Cittadini di due città

I cristiani sono dunque cittadini di due città: quella del cielo, che li rende testimoni di valori diversi da quelli professati nel mondo, e al tempo stesso cittadini della città degli uomini, con i quali condividono cultura, condizioni concrete, responsabilità, attese e speranze.

Cittadini di due città

da Teologo Borèl

del 27 settembre 2007

“Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale.

Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera” Come il cristiano si pone nella città? Quale è la sua differenza? Cosa vuol dire, oggi, di fronte alla relazione diretta con le altre religioni, il passo: “Nella chiesa nessuno è straniero”?

 

I cristiani sono dunque cittadini di due città: quella del cielo, che li rende testimoni di valori diversi da quelli professati nel mondo, e al tempo stesso cittadini della città degli uomini, con i quali condividono cultura, condizioni concrete, responsabilità, attese e speranze.

 

Innanzitutto i discepoli vivono nel mondo la loro originaria appartenenza a Dio. Vivere nel mondo significa non appartarsi, non separarsi dalle ordinarie condizioni degli uomini e delle donne del proprio tempo, per esseri fedeli al Signore: restare dentro un'esperienza familiare, professionale, sociale comune a quella di ogni contemporaneo, condividendola nel suo svolgersi, nelle sue responsabilità, nel suo evolversi storico.

Il non separarsi dal mondo è un implicito riconoscimento della bontà del mondo, della vita umana, della storia comune... Il mondo infatti, uscito buono dalle mani di Dio, non cessa di portare l'impronta del gesto di amore che l'ha creato e che ha suscitato la compiacenza di Dio: 'Dio vide che era cosa buona' (Cfr. Gen 1). Il peccato che ha offuscato la bellezza e l'armonia del disegno originario non ne ha cancellato l'impronta divina e non ha smesso di rendere prezioso il mondo agli occhi di Dio, se Dio ha potuto inviare il Figlio e sacrificarlo per restituire il mondo e le cose alla bontà delle origini.

Il sacrificio del Figlio di Dio per riscattare il mondo lo rende più prezioso, più meritevole di essere guardato con interesse e vissuto con simpatia. E non solo il sacrificio estremo indica il valore divino del mondo, ma anche il rapporto che il Signore Gesù ha instaurato con esso, salvandolo senza restargli lontano, ma immergendosi nella storia, nella cultura, nell'umanità...

Dunque il laico cristiano ama il mondo condividendo dall'interno la comune vicenda di ogni uomo; imitando, del mistero del Signore, soprattutto il suo immergersi nella vita ordinaria e semplice della gente del suo tempo.

L'amore al mondo, - alle persone, alle cose, alle situazioni, alla realtà - è ciò che rende visibile il Cristo agli altri; è ciò che testimonia che anche Dio ama il mondo, la storia umana, la vita di ogni uomo. Nessuno è straniero, quindi, nessuno si deve sentire non considerato, nessuno è minimamente scartato. Il mondo è il necessario contesto della chiesa, non la sacrestia.

Il discepolo è tuttavia cittadino anche di un'altra città, nella quale è titolo di cittadinanza avere come riferimento ultimo un orizzonte che supera quello terreno; nella quale sono legge il dono di sé, il servizio, la mitezza, l'impegno per la giustizia... il primato della persona; nella quale è sovrano un Signore crocifisso; alla quale si appartiene solo a condizione di accettare la sapienza della croce come criterio di interpretazione della vita.

E' chiaro che le due logiche entrino facilmente a conflitto; queste 'due città' convivono nella coscienza del laico cristiano, così come devono convivere nella sua esperienza quotidiana. Ogni doppia appartenenza implica tensione, soprattutto quando i due riferimenti non sono in continuità, non sono tra loro omogenei. Vengono allora i momenti in cui le due identità sono in opposizione, in forme diverse:

* nella forma esplicita del conflitto, quando, in nome della propria appartenenza alla 'città celeste' deve opporsi, contrastare, negare modelli di comportamento e stili di vita inaccettabili, accogliendo insieme la sfida di vivere il conflitto in coerenza con la mitezza del Vangelo; il contrasto, con uno stile di amore e di servizio al bene;

* nella forma dell'incomprensione, che chiede la disponibilità a una testimonianza solitaria, pagando anche con l'isolamento la propria appartenenza ad un mondo diverso da quello terreno;

* tuttavia l'esperienza che in maniera emblematica può rappresentare la tensione tra le due identità/appartenenze è quella dell'oscurità, del non capire in che modo si possa essere contemporaneamente fedeli all'una e all'altra città; e dover comunque decidersi, prendere posizione.

Il discepolo rischia la sua fedeltà ai valori del Vangelo entro un contesto di precarietà, di incertezza, di complessità, qual è quello della sua esistenza quotidiana; gioca la sua fedeltà alla città celeste entro la città terrena. L'incontro tra l'assoluto dei valori e la relatività dell'esperienza storica avviene dentro uno spazio di libertà che richiede coraggio, inventiva, creatività. I valori del Vangelo non stanno, in modo perfetto e completo, nella loro assolutezza, dentro le scelte familiari, professionali, economiche, politiche... attraverso le quali ciascuno di noi realizza la sua vita quotidiana.

Rischio della fede è la responsabilità di posizioni e scelte storiche; rischio è, ancor prima, leggere con vera intelligenza cristiana il proprio tempo. Questo compito profetico del discepolo è particolarmente difficile se le due città si sono troppo allontanate, e non tanto nell'oggettività delle rispettive scelte, quanto nella percezione che noi abbiamo di esse. Il nostro vero problema di cristiani non è allora tanto quello di accogliere o no gli altri, ma quello di sentirsi assieme necessariamente e nello stesso tempo essere capaci di vivere il vangelo, nella provvisorietà delle nostre vite.

Se è così difficile leggere il nostro tempo, per noi cristiani e per le nostre comunità, è perché si è accresciuta dentro di noi la distanza tra le due appartenenze che connotano la nostra vita. E forse questa lontananza è così cresciuta dentro di noi perché noi ci siamo sentiti troppo poco cittadini della città degli uomini, forse perché abbiamo preteso di allentare la tensione della nostra doppia appartenenza, chiudendoci dentro la patria celeste, dimenticando che quella, nella sua assolutezza, appartiene solo al futuro; un futuro che va preparato attraverso un presente che non neghi anche il nostro essere cordialmente, intensamente partecipi della vicenda umana che è anche la nostra, di credenti.

Questo percorso di ricerca interiore, tutta umana, a partire dai fatti di ogni giorno, è per il cristiano la necessaria ricerca di Dio. La ricerca di Dio del discepolo non può svolgersi nè fuori nè a prescindere, ma dentro questo cammino verso una umanità intensa e piena. Questa è la nostra cittadinanza. E se questa è la nostra cittadinanza, nessuno ci è straniero.

Soffermarsi a riflettere a fondo sulla vita, divenire sempre più consapevoli di essa, impegnati a comprenderla, a narrarla, a spiegarla... è un modo per non prescindere da essa nella nostra esperienza di fede.

E' al fondo della propria coscienza creaturale che il cristiano, che ogni uomo, in modo spesso quasi indecifrabile, scopre dentro di sè l'inquietudine di Dio.

mons. Domenico Sigalini

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