Tra le monache nel regno del grande silenzio. Questo vogliono essere, i monasteri dove anche in piena notte si prega per noi che non lo sappiamo e non necessariamente siamo felici d'apprenderlo: fari nelle tenebre, luoghi persino avventurosi...
del 24 novembre 2006
 Piccoli colpi di tosse, starnuti smorzati, fazzoletti che scompaiono in fretta tra manica e polso. «Tirami via dal fango / Che non ci resti impigliato / Che il mulinello d’acque del profondo / Mi lasci andare...». Quasi quattro ore filate di preghiera tra Mattutino, Lodi, Ora Terza, Santa Messa, in ginocchio, in piedi e di nuovo in ginocchio, prima del «rompete le righe» - un colpo secco dell’anello sul legno del banco - col quale la Madre Abbadessa concede il permesso di abbandonare la cappella. Allora le donne, più di settanta, belle e brutte, sane e ammalate, vecchie e giovani - si avviano in doppia fila ordinata verso il loro caffelatte con pane non fragrante e una nuova giornata di lavoro e preghiera, soprattutto preghiera: escono per ultime le otto novizie dal velo bianco, chiude il corteo la postulante ventunenne, riccioli scoperti e occhiali leggeri sulla faccia bella e splendente.
 
Da quest’altra parte della grata anche Chiara, ragazza valdostana coi capelli tagliati cortissimi, ha sul volto un biancore luminoso, come un principio d’estasi, mentre chiude con cura il libro dei Salmi. Più tardi, forse, chiamerà casa, e sua madre si lamenterà di nuovo, «telefono poco, ma dovrà ben abituarsi....». E’ ospite qui da un paio di mesi, Chiara, per familiarizzare col luogo dove desidera rinchiudersi negli anni a venire: «Se Dio lo vorrà», sussurra arrossendo prima di salire a due a due i gradini che conducono alla sua cella; lei che ancora potrebbe, adesso, scendere fin sulla sponda del lago e aspirarne l’odore, sedersi sul molo nel tepore del sole.
 
 
La corsa di Maura
 
La futura Suor Maura invece, quando fu ospite esterna prima di prendere i voti, andava a correre; la signora che vende souvenir nell’unico negozio dell’isola racconta che la vedeva sfrecciare al di là della vetrina, prima che si chiudessero per sempre le grate alle sue spalle e si spalancasse per lei una vita nuova, nella quale è l’apparente gratuità di molte azioni (ma non del footing) a fare da pilastro. Ben lo comprenderà la cronista che, avendo ottenuto di condividere per pochi giorni silenzio e preghiera, pasti frugali e sveglie in piena notte, si ritroverà con un pennello in una mano e un piccolo strofinaccio nell’altra, china a spolverare inferriate e scaffali già perfettamente puliti.
 
Nel quadro d’una generale crisi di vocazioni nel mondo occidentale, succede dunque che proprio le clausure più dure e restrittive esercitino nuovo fascino, e che in Italia l’esercito delle donne al di là delle sbarre sia cresciuto di 300 unità in un anno e ancora cresca: quattro o cinque nuove postulanti stanno per passare dall’altra parte della grata, oltre il cancello del Mater Ecclesiae. Donne giovani e colte: sotto questi veli neri, le teste pensanti di medici e architette, una psicologa e alcune matematiche, numerose letterate, traduttrici, un’ex preside, tutte sopraffatte da quella che qui chiamano vocazione, e chi non può comprendere associa a una specie d’insopportabile e perdurante vuoto di senso, a uno dei tanti stili di vita estremi in voga nel mondo magari; o a una via di fuga da società dove lo spazio di scena ha finito per mangiarsi ogni anfratto privato, ogni refolo d’aria.
 
Salvo che tornando in cappella per le preghiere dell’Ora Nona, dopo il pranzo consumato in fretta ascoltando la lettura di un editoriale dell’Osservatore Romano (la sera, a cena, saranno riflessioni sulle morti esemplari delle monache europee), pare all’ospite rispettosa ma profana d’intuire la prevalenza, anche qui, d’una certa teatralità dei gesti; e di rituali dove l’io individuale tanto più s’annulla, tanto più ne risulta sublimato.
 
 
I gradi dell’umiltà
 
Ma domande alle monache di clausura non se ne possono fare, è già tanto passarsi la zuppiera accennando un sorriso, porgere i piatti alla sorella di corvée badando a non oltrepassare la porta del suo stanzino claustrale, ascoltare i sintetici commenti della sorella di Suor Maria Beatrice e del fratello di suor Maria Cristiana, entambi in visita alle loro congiunte (le monache possono ricevere i parenti ogni tre mesi). Lei: «Quasi la invidio, con quel che c’è fuori». Lui: «E’ dolce pensarla qui, in questo luogo di luce».
 
Perché questo vogliono essere, i monasteri dove anche in piena notte si prega per noi che non lo sappiamo e non necessariamente siamo felici d’apprenderlo: fari nelle tenebre, luoghi persino avventurosi: «I missionari vanno in un Paese lontano, incontrano centinaia di persone, certo... ma noi, con la nostra preghiera, arriviamo prima e dappertutto», assicura a voce bassissima la tosta Abbadessa, Anna Maria Canopi, esaudendo infine la richiesta un po’ goffa di «fare quattro chiacchiere». Madre Canopi, piccola e carismatica, è la fondatrice di questa comunità in continua espansione, dove si vive nell’obbedienza incondizionata al Signore e, naturalmente, «a chi, in convento, ne fa le veci», insomma a lei. La qual cosa non mancherà d’essere ribadita più volte nel corso della giornata, anche durante il pranzo del giorno dopo, quando attraverso le letture si rammenterà per esempio la gravità dell’operato della monaca che, incaricata di dare la sveglia, lo facesse con ritardo; e la necessità della penitenza, consistente nel prostrarsi a terra a tempo indeterminato.
 
In questo convento né moderno né connesso on-line, «obbedir tacendo» non è cosa che si dica tanto per dire. Stabilisce la Regola, quarto grado dell’umiltà, che non si dovrà replicare neppure in cuor proprio «pur trovandosi di fronte a qualcosa di molto duro e persino a ingiustizie di ogni genere». Giacché è il silenzio, s’apprende, un «morire a se stessi» ogni giorno, come un Cristo in croce. Si tace in cella, a tavola, al lavoro: le monache restaurano arazzi e pergamene, dipingono icone, gestiscono una piccola stamperia, fabbricano ostie, zitte e curve nei grandi stanzoni con vista sul lago. Riporranno i loro attrezzi poco prima delle diciassette, per tornare sui banchi: Vespri. Poi, dopo la cena leggera - minestra, un pezzo di formaggio, mezzo uovo sodo - un momento conviviale, l’unico, in cui le sorelle vengono aggiornate su quanto accade nel mondo. «Non abbiamo mai posseduto radio e televisore, né contiamo di possederle in futuro», spiega l’Abbadessa, «non ne abbiamo bisogno; però siamo abbonate a L’Avvenire e L’Osservatore romano, oltre che ai bollettini di tutte le nostre parrocchie di provenienza».
 
 
Compieta, cella
 
E’ Compieta, alle nove di sera, la preghiera più bella, le luci già abbassate, un clima di filiale confidenza, la madre che passa a benedire il sonno di ciascuna, quand’è tempo di scivolare invisibili e senza produrre un solo fruscio nella propria cella: letto, comodino, due crocifissi, un piccolo tavolo, niente specchio, il bagno fuori. La sveglia, da puntare alle 4.
 
E’ un’altra volta piena notte, col gelo che s’insinua nelle ossa strappate via da sotto la trapunta, e si raggiunge la cappella. «Vivere per pregare», è il titolo di uno dei tanti libri scritti da madre Canopi, ma potrebbe anche essere così: pregare per vivere. E succede a un certo punto del Mattutino che l’osservatrice la smetta di almanaccare sulle crude parole che va ascoltando, e quasi senza rendersene conto s’unisca al canto, scoprendo così le proprietà anestetizzanti dell’incessante salmodiare in una vita regolata alla perfezione; qualcosa che, come ogni «mulinello d’acque del profondo» troppo a lungo osservato, ammalia. Ma è tempo di abbandonare l’isola.
Stefania Miretti
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