La mamma racconta che quello è un momento decisivo della vita di Chiara: “Da qualche tempo aveva capito che le cose si mettevano male, e che aveva un cancro vero e proprio. Tuttavia manteneva la speranza di guarire. Qualche giorno dopo il primo intervento, chiese direttamente al medico la vera diagnosi. Venne così a sapere la verità...
del 27 aprile 2009
Deserto del Sinai, 1250 a.C. circa. Il Signore chiamò Mosè nella tenda dov’era custodita l’Arca, per ribadirgli una volta per tutte – dopo quell’imbarazzante episodio del vitello d’oro… – quali fossero gli obblighi del Suo popolo.
 
E fu proprio nel bel mezzo di questa lunga spiegazione che Egli pronunciò “quella frase”…
 
Quella destinata per secoli a mettere in crisi le genti del Libro: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2).
 
Roma, 2005 d.C.
 
Seduta alla scrivania di fronte al portatile, scrivo e cancello da un’ora le prime righe di quest’articolo su Chiara Badano, cercando inutilmente l’attacco giusto…
 
È strano: ho letto la storia di Chiara così tante volte che mi sembra quasi di averla conosciuta, osservato le sue fotografie così a lungo che saprei descriverla nei dettagli, eppure… non so proprio da dove cominciare.
 
Il problema è che Chiara era normale: una giovane che amava divertirsi, dolce, bella, sportiva… veramente, era proprio una ragazza normale!
 
Ma allora di cosa stiamo parlando, che c’è di “santo” in questo?
 
Perché per Chiara – morta di tumore a diciotto anni – è stata avviata la causa di beatificazione?
 
Beh… proprio perché Chiara era normale… Piuttosto sconcertante, vero?
 
Ma forse – a questo punto – sarà meglio provare a raccontare la storia dall’inizio...
 
Chiara Badano nasce a Sassello, paesino dell’entroterra ligure, il 29 ottobre 1971.
 
È figlia unica – e a lungo desiderata – di Ruggero, camionista, e di Maria Teresa, operaia.
 
La sua è una famiglia con sani principi di fede, ma in modo normale, senza esagerazioni: alla bambina – alla quale viene certamente data un’educazione religiosa – in quest’ambito non viene mai imposta nessuna decisione, lasciando che sia sempre lei a scegliere secondo coscienza.
 
Così, per una decisione che è tutta sua ma che i genitori comunque supportano, a nove anni entra nelle giovanissime dei Focolari, le Gen3, iniziando un cammino di fede che seguirà fino ai suoi ultimi giorni…
 
L’adolescenza, comunque, ce la presenta nella normalità più assoluta.
 
Per dar modo a Chiara di frequentare il liceo la famiglia si trasferisce a Savona: nonostante l’impegno avrà qualche difficoltà negli studi, ma le affronterà senza lamentarsene mai, e anzi facendone dei doni da offrire al “suo” Gesù Abbandonato.
 
Come quando, rimandata in matematica, accompagna a Roma delle bambine per un congresso del Movimento e da lì scrive ai genitori: “È il mio momento dell’incontro con Gesù abbandonato. Abbracciarlo non è stato facile, ma Chiara questa mattina ha spiegato alle Gen4 che Egli deve essere il loro sposo…”.
 
Chiara, cioè Chiara Lubich, con cui intratterrà una fitta corrispondenza e un rapporto intensissimo, fino all’ultimo, quando dirà: “Devo tutto a Dio e a Chiara…”.
 
A lei più tardi chiese un “nome nuovo”, e la risposta fu “Chiara Luce”.
 
Una vita che per anni scorre davvero tranquilla, finché non viene interrotta bruscamente dall’imprevedibile: un giorno, giocando a tennis, Chiara avverte un forte dolore alla spalla.
 
Dapprima non ci fa caso, come i medici, ma le ricadute spingono i sanitari ad approfondire le ricerche.
 
La diagnosi è lapidaria: è un osteosarcoma, una delle forme tumorali più gravi e dolorose.
 
Maria Teresa, la mamma, racconta che quello è un momento decisivo della vita di Chiara, un passaggio straordinario: “Da qualche tempo aveva capito che le cose si mettevano male, e che aveva un cancro vero e proprio. Tuttavia manteneva la speranza di guarire. Qualche giorno dopo il primo intervento, chiese direttamente al medico la vera diagnosi. Venne così a sapere la verità, e che resterà calva per la chemioterapia.
 
È forse questo particolare a farle comprendere la gravità del male: ai suoi capelli, infatti, ci teneva... Siamo a Torino, da amici, perché l’intervento ha avuto luogo al Regina Margherita. La vedo ancora arrivare nel giardino avvolta nel suo cappotto verde. Ha lo sguardo fisso, si avvicina, pare assente, entra in casa. Le chiedo come sia andata. E lei: ‘Ora no, ora non parlare’. Si butta sul letto, con gli occhi chiusi. Venticinque minuti così. Mi sento morire, ma l’unico modo di starle accanto è tacere, soffrire con lei. È una battaglia. Quindi si volta, mi sorride: ‘Ora puoi parlare’, mi fa. È fatta. Ha ridetto il suo sì. E non torna più indietro”.
 
(Una volta sola aveva chiesto il perché di quel dolore; dopo il secondo intervento aveva esclamato: “Perché, Gesù?”, ma pochi istanti dopo aveva continuato: “Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io!”)
 
Da qui in poi comincia per lei un profondo cambiamento, e una rapida scalata alla santità.
 
Iniziano i ricoveri, e Chiara si distingue per l’altruismo: si prende cura di una vicina di camera, una ragazza drogata e depressa; lo fa trascurando il riposo, alzandosi dal letto nonostante il dolore che le provoca la schiena: “Avrò tempo dopo per dormire”, dice.
 
Continua a spendersi per i poveri, a fare apostolato con chi è lontano da Dio, e intanto subisce due operazioni dolorosissime, la chemioterapia le fa cadere i capelli e perde l’uso delle gambe, ma gli amici che vanno a trovarla raccontano che, ogni volta, era lei a consolare loro, a farli ridere, ad ascoltare i loro piccoli problemi dimenticando se stessa.
 
È in ospedale a Torino: “All’inizio abbiamo l’impressione di andarla a trovare per sostenerla – dice un amico – ma ben presto capiamo che non possiamo più fare a meno di lei, come attratti da una calamita…”.
 
Nei due anni della malattia rifiuterà sempre la morfina, perché “toglie la lucidità, e io posso offrire a Gesù solo il mio dolore, dividere con Lui la croce ancora per un po’”, arrivando anche a dire – in una lettera indirizzata alle amiche del gruppo Gen – che “la malattia è arrivata al momento giusto, perché stavo per ‘perdermi’: non cose grosse, ma comunque il nostro ideale stava passando in secondo piano… voi però oggi non potete nemmeno immaginare qual è il mio rapporto con Dio!”.
 
Parole che emanano una luce abbagliante, meravigliosi riflessi della forza che Chiara attribuiva tutta “all’amore di Gesù abbandonato”: “Gesù ha permesso questa prova, ma è merito suo se riesco ad accettarla… di mio c’è ben poco!”.
 
Intanto però – pur fra tanti doni della Grazia di cui ogni giorno sono testimoni le persone che le stanno intorno – il male avanza impietoso, e una notte Chiara ha un’emorragia terribile e viene salvata per un soffio.
 
Dopo quest’episodio, dopo il quale i medici decideranno di interrompere ogni altra terapia, lei dirà: “Quando morirò, non versate lacrime per me. Io vado da Gesù. Al mio funerale non voglio gente che pianga, ma che canti forte…”.
 
Un’accettazione della volontà di Dio che non è mai sconforto, e che riesce a consolare persino i suoi genitori, come quando, poco prima di morire, dirà: “Io non chiedo più a Gesù di venirmi a prendere per portarmi in paradiso… non voglio dargli l’impressione di non voler più soffrire!”.
 
Alla fine, con una calma e una serenità che toglie il fiato a tutti, prepara con la madre la “festa di nozze”, cioè il suo funerale: lei stessa spiega come confezionare l’abito, sceglie musiche, fiori, canti e letture; dice: “Mentre mi preparerai, mamma, dovrai ripetere: ‘Ora Chiara Luce vede Gesù’…”.
 
Le condizioni di Chiara peggiorano e le forze la abbandonano progressivamente; uno degli ultimi giorni chiede alla madre: “Partirò?” le risponde Maria Teresa: “Per partire ci vuole il tempo di Dio.
 
Ma stai tranquilla: hai la valigia pronta, piena di atti d’amore…” e Chiara: “Pensi che mi verrà incontro la nonna?”; la mamma: “Prima ci sarà Maria, che t’accoglierà a braccia aperte…”, così lei: “Zitta, non dirmi niente, che mi togli la sorpresa...”.
 
Finché arriva l’incontro con il suo Sposo.
 
Accanto a lei il padre e la madre, fuori dalla porta gli amici: al funerale ci sono quasi duemila persone, perché anche chi non crede vuole esserci, e tutti i commenti parlano di paradiso, di gioia, di pace; dice Ruggero, il padre, subito dopo la partenza di Chiara: “Dio ce l’ha data, Dio ce l’ha tolta. Sia benedetto Dio!”.
 
Da allora sono passati quattordici anni, ma gli effetti della sua esperienza continuano: chi viene a conoscenza delle sue vicende si sente spinto a vivere più radicalmente il Vangelo, a mettere “Gesù al centro”, come lei stessa amava dire, ed è una “santità” tanto contagiosa che – per iniziativa del vescovo di Acqui Terme – Chiara viene dichiarata “serva di Dio” e avviato il processo per la sua beatificazione.
 
Ecco perché scrivere di Chiara è difficilissimo, perché nelle parole non si sa proprio come rendere la forza della sua testimonianza: “stare al gioco di Dio”, “fare bene la Sua volontà nell’attimo presente”, “fidarsi di Gesù”, sono inviti a una santità quotidiana semplice e sconcertante, di cui è difficile persino parlare…
 
Perché “la fregatura” con Chiara è proprio che la sua vita non ci parla di levitazioni, di “rapimenti mistici”, di apparizioni, di “voci dal cielo” o di miracoli.
 
(Per quanto, una volta, durante un intervento, racconterà di aver visto una “signora luminosa e bellissima” che le faceva coraggio, in piedi accanto al lettino, e un’altra volta, una delle ultime notti, spaventata e ansimante, confiderà alla madre di aver ricevuto la visita del demonio “Mamma, è venuto il diavolo…”)
 
Semplicemente – ma in questo non c’è nulla di semplice – la vita di Chiara Luce ci parla “solo” di fede: era solo una ragazza, ma una ragazza che è riuscita ad essere fedele a Dio, fino alla fine…
 
Una vera “fregatura” perché, immaginando la santità, è molto più facile avere in mente l’estasi di Santa Teresa del Bernini che la foto – pulita e sorridente – della “nostra amica” Chiara!
 
Solo Dio è santo, ma l’esempio di Chiara Luce ricorda a ciascuno di noi il comando che il Signore diede al suo popolo nel deserto: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”.
 
Elisa Storace, Note di Pastorale Giovanile
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