Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti. Si fa sempre più forte l'impressione di trovarsi al centro di una crisi che non è soltanto economico-finanziaria, ma che investe i legami sociali divenendo così crisi di civiltà e costringendoci a fare i conti con i processi di civilizzazione del passato.
«Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» è il titolo del volume edito da Guerini e Associati (pagine 152, euro 16,50) in cui Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca hanno raccolto i contributi di una loro lettera aperta e controcorrente sulla necessità di dialogo fra Partito democratico e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI.
Per approfondire ragioni e sviluppi del dibattito «Avvenire» ha promosso una serie di incontri tra ciascuno dei quattro firmatari e altri importanti intellettuali. Pubblichiamo in questa pagina la prima conversazione, che vede confrontarsi Vittorio Possenti e Mario Tronti. Quella antropologica è questione «senza tempo» per eccellenza. Perché parlare di «emergenza» proprio adesso?
TRONTI: «Un primo tentativo di risposta non può non fare riferimento alla contingenza attuale, che ci spinge ad affrontare le tematiche antropologiche con un’intensità prima sconosciuta. Si fa sempre più forte l’impressione di trovarsi al centro di una crisi che non è soltanto economico-finanziaria, ma che investe i legami sociali divenendo così crisi di civiltà e costringendoci a fare i conti con i processi di civilizzazione del passato. Penso, in particolare, alle forme più spinte di secolarizzazione, che hanno abbandonato l’uomo a se stesso e prodotto il deterioramento delle relazioni personali. Questa è l’“emergenza” segnalata dalla nostra lettera». E come se ne esce?
TRONTI: «Tornando a intrecciare culture e sensibilità diverse, e più che altro spostando l’attenzione su questi temi dall’ambito cattolico, dove hanno da tempo una centralità riconosciuta, a quello della sinistra, che invece li ha troppo a lungo trascurati. Nei miei studi ho sempre cercato di rifarmi all’orizzonte della teoria e della filosofia politica. Poi, negli ultimi decenni, anche grazie ad alcune esperienze (il laboratorio della rivista “Bailamme”, gli incontri presso l’eremo camaldolese di Monte Giove), mi è parso di capire che la crisi della politica non si risolve con le ragioni della politica. Da qui il mio interesse per la teologia politica».
POSSENTI: «È vero, oggi c’è una crisi che affiora in emergenza, ma che è precedente rispetto ai fenomeni che stiamo vivendo. Per un certo periodo l’umanità ha tentato di fondare le ragioni della propria convivenza su una specie di accordo sociale e contratto morale, che ha avuto il suo momento più fortunato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un documento importante di questa temperie è costituito dal discorso che Jacques Maritain pronunciò a Città del Messico nel 1947, in occasione della prima Conferenza generale dell’Unesco: nelle parole del pensatore francese è chiaro che, a dispetto delle diversità presenti anche nel dopoguerra, è possibile conseguire un accordo pratico sui valori fondamentali, che poggiano da ultimo sul concetto di dignità della persona. Negli ultimi sessant’anni il presupposto stabilito da Maritain, e di fatto sancito dalla Dichiarazione universale, è venuto almeno in parte a cadere. Oggi come oggi siamo costretti a registrare il fallimento di ogni tentativo di costruire un’etica pubblica condivisa che si fondi su istanze di tipo esclusivamente etico-politico. Se davvero si vuole trovare un minimo comun denominatore, occorre fare un passo indietro e attestarsi al livello antropologico, l’unico che riesca a offrire un fondamento affidabile per affrontare le grandi questioni di questo momento». Possiamo fare qualche esempio?
POSSENTI: «C’è anzitutto l’economia, che dall’epoca di Ronald Reagan e Margaret Thatcher ha operato mediante lo slegamento assoluto delle leve finanziarie, riducendo la stessa politica a una variabile dipendente del capitalismo finanziario. Ma la partita decisiva si gioca nella gestione della vita (la cosiddetta biopolitica), dove ci si confronta con un progresso scientifico-tecnologico a fronte del quale perfino l’etica appare insufficiente. Quando dobbiamo stabilire come trattare l’embrione umano, dobbiamo anzitutto stabilire se ci troviamo davanti a un grumo di cellule o davanti a una persona. A secondo della posizione antropologica che assumiamo, le conseguenze morali sono molto diverse e addirittura conflittuali». Proprio su questi temi, però, la sinistra italiana sconta una lunga indifferenza.
TRONTI: «Più che altro parlerei di una forte subalternità al clima dominante in tutto l’Occidente. Già la visione imperniata sull’homo oeconomicus ci consegnava un’umanità dimezzata, contro la quale il movimento operaista proponeva l’affrancamento del lavoratore dai macchinari. Adesso, con l’avvento dell’homo technologicus, questo stesso asservimento si compie in maniera più subdola, provocando un’ulteriore riduzione di umanità. Nel frattempo le ideologie si sono disperse, ci siamo persuasi di vivere dopo la fine della grandi narrazioni e ci siamo assuefatti a una narrazione che esiste purtroppo da molto tempo: quella per cui il mondo non è trasformabile e l’uomo deve limitarsi ad aderire allo <+corsivo>status quo<+tondo>. Il risultato è un diffuso sentimento anti-ideologico, figlio a sua volta di certe utopie degli anni Sessanta. Le coscienze cambiano, questo sì, ma in modo solo istintivo, secondo i dettami delle culture radicaloidi e falsamente libertarie, per cui non esiste altro diritto che non sia il diritto dell’individuo. La sinistra non è stata capace di contrastare questa deriva che, cancellando il limite, vanifica anche ogni legame con la collettività. Ed è a causa di questa incapacità che la sinistra italiana oggi è poco riconoscibile a livello popolare: riscuote consenso presso quel che rimane del ceto medio riflessivo, ma ha perduto il contatto con le grandi culture popolari ancora vive nel nostro Paese».
POSSENTI: «Mi trovo in piena sintonia con questa analisi, specie per quanto riguarda le osservazioni sulla mancata dimensione popolare della politica nostrana. A partire dagli anni Ottanta si sono innescati diversi processi che hanno condotto a operare tagli dolorosi e, per così dire, trasversali rispetto alle culture dell’esistenza proprie del popolo italiano. In generale, si è smarrito il senso di un’appartenenza comune, anche per effetto di un bombardamento mediatico che ha fatto perdere di vista molti riferimenti tradizionali. La piazza pubblica si è pertanto ritrovata nuda di alcuni presupposti esistenziali e dominata al contrario da un discorso vacuo, poco attento alla vita reale delle persone e dei gruppi sociali. Purtroppo, come osservava prima Tronti, la politica non è bastata a se stessa e al posto del bene comune è sopraggiunta una spudoratezza che fa quasi rimpiangere la stagione di Tangentopoli. Ma anche questo è un effetto della mentalità corrente, per cui esiste solo il singolo, qui e ora, e viene abbandonata ogni preoccupazione per gli altri, per il domani.». Insomma, un’alleanza di ferro tra deserto delle ideologie e secolarizzazione dilagante?
POSSENTI: «Con una responsabilità ben precisa della cultura radicale, che punta a esaltare l’essere umano in quanto individuo, con l’obiettivo dichiarato di tutelarne i diritti, ma senza operare più alcuna distinzione tra diritti, pretese e desideri. La sinistra si è lasciata contaminare da questo atteggiamento, arroccandosi su una difesa dei diritti che trascura ogni riferimento ai doveri. Del resto, anche la cultura liberale ha mostrato la sua insufficienza, concentrandosi unicamente sul diritto di libertà. Il che è molto, ma non tutto: il diritto al lavoro, per esempio, non è un diritto di libertà, né lo è il diritto alla vita. È su questa base di realismo che occorre tornare a riflettere su quelli che, personalmente, preferisco chiamare i “princìpi irrinunciabili” su cui poggia la dottrina della Chiesa». Sono gli stessi princìpi su cui concordano i “marxisti ratzingeriani” che hanno firmato la lettera ad “Avvenire”?
TRONTI: «Al di là delle formulazioni giornalistiche (e “marxisti ratzingeriani” è un’etichetta molto efficace, lo ammetto) resta la volontà, da parte nostra, di richiamarci a un’idea di sinistra forte, consapevole delle sue ragioni e proprio per questo capace di confrontarsi con culture diverse. Quanto a Benedetto XVI, mi pare che la lettura corrente, per cui questo sarebbe un pontificato “conservatore”, costituisca un completo travisamento del pensiero del Papa-teologo. Centrale, in Ratzinger, è la necessità della dimensione pubblica dell’esperienza di fede. Anziché accontentarsi dei luoghi comuni, le culture della sinistra dovrebbero semmai sollevarsi a questo livello e accettare il confronto sul terreno dei “princìpi irrinunciabili”. Ma il problema viene da molto lontano e ha la sua origine nel pensiero dello stesso Marx. Eppure più passa il tempo, più ci si rende conto che qualsiasi esperimento di trasformazione della realtà non può prescindere dall’elemento spirituale presente in ogni essere umano. Per come la vedo io, c’è un legame strettissimo fra trascendenza e rivoluzione, a patto ovviamente di intendere quest’ultimo termine nella sua portata più vasta».
POSSENTI: «Nell’enciclica Spe salvi Benedetto XVI ha invitato a riconsiderare la vicenda degli ultimi secoli come il tentativo di fondare un “regno dell’uomo” nel quale non vige più una speranza di tipo teologale. Nell’Ottocento anche il movimento socialista ha fatto la sua scelta, abbracciando il materialismo storico di Marx ed Engels come garanzia di scientificità, vale a dire come dottrina che risolve (e che sa di risolvere) il mistero della storia. Questa illusione ci costringe oggi a vivere in un campo di realtà molto ristretto, nel quale hanno valore solo meccanismi di facile presa, come quello che ha trasformato l’etica economica in etica universale. Per superare questa visione accorciata dell’uomo e della società occorre riaprire molto porte e molti spazi. Un’etica condivisa, a questo punto, non è più sufficiente. Occorre un umanesimo condiviso. Un’antropologia che si ponga l’obiettivo di superare l’emergenza, appunto».
Alessandro Zaccuri
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