S√∂ren Kierkegaard fornisce diversi spunti, quando critica chi ritiene che essere protagonisti significhi conseguire il successo mondano, far fortuna nel mondo a tutti i costi e seguire le mode. In un modo forse contundente, Kierkegaard afferma che la vera limitatezza «consiste nell'aver perduto se stesso [...] essendo diventato, invece di essere un io, un numero, un uomo in più, una ripetizione»...
del 25 agosto 2008
«O protagonisti o nessuno»: è il tema del Meeting di Rimini 2008, che potrebbe essere sviluppato in molti modi. Sören Kierkegaard fornisce diversi spunti, quando critica chi ritiene che essere protagonisti significhi conseguire il successo mondano, far fortuna nel mondo a tutti i costi e seguire le mode.
 
In un modo forse contundente, Kierkegaard afferma che la vera limitatezza «consiste nell'aver perduto se stesso […] essendo diventato, invece di essere un io, un numero, un uomo in più, una ripetizione», cioè un conformista, uno che si adatta alla situazione e vive secondo le tendenze prevalenti. Al contrario, l'uomo può essere qualcosa di unico e l'originalità deriva a ciascuno soprattutto dal suo rapporto con Dio. In un passo grandioso, il filosofo danese mette in luce che, per il cristianesimo, «ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione: uomo, donna, ragazza di servizio, ministro, commerciante, studente, ecc., esiste davanti a Dio!
 
Questo singolo uomo che forse sarebbe orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua col re» e che si vanta di avere conoscenze importanti, ebbene, «esiste davanti a Dio, può parlare con Dio in qualunque momento, sicuro di essere ascoltato».
 
Kierkegaard usa inoltre un'immagine: ogni io inizialmente è una pietra grezza, che dev'essere sfaccettata, ma non lisciata. La pietra lisciata è l'uomo che diventa conformista: è vero che dobbiamo adattarci agli altri, ma senza rinunciare a coltivare quella specificità che consiste nel nostro essere al cospetto di Dio. Risuona qui l'avvertimento evangelico: «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde o rovina se stesso?» (Lc 9, 25).
 
Sovviene poi un'altra riflessione.
 
L'educazione antica additava non tanto il conseguimento di risultati quanto uno stile di vita, concepiva la vita tramite la metafora del teatro. Non perché la vita sia simulazione, bensì nel senso che sulla scena di un teatro, a volte, la comparsa è migliore del protagonista se e quando recita meglio. Così, anche nella vita non conta anzitutto, il ruolo che svolgiamo, il nostro titolo, le cose che facciamo, bensì come le facciamo. Contano anche i risultati, ma non in modo principale. In questo senso, è vero che i potenti della terra possono influire di più sul corso della storia rispetto ad un uomo ignoto che svolge mansioni umili; eppure quest'uomo può essere più grande di loro a seconda di come fa le cose che fa.
 
Quest'immagine della vita è poi entrata in crisi. Progressivamente è prevalso uno sguardo calcolatore, che è all'origine di quella ricerca spasmodica del successo nel mondo, contro cui valgono di nuovo le parole di Kierkegaard: «Affinché uno sia chiamato eroe non si deve tenere conto di ciò che fa, quanto di come lo fa. Uno può conquistare regni e paesi senza essere un eroe, un altro dominando il suo animo può mostrarsi eroe. Uno può mostrare coraggio facendo lo straordinario, un altro facendo l'ordinario. Il problema resta costantemente come lo fanno». E, allora, il come che rende le azioni pienamente eccellenti può essere (per i credenti, ma anche per i non credenti) riposto nell'intenzione che le anima: un'azione è eccellente se è compiuta per amore (degli altri e/o di Dio). Infatti, l'amore può trasfigurare le azioni, facendole diventare espressioni di affetto. Come dice Rosmini «ogni atto morale sorge in una persona per terminare ultimamente in una persona», e anche il giovane Hegel (ma già Agostino) arriva a dire che «l'amore è il compimento delle virtù».
Giacomo Samek Lodovici
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