La Chiesa di El Salvador, pur nell'emergenza Coronavirus, vive in questi giorni una doppia gioia. Da un lato, qualche settimana fa, è arrivata la notizia del riconoscimento del martirio del sacerdote gesuita Rutilio Grande e di due laici che lo accompagnavano, Manuel Solórzano e Nelson Rutilio Lemus. Dall’altro, oggi si celebra il quarantesimo anniversario del martirio di san Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, che di padre Rutilio fu amico.
di Antonio Spadaro José María Tojeira, Testimoni delle fede e della giustizia
Mons. Oscar Romero, che oggi la Chiesa ricorda come martire per il suo popolo salvadoregno si è “convertito” alla scelta preferenziale per i poveri grazie alla testimonianza di un amico.
Óscar Romero e Rutilio Grande: due vite intrecciate, per la reciproca amicizia e per le impressionanti analogie in vita e in morte. Analogie nel carattere, nella vicenda umana, nell’apostolicità, nel martirio. Romero, che poco frequentava il clero della capitale e non ne era amato, trovò in Rutilio un amico di cui fidarsi. Quando divenne vescovo, nel 1970, Romero era imbarazzato dai problemi organizzativi della cerimonia di consacrazione: Rutilio lo capì e lo accompagnò passo passo, con spirito di semplicità ecclesiale come desiderava Romero, alieno da mondanità e ostentazione. Più tardi le loro strade si separarono, Rutilio volle andare a vivere tra i contadini nella parrocchia di Aguilares e Romero divenne vescovo di Santiago de María. Tuttavia l’amicizia non venne meno. (…) Entrambi avevano un forte entusiasmo apostolico, che si manifestava però in forme diverse. Grandi predicatori sia Romero sia Rutilio, capaci di parlare alto e forte, e di toccare profondamente l’anima popolare, differivano per essere l’uno estremamente verticale, mistico, proteso alla trascendenza, intento a elevare uomini e cose, e l’altro naturalmente portato a essere orizzontale, a rendere Dio all’uomo nel quotidiano, nel linguaggio popolare del più umile dei focolari domestici, con esempi e metafore veracemente terrene. Non che Romero non gustasse la vicinanza dei semplici e degli umili, o che Rutilio mancasse di cultura, di concetti classici, di elevazione spirituale. Ma la medesima inclinazione e passione per la pastorale popolare si esplicitava diversamente.
Rutilio era un uomo emotivo e generoso, d’intensi sentimenti, con un profonda vocazione as uscire da se stesso, nel senso tutto evangelico di rinnegare se stesso, prendere sulle spalle la propria croce e seguire Gesù specialmente nei poveri e negli umili, annunciando loro la buona novella. La sua vita era sì una continua crisi sul da farsi, ma anche un continuo superamento in meglio di se stesso attraverso scelte radicali di obbedienza ai superiori, di spirito ecclesiale, di dedizione agli altri, di apostolato di frontiera (anche se la frontiera fu poi la sua zona natia). Queste scelte radicali lo portarono infine all’immolazione, in certa misura da lui temuta e attesa. Romero era molto fermo nella convinzione di fede, anzi solidissimo, nutrendosi di continua preghiera e provvedendo, anche lui, a uscire tenacemente ed evangelicamente da se stesso nell’impegno apostolico quotidiano. Queste furono le parole di Romero in ricordo di Rutilio: “La liberazione che il p. Grande predicava s’ispirava alla fede. Una fede che ci parla di una vita eterna. L’amore vero è quello che ha portato Rutilio Grande alla morte mentre dava la mano a due contadini. Così ama la Chiesa: con loro muore…” E insiste, Romero, nel dire quale sia «la grandezza dell’uomo», cioè nell’essere umani. Laddove ciò significa amare il proprio popolo povero: Fratelli, la grandezza dell’uomo non è andare nella grande città, o nell’avere titoli, ricchezze, denaro; la grandezza dell’uomo sta nell’essere più uomo, più umano.
di Bartolomeo Sorge S.I.
Il 24 marzo 1980, Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, cadeva assassinato sull’altare sotto i colpi degli «squadroni della morte», sicari di una estrema destra forte e spietata. Avendolo conosciuto personalmente, mi sia consentita, anzitutto, una breve testimonianza, per poi rievocare il messaggio di questo martire dei tempi nuovi. Lo ricordo così.
Ho conosciuto mons. Romero a Puebla, in Messico. Ero direttore de La Civiltà Cattolica, e Giovanni Paolo I (la cui morte improvvisa fece slittare di tre mesi l’evento) mi inviò come «esperto» alla III Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano (22 gennaio – 16 febbraio 1979). Fui assegnato alla VI Commissione, incaricata di studiare il rapporto tra evangelizzazione, liberazione e promozione umana; la Commissione era formata da diciassette membri, tra cui mons. Romero e mons. Helder Câmara. Non fu quindi un incontro fortuito, né fuggevole. Infatti, abbiamo lavorato insieme tre settimane, per approfondire il discorso sulla nuova evangelizzazione in America Latina, alla luce della Parola di Dio, dell’insegnamento della Chiesa e delle urgenze dei poveri. Giungendo a Puebla, portavo con me il pregiudizio, diffuso negli ambienti romani, secondo cui mons. Romero era una «testa calda», un vescovo «politicante», sostenitore della «teologia della liberazione». Fin dai primi incontri scoprii invece un Romero completamente diverso. Mi colpirono subito l’umiltà del tratto, lo spirito di preghiera, la indiscussa fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, soprattutto il grande amore per i poveri, per i suoi campesinos. Durante le intense settimane di lavoro comune, rimasi impressionato specialmente dalla sua disponibilità. L’ho visto rinunciare più di una volta al suo parere, lasciandolo cadere senza insistere, quando la maggioranza della Commissione inclinava per un’altra soluzione o per una formulazione diversa. In particolare, mi apparve del tutto infondata l’accusa di parteggiare per la «teologia della liberazione». Conoscevo bene le nuove correnti teologiche dell’America Latina e mi resi subito conto che Romero non era affatto accondiscendente nei confronti delle posizioni estreme di alcuni teologi: in realtà, nel denunciare le ingiustizie, egli non faceva che applicare la Parola di Dio ai problemi concreti della gente.(…). Ricordo i colloqui amichevoli durante gli intervalli. Mi disse che era stato inviato a San Salvador, perché aveva fama di «conservatore», per «riequilibrare» una situazione ecclesiale difficile. In particolare, un giorno, durante la pausa di mezza mattina, mi raccontò della situazione dolorosa e drammatica del Paese, dei diritti umani calpestati, della «sparizione» di tanti suoi figli, delle torture e delle esecuzioni sommarie, del clima violento di repressione che stava spingendo El Salvador verso l’insurrezione popolare (così egli temeva). Eppure non ebbe una sola parola di odio o di rabbia; anzi, credeva fermamente che si dovesse fermare la violenza, da qualsiasi parte venisse; diceva che la vendetta doveva essere bandita e dovevano invece trionfare la giustizia e l’amore per giungere alla riconciliazione e alla pace. Poi aggiunse che la scelta preferenziale dei poveri era divenuta per lui una ragione di vita. E mi raccontò la sua «conversione». «Quando assassinarono il mio braccio destro, il padre Rutilio Grande – mi disse – i campesinos rimasero orfani del loro “padre” e del loro più strenuo difensore. Fu durante la veglia di preghiera davanti alle spoglie dell’eroico padre gesuita, immolatosi per i poveri, che io capii che ora toccava a me prenderne il posto, ben sapendo che così anch’io mi sarei giocato la vita». A un certo punto – lo ricordo bene – si interruppe; e, cambiando di tono, aggiunse testualmente: «Ho appena saputo che hanno assassinato un mio quarto sacerdote. Lo so. Appena mi prenderanno, mi uccideranno». Lo guardai. Non dava segno di rammarico o di paura. Sorrideva. Dal volto traspariva una serenità, che solo una fede e un amore grandi possono dare. Non l’ho più dimenticato. Era il volto di un martire dei tempi nuovi. La «profezia» si realizzò puntualmente l’anno dopo, quando cadde vittima immolata sull’altare. «Conversione» o evoluzione? Anche mons. Romero ebbe la sua evoluzione. Quando nel 1977 fu nominato arcivescovo di San Salvador si può dire che egli fosse sostanzialmente un «conservatore»: ligio alla istituzione ecclesiastica, moderato in politica, sensibile ai problemi sociali, preoccupato per il dilagare del fenomeno della politicizzazione del clero. Tanto che giunse pure a scontrarsi con i «gesuiti giovani» infatuati – così riteneva – della teologia politica, con i padri della Università Centroamericana (UCA) e con il loro Provinciale, accusandoli di politicizzare le istituzioni educative della Compagnia. Che cosa successe poi a Romero? (…) È impossibile negare l’influsso determinante che l’assassinio del padre Rutilio Grande, avvenuto il 12 marzo 1977, a pochi giorni dall’ingresso in diocesi, ebbe sul neo arcivescovo. Egli stesso era solito parlare di «svolta» nella sua vita. Preferiva però dire che, grazie al sacrificio del padre Rutilio, Dio gli aveva concesso un particolare dono di «fortezza pastorale», capace di fargli affrontare con coraggio conflitti e persecuzioni, senza vacillare di fronte al dramma di sacerdoti, catechisti e fedeli torturati o uccisi, senza smarrirsi di fronte alle divisioni laceranti che spaccavano il paese e la Chiesa salvadoregna. Non si è trattato quindi di un colpo di fulmine, ma di una maturazione della coscienza, come confidò scrivendo a Giovanni Paolo II, da poco eletto pontefice: «Ho creduto in coscienza che Dio mi chiedeva e mi dava una speciale fortezza pastorale che contrastava col mio temperamento e le mie inclinazioni “conservatrici”. Ho creduto un dovere pormi decisamente in difesa della mia Chiesa e, dalla Chiesa, a fianco del mio popolo tanto oppresso. In conclusione, dall’esame spassionato dei documenti e delle testimonianze si deve dire che la morte di padre Rutilio Grande fu per mons. Romero l’occasione per assumere una più piena responsabilità apostolica, alla quale tuttavia egli era già spiritualmente preparato; il sacrificio del gesuita gli diede un coraggio nuovo nella testimonianza e nell’annuncio del Vangelo in una comunità ecclesiale profondamente divisa e in un Paese ormai in clima di aperta persecuzione. Egli sapeva di essere nel mirino dei suoi assassini: solo non conosceva l’ora e il modo in cui lo avrebbero ucciso. Le parole conclusive dell’ultima omelia, il pomeriggio del 24 marzo 1980, danno il senso di tutta la sua vita apostolica: «Dalla fede cristiana sappiamo che in questo momento l’ostia di grano si converte nel corpo del Signore offerto per la redenzione del mondo e il vino in questo calice si trasforma nel sangue prezzo di salvezza. Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci alimenti anche per dare il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per sé, ma per dare frutti di giustizia e di pace al nostro popolo». Aveva appena finito di pronunciare queste frasi, che un colpo di fucile al petto le trasformava nel suo testamento spirituale: amare Dio sopra ogni cosa e amarci gli uni gli altri come Cristo ha amato noi, fino a dare la vita per i fratelli. Che altro occorre per riconoscere la santità di un eroico Pastore che il popolo già acclama «san Romero de las Américas»?
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