“Chi accoglie uno solo di questi piccoli che credono in me, accoglie me”

«Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno». Espressioni che san Giovanni Bosco ha fatto proprie e vissuto con intensità di cuore e di volontà, testimoniando ai piccoli il suo affetto di padre e amico e indicando agli educatori le vie più appropriate per svolgere il loro compito, con lo sguardo rivolto sempre a Gesù.

“Chi accoglie uno solo di questi piccoli che credono in me, accoglie me”

da Don Bosco

del 01 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));  OMELIA DELL’ARCIVESCOVO DI TORINO, MONS. CESARE NOSIGLIA, ALLA S. MESSA IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SAN GIOVANNI BOSCO (Torino, basilica Maria Ausiliatrice, 31 gennaio 2012)              L’accoglienza delle nuove generazioni va oltre un atteggiamento di benevolenza e diventa via per entrare in relazione con Gesù, mediante la fede e la conversione del cuore, perché, come ci ricorda ancora Gesù stesso nel vangelo: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno». Espressioni che san Giovanni Bosco ha fatto proprie e vissuto con intensità di cuore e di volontà, testimoniando ai piccoli il suo affetto di padre e amico e indicando agli educatori le vie più appropriate per svolgere il loro compito, con lo sguardo rivolto sempre a Gesù, il primo e vero educatore, autorevole Maestro di verità e di vita per piccoli e grandi. Accogliere per San Giovanni Bosco significava non solo aspettare che i ragazzi e giovani lo cercassero, ma farsi trovare là dove essi vivevano, in mezzo a situazioni di vita spesso difficili e a problematiche familiari e sociali complesse. 1. Don Bosco alla ricerca dei giovani           Se pensiamo all’azione missionaria di San Giovanni Bosco, lo vediamo sempre in via, uscire dalle sacrestie e immergersi in mezzo ai giovani per le strade, per incontrarli nei luoghi impervi sotto il profilo anche morale che essi vivevano, avvicinarli con amore e benevolenza e invitarli all’Oratorio, dove potevano trovare rifugio, accoglienza, libertà di esprimersi con la loro creatività. Il suo metodo educativo poggiava molto sulla autorevolezza dell’educatore che testimoniava loro la bontà e l’affetto del Signore, insieme al richiamo alla loro responsabilità. Mostrava così che la via del bene era più gioiosa e bella di quella della strada e dei luoghi dominanti nel loro mondo di violenza subita e data, di divertimento sfrenato o comportamenti disonesti magari anche solo per procacciarsi da mangiare o dei beni materiali, organizzati in bande che scorrazzavano nei quartieri di giorno e di notte.           I suoi “ragazzacci”, come li chiamavano i suoi confratelli sacerdoti, erano conquistati dal cuore prima che da servizi o ricompense di alcun genere. Nessun giovane e ragazzo era considerato perduto, irrecuperabile, perfino chi aveva commesso colpe gravi ed era in carcere non veniva trascurato. Ebbene, mi chiedo: oggi che farebbe don Bosco di fronte a un mondo giovanile che è stato cresciuto nella bambagia del consumismo, in famiglie che hanno cercato di dare ai figli il massimo di quello che i genitori non hanno avuto nella loro giovinezza travagliata da guerre e povertà e si trova di fronte a una delle crisi più dure, determinata proprio da quel mondo che sembrava aprire vie permanenti di progresso economico e finanziario, per tutti? 2. Assumere le proprie responsabilità come educatori           Credo che il primo ammonimento che ci rivolgerebbe sarebbe quello di invitare gli educatori, genitori, sacerdoti, docenti e adulti ad assumere con rigore morale le proprie responsabilità in ordine non solo al loro benessere presente che sta sfumando, ma anche al futuro dei propri figli e dei giovani, assumendo su di sé i sacrifici necessari per ridare speranza al domani delle nuove generazioni.           È questione di responsabilità collettiva certo, ma anche individuale di ciascuno, ed è questione di coraggio nel riportare in primo piano la proposta cristiana della sobrietà, del sacrificio per amore, della condivisione non solo nei diritti ma anche nei doveri comuni, della rinuncia a privilegi acquisiti per mostrare con fatti concreti che si crede nel bene comune prima che di quello individuale e che la misura alta verso cui tendere non è la figura di chi possiede e ha una posizione sociale invidiabile, ma è quella degli ultimi, di chi è bisognoso di tutto e di tutti. Perché se non crescono la giustizia, l’equità e l’amore per tutti non crescerà nemmeno per se stessi e saremo sempre privi di qualcosa di decisivo per edificare una società più a misura di Dio e dell’uomo insieme.            Per questo faccio appello a voi cari salesiani, religiosi, religiose e laici, ma lo faccio a tutta la nostra Chiesa e società, a ritrovare nella profezia di San Giovanni Bosco non un ricordo ideale, un’utopia, ma una via possibile oggi e realizzabile per imitarlo nelle specifiche pieghe della storia e dei tempi cambiati, in cui tuttavia il giovane resta tale nella sua persona e nelle sue più profonde necessità spirituali, umane e sociali. Evangelizzazione, lavoro, comunità aperta a tutti i giovani: su questi tre pilastri complementari si gioca il futuro del rapporto tra Chiesa e giovani, ma anche tra società attuale e giovani. 3. La sintonia tra la radicalità del Vangelo e i giovani           C’è una stretta convergenza e sintonia, direi nostalgia, tra il Vangelo e i giovani, perché il vangelo parla di futuro e i giovani sono protesi verso questo orizzonte. La proposta di don Bosco era molto impegnativa, volava alto con i giovani e proprio per questo poteva sembrare utopistica, quando invece si rivelava la più attesa e desiderata. Perché è proprio dei giovani sfidare l’impossibile umano, tentare traguardi estremi e anche rischiosi. L’edulcorazione del vangelo ne depotenzia l’idealità e l’appiattimento del discorso su proposte possibili e ritenute belle e affascinanti insegue i messaggi dominanti e per questo lascia completamente indifferenti i giovani. Occorre riportare al centro della evangelizzazione la radicalità forte della Parola di Gesù e del suo esempio, totalmente sbilanciato su Dio e su una assolutezza dell’amore che da esso deriva.           Il lavoro si innesta in questo e rende concreta l’evangelizzazione perché obbliga a confrontarsi con la fatica, la responsabilità, la scelta, il rapporto difficile con gli altri, la delusione dei propri ideali alti e la necessità di abbassarsi per vie di umiltà e di sacrificio spesso anche in perdita. Nella mia lettera alla città affermo: «Occorre dimostrare ai giovani in forme efficaci che si crede nelle loro capacità e creatività, che il mondo degli adulti ha fiducia in loro non solo a parole, ma con mirate scelte politiche, economiche e culturali. 4. Cercare e incontrare i giovani ovunque essi si trovino           Questa è l’unica via per richiamarli alle loro responsabilità sul futuro, perché vivano da protagonisti e non assumano il disagio generazionale e la precarietà di vita e occupazionale come alibi al disimpegno». E ciò va fatto con l’apporto consapevole di comunità aperte a tutti i giovani e protese a cercarli ovunque essi si trovino. Di fatto si ha paura di aprire la pastorale, la presenza della comunità attraverso i giovani stessi ai luoghi o non luoghi dove i giovani oggi si ritrovano, per vivere liturgie e celebrazioni alternative a quelle che facevano in chiesa o nella parrocchia e in oratorio. Si tratta da un lato di formare tutti i giovani che frequentano le nostre realtà a entrare in questa prospettiva ampia di riferimento più coraggiosa nel proporre stili di vita e di annuncio di Cristo fuori delle consuete occasioni o luoghi ecclesiali; dall’altro lato, di preparare apposite équipe di giovani e giovani adulti che si investano del problema di promuovere una presenza oratoriana – nel senso di essere comunque collegata a un oratorio – nel concreto tessuto dei luoghi (o “non-luoghi”, come li chiamano i sociologi) ed esperienze giovanili: la piazza e la strada, i posti di divertimento, dello sport e tempo libero, i supermercati e così via.            Questi sono oggi i nuovi areopaghi dove deve risuonare la Parola dell’amicizia e quella ben più impegnativa, ma ad essa collegata, dell’annuncio cristiano. La Chiesa non può accontentarsi di aspettare che ritornino i giovani, ma deve aprire le porte, andare al largo, sfidare la tempesta sia culturale che ambientale, massmediale e digitale, insomma il nuovo mondo dove i giovani nuotano come il pesce nell’acqua. 5. Proseguite con decisione           Mi permetto di rivolgervi un ultimo incoraggiamento: proseguite con decisione e incrementate ogni sforzo e impegno, in tutte le vostre comunità e strutture, nel dialogo e nell’incontro di amicizia con i giovani immigrati. Sono un numero crescente, sono la parte più creativa e aperta della società e come tale vanno dunque coinvolti, resi protagonisti delle nostre pastorali giovanili, dei nostri oratori, dell’azione missionaria di cui parlavo. Molti di loro, cattolici e cristiani, possono essere trainanti anche per raggiungere i giovani che vivono ai margini delle nostre comunità, possono insegnare ai nostri giovani il coraggio e la spinta ideale a uscire da sé, per entrare in un circuito esistenziale e spirituale con tutti i loro coetanei.            Infine, vi consegno anche un motivo di preghiera a San Giovanni Bosco. Egli ha lavorato per unire tutti i giovani e renderli protagonisti del proprio futuro, ma anche di quello della Chiesa e della società. La frammentazione del mondo giovanile rende impossibile dare forza e vigore alla loro presenza e azione incisiva nella comunità. C’è bisogno che i giovani prendano consapevolezza della loro forza se operano insieme, camminano insieme e assumono fino in fondo le loro responsabilità. Da qui, la proposta di avviare un percorso sinodale nella nostra Diocesi, in cui tutti i giovani, senza preclusione, siano messi in grado di esprimersi e di collegarsi per favorire una strada insieme (questo significa “fare sinodo”), ritrovando motivazioni e individuando vie convergenti di azione concreta per rinnovare il domani della Chiesa e della società.           Non un evento, dunque, ma un percorso stabilito e definito nelle sue tappe dai giovani stessi, ma che veda via via il coinvolgimento anche degli adulti e della comunità, perché non sia isolato e chiuso solo dentro le pur importanti problematiche giovanili. I giovani come anima del rinnova mento, soggetti e non solo oggetti di cura pastorale e sociale. Diamo la parola ai giovani, ascoltiamo le loro proposte che esprimono con mille linguaggi a volte contrapposti o estranei al mondo adulto, e proprio per questo stimolanti se presi sul serio.           Sì, aiutiamoci in questi anni di preparazione al grande evento del 2015, quando celebreremo i 200 anni della nascita di San Giovanni Bosco, a rendere attuale e concreto il suo messaggio e il suo esempio per un futuro giovane della nostra Chiesa, perché con l’apporto dei giovani diventi trainante di una nuo-va evangelizzazione dell’intera società. 

Mons. Nosiglia Cesare

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