C’è un’immagine che, da settimane mi pungola; è un’immagine dalla duplice faccia e la liturgia feriale di questi ultimi giorni sapientemente la sta riproponendo. È la sapienza del silenzioso giorno dopo giorno che, oggi più che mai, rischiano di assomigliarsi.
di Laura Giulian, tratto da sullastradadiemmaus.it
Questo è un tempo particolare, non mi dilungo a descriverlo perché ciascuno di noi sta abitando questa fatica. Ciascuno ne porta il peso, lì dov’è, lo vive sulla propria pelle, con le sfide quotidiane, con cui è chiamato a confrontarsi o scontrarsi. C’è un’immagine che, da settimane mi pungola; è un’immagine dalla duplice faccia e la liturgia feriale di questi ultimi giorni sapientemente la sta riproponendo. È la sapienza del silenzioso giorno dopo giorno che, oggi più che mai, rischiano di assomigliarsi.
Immagino la mia vita, quanto si sta smuovendo dentro, la creatività in fermento, le prove fisiche, come un seme. Al momento, è sottoterra e, come ogni seme, per poter portare frutto, deve prima marcire, deve restare al buio: solo così, può germogliare e venire alla luce una novità. È un’opera che richiede pazienza e speranza.
Questo è un tempo di apparente staticità ed eremitaggio non cercato, che rischia di renderci infruttuosi. Se ci fermiamo a questa immobilità, alla fatica per la mancanza di programmi a lungo termine, alle incertezze su ogni fronte, alle restrizioni fisiche, sociali, economiche e affettive, rischiamo di fermarci al seme che marcisce. Potremmo provare insoddisfazione, senso di inutilità, fatica ad intuire un senso, ad immaginare un futuro ad ampio respiro. Rischiamo di vedere solo la terra tutt’attorno, che ci inghiotte, e percepiamo solo il buio che permea ciò che ci circonda.
Se, però, spostiamo lo sguardo al dopo, all’atto di aver gettato quel seme, alla speranza che nutre chi compie tale azione, al momento in cui sarà possibile godere dei frutti, non solo per noi stessi ma per molti, allora tutto si tinge di speranza. È una sfida quotidiana tra la consapevolezza della fecondità che nasce dal “marcire” nella solitudine di un appartamento, di una cella, di un letto di ospedale, di ore silenziose e nascoste di studio, formazione, di piccoli gesti, di lavori potati e l’insoddisfazione per la mancanza delle gratificazioni che i rapporti in presenza donano, le prove, l’apparente non poter “fare”.
Forse, questa è l’occasione per amare come Dio? Uomini e donne capaci di vivere come “gustose” e motivo di gratitudine anche le insoddisfazioni, l’apparente non senso, l’insignificanza, le prove?
Uomini e donne che rimangono, però, capaci di impregnare d’amore ogni azione della giornata, anche quelle non viste. La “Santa indifferenza”, come la definirebbe sant’Ignazio. Non per masochismo o facile vittimismo da pio e buon cristiano o per bisogno di riconoscenza e successo, ma perché questo è il modo più alto con cui anche Gesù ha amato. Amando ogni attimo del proprio tempo, ogni situazione, ogni uomo, mettendo amore in ogni gesto.
Forse, se ricollochiamo lo sguardo sul tempo dei germogli, su un orizzonte che supera la prova dell’oggi, su un tempo che non conosce la parola fine, forse, allora, riusciremmo a ringraziare per questo tempo, per il nostro stare sottoterra, per quest’attesa viva, che cresce, che mette radici profonde, anche se nascoste. Forse potremmo riscoprirci riempiti di pazienza e speranza.
E, quando sarà il tempo opportuno, i nostri semi germoglieranno, perché “Voi dunque li riconoscerete dai loro frutti” (Mt 7, 20).
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