del Signore, che ha a cuore la nostra realizzazione e la nostra felicità, quella vera. Ogni piccolo segno lungo la nostra esistenza è un indizio da cogliere per gustare, ora e un giorno, il Paradiso. Anche chi non ci piace è un indizio, è un gradino per allenare la nostra capacità di amare, per guardare il mondo con i Suoi occhi e amarlo con il Suo cuore.

Ma non finisce mica qui.

 

La correzione fraterna

“Perciò bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Nell’ira non peccate, non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo. (…) Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. (…)

Scompaia da voi ogni asprezza , sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4, 20 e ss.).

In altre parole, non sempre dire agli altri ciò che si pensa circa i loro gesti o i loro comportamenti è sinonimo di mormorazione, di “pettegolezzo”. Non lo è nel momento in cui la critica viene mossa direttamente alla persona, e non a qualcun altro, non lo è quando ci si sente spinti a parlare da uno spirito comunitario volto al miglioramento della persona, non lo è quando dietro il “dire cosa fai di sbagliato”, c’è un sentimento di preoccupazione nei confronti della persona verso cui ci si rivolge.

Tutto questo, nelle comunità cristiane, è chiamato correzione fraterna.

La correzione fraterna non è maldicenza, o chiacchiera, o diffamazione. La correzione serve a sanare, non a creare un’ombra sulla persona con cui si parla, nei confronti di altri. Si parla per aiutare le persone nella correzione. Bisogna evitare di fare processi alle persone senza che possano difendersi. Se vi sono fatti o testimonianze di rilievo, si devono far confrontare con l’interessato, al fine di fare luce sulla verità quanto più possibile.

Tutti sono chiamati a correggere i propri fratelli quando si accorgono del loro errore. In modo speciale chi ha una responsabilità pastorale che lo pone a custodia dei suoi fratelli deve sentire il dovere morale di intervenire dove avverte l’errore del fratello.

L’atteggiamento deve essere sempre di massimo rispetto ed amore, altrimenti la correzione non giunge al cuore. Bisogna però evitare di correggere con senso di giudizio o critica, con animo risentito o spinti dalla rabbia, altrimenti gli atteggiamenti contraddiranno i sentimenti e questo renderà inutile il richiamo. Don Bosco stesso invita i suoi figli spirituali a correggere sempre quando l’animo si è rasserenato!

La correzione non è mai una risposta “a caldo”, altrimenti rischia di compromettere la sua efficacia. Deve trattarsi sempre di un intervento moderato, fatto con discernimento, in preghiera e sotto l’azione dello Spirito Santo. Altrimenti meglio non farlo affatto!

 

Perché accogliere la correzione fraterna?

Perché accoglierla è segno di santità e di saggezza. L’umiltà di riconoscere il proprio errore permette di crescere, aumenta la stima e la considerazione degli altri, non mette in gioco la reputazione delle persone, anzi, la arricchisce in rispetto. E’ in un atteggiamento di umiltà che si mostra la vera saggezza: è saggio non chi non sbaglia mai, ma chi sa correggersi del suo errore e fare tesoro dei suoi limiti per farsi aiutare dai fratelli.

La correzione fraterna deve servire per ristabilire la comunione. Senza la comunione e nell’errore la preghiera non passa, lo Spirito Santo è Spirito di amore, pace, gioia, comunione, sincerità, santità…e sperimentare il Suo Amore attraverso l’aiutarsi a crescere e a migliorarsi a vicenda, è un grande gesto che i cristiani sono chiamati a fare.

L’indifferenza da parte di qualcuno che non partecipa alla vita di chi gli sta accanto è una colpa grave ed intollerabile, sia da parte di chi ha responsabilità, sia di chi non ce l’ha. Il fratello è parte di te: siamo infatti membra gli uni degli altri, per questa ragione è impossibile non sentirsi coinvolti nella sorte del nostri amici e compagni.

La correzione fraterna deve partire da Dio e a Dio ritornare, e nel momento in cui si compie deve parlare di Dio, solo così sarà fatta per fare del bene a fratello, e non per mormorare.

Un grazie a padre Alberto Paccini per gli spunti su cui abbiamo lavorato

Mery Momesso, Andrea Pregnolato

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