Come andare a Messa e non perdere la fede

Talvolta la liturgia, anticipo di paradiso presente "in mystero" nel sacramento, viene oscurata da aggiunte e invenzioni più o meno originali. Tutto ciò si è verificato, in omaggio ad una concezione “fai da te” che pretende di assegnare a ciascuno un ruolo liturgico, perché tutti avrebbero diritto a “fare” qualcosa durante la messa...

Come andare a Messa e non perdere la fede

da Quaderni Cannibali

del 19 aprile 2011

 

 

          Una bella liturgia può convertire quando trasmette una bellezza, letteralmente, “dell’altro mondo”. Talvolta però quell’anticipo di paradiso presente “in mysterio” nel sacramento, viene oscurato da aggiunte e invenzioni più o meno originali, che possono di volta in volta divertire o annoiare, ma il cui denominatore comune è l’incapacità di innalzare le anime a Dio.

          E le chiese si svuotano, nonostante – o forse anche a causa di – decenni di sperimentazioni nate proprio con lo scopo di avvicinare la liturgia ai fedeli. I quali però - al di là della ristretta cerchia di “tecnici parrocchiali” dediti all’“animazione liturgica” – vorrebbero solo una messa “a forma” di messa, magari in una chiesa a forma di chiesa. Tutto ciò si è verificato, in omaggio ad una concezione “fai da te”– peraltro mai fatta propria dal Concilio, che pure viene perennemente invocato per giustificare qualsiasi novità – che pretende di assegnare a ciascuno un ruolo liturgico, perché tutti avrebbero diritto a “fare” qualcosa durante la messa. L’unico privato di diritti nella liturgia è Dio, la cui marginalità è efficacemente rappresentata dal tabernacolo sempre più relegato in un angolo e sostituito al centro dalla sede del sacerdote, che appare spesso come il vero protagonista della celebrazione. 

          Questo libro di don Nicola Bux, pertanto, è incentrato sulla riscoperta dello ius divinum, sul diritto di Dio ad essere adorato come Egli vuole, e non secondo i capricci della nostra “creatività” (sempre motivata da inattaccabili “ragioni pastorali”...). L’autore non ha bisogno di molte presentazioni, essendo già abbastanza noto per l’impegno profuso nella “buona battaglia” per la sacralità della liturgia, che gli auguriamo di continuare a portare avanti con la recente nomina a consultore della Congregazione per il Culto Divino.

          Sin dalle prime pagine (Intenti, pp. 7-10) don Bux afferma che «La liturgia cristiana subisce ai nostri tempi una violenza sottile: i suoi riti e simboli sono desacralizzati o sostituiti da gesti profani» (p. 7) in nome di una presunta necessità di continue e personali innovazioni, dimenticando però che «nessuno è meno cristiano di chi vuol cambiare la liturgia , invece di se stesso» (p. 9). 

          Analizzando la situazione presente, cominciamo col chiederci: In che condizioni è la messa (pp. 13-28). La risposta è data dalla suggestiva quanto drammatica immagine dei tre eretici Ario, Pelagio e Donato, le cui eresie – rispettivamente contro la divinità di Cristo, contro la grazia e contro l’unità della Chiesa - sono purtroppo ben visibili in tanta prassi liturgica: «il santissimo Sacramento messo in un angolo, non indica più nel tempio la permanente presenza divina; la sede del sacerdote sempre più imponente e visibile a scapito dell’azione invisibile ma efficace della grazia sacramentale; il rito incentrato sulla comunità locale non rimanda all’unità cattolica» (p. 13). Alla liturgia fatta da noi, frutto dell’attuale crisi di fede (sfiorando talvolta la «riduzione politica della liturgia», p. 18), si oppone come antidoto il diritto di Dio sulla liturgia che ha il proprio baluardo nel vicario di Cristo, il Papa, e che dunque non può fare a meno dell’obbedienza: «Solo l’obbedienza ci manifesta con certezza quale sia la volontà di Dio. È vero che il superiore può errare, ma non il Papa: comunque chi obbedisce non sbaglia» (p. 19). Per superare la crisi della liturgia occorre dar vita ad un nuovo movimento liturgico – ripresa di quello più celebre, del XX secolo – se proprio non piace il termine “riforma della riforma”. Occorre ri-orientare a Dio la liturgia. Magari cominciando proprio dall’orientamento fisico della preghiera, che è sempre rivolta a Dio, come ci ricorda Benedetto XVI quando celebra versus Deum, rivolto alla croce, sull’antico altare della Sistina (o nella sua cappella privata), o ponendo una croce come punto di riferimento sugli altari rivolti al popolo – possibilità quest’ultima mai obbligatoria (come ha chiarito la Congregazione per il Culto Divino), e tuttavia scambiata per un obbligo in nome del quale «sappiamo poi con quanta foga degna di miglior causa siano stati abbattuti gli altari rivolti ad orientem, cioè al Signore» (p. 24). 

          Nel secondo capitolo l’autore si chiede Cosa non fare a Messa (pp. 29-46) Bisogna evitare quel diffuso ma falso concetto di libertà, il rovesciamento per cui sarebbe il “popolo di Dio” a “fare” la liturgia (quasi un‘operazione di bricolage). Il processo è invece esattamente inverso: è invece proprio lo ius divinum insieme all’ethos (la giustizia verso Dio) a fare l’opus Dei (opera di Dio, proprio perché non è creazione umana), la liturgia, e questa a dar vita al popolo di Dio - che non preesiste ad essa. «Bisogna ristabilire il principio che la liturgia, con la musica e l’arte a essa connesse, è sacra» (p. 29). La falsa libertà, l’arbitrio liturgico, la continua sperimentazione non creano la liturgia, ma si risolvono piuttosto in quella «danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi» (p. 35) più volte denunciata dall’allora cardinal Joseph Ratzinger, e che trascina con sé anche lo stravolgimento dell’arte e della musica sacra. La diffusione capillare di questi fenomeni ha dato l’impressione che essi fossero voluti dal Concilio Vaticano II – impressione smentita dalla lettura diretta dei testi conciliari –, ma l’istruzione Redemptionis Sacramentum (2004) e altri richiami di Giovanni Paolo II hanno chiarito sufficientemente che questi abusi non trovano giustificazione alcuna nel messale post-conciliare promulgato da papa Paolo VI. Il sacerdote dunque deve ricordarsi che agisce a nome di un Altro (in persona Christi!), poiché i fedeli hanno il diritto di non dover subire le sue personali invenzioni. 

          I rimedi del Papa (pp. 47-65) consistono innanzitutto nel ri-ancorare la liturgia al dogma che essa esprime e da cui scaturisce: di qui l’infondatezza delle critiche degli specialisti – o “sezionatori”? - della liturgia, che consideravano con sufficienza le “incursioni” del teologo Joseph Ratzinger nel loro campo. Ma la liturgia ha a che fare direttamente con la verità, poiché non è altro che il sacrificio del Verbo, un sacrificio “razionale”. Il Papa invita dunque a “innovare nella tradizione”, mediante il reciproco arricchimento tra la messa di Paolo VI e quella cosiddetta di san Gregorio Magno o tridentina, tuttora in vigore come forma straordinaria dell’unico rito romano. «Prima di tutto la lingua sacra latina nella quale si celebra quella messa, si è caricata [...] di tutta la potenza delle preghiere e dei meriti dei santi, come le “coppe ricolme” dell’Apocalisse» (p. 52). «Ancora, bisogna pregare in ginocchio. Madre Teresa pregava sempre in ginocchio, così si esprime l’assoluto abbandono a Dio Padre, al quale dobbiamo donarci interamente, pronti ad ascoltarlo» (p. 53). Infine anche la musica deve avvicinare a Dio: di fronte alla proliferazione di canti mutuati dalla musica profana non è inutile ricordare l’ammonimento di Paolo VI: «Non indistintamente tutto ciò che sta fuori dal tempo (profanum) è atto a superarne la soglia» (p. 55). Paradossalmente (ma non troppo...) così come le giovani generazioni riscoprono il latino, «sono le culture affacciatesi di recente sull’orizzonte della Chiesa cattolica a insegnarci l’amore per il canto tradizionale della Chiesa» (p. 58). 

          La liturgia non è qualcosa di astratto, si svolge in un edificio la cui architettura dovrebbe ulteriormente facilitare la preghiera. Tuttavia tra gli edifici di nuova costruzione è sempre più raro trovare Una chiesa fatta a chiesa (pp. 66-83), cioè concepita secondo lo spirito della liturgia. «Senza la sacra liturgia l’arte non è sacra. Qui la forma non è indifferente: la chiesa assomiglierà al tempio dove Dio dimora, la “casa di Dio”, o all’aula della catechesi? Perché confondere la liturgia con la catechesi?» (pp. 66). La chiesa non è una sala per conferenze, anzi, così come la liturgia, la stessa architettura deve essere plasmata dall’orientamento – esteriore e interiore – verso l’altare e quindi verso il Signore. «È un percorso dalla fede battesimale alla grazia eucaristica, dall’esteriore all’interiore» (p. 68). Quindi l’autore passa ad esaminare le singole parti del tempio: dal battistero, «luogo dell’immersione di coloro che non sono ancora cristiani e che entrano nella Chiesa» (p. 69), al ruolo delle immagini e delle statue, ovvero la “famiglia di Dio”, agli spazi per i penitenti, per i fedeli e persino dei non credenti (i quali possono essere edificati dalla maestà della liturgia, come scriveva il beato card. Schuster, cit. a p. 70). Il tutto converge verso l’altare, «la parte più santa del tempio» (p. 76), che «non è innanzitutto una mensa, ma un’ara posta in luogo alto per il sacrificio dell’Agnello» (ibidem). «Nel post-concilio ha prevalso la tendenza ad avvicinare l’altare al popolo. In realtà non è l’altare che si deve avvicinare al popolo, ma il popolo all’altare» (p. 77) 

          Il quinto capitolo è dedicato a Quando è nata la messa? (pp. 84-101).  La messa è nata nell’Ultima Cena, ma non ne è la ripetizione, «come prova il fatto che solo le due benedizioni sul pane, che diventa corpo dato per noi, e sul vino, che diventa sangue versato per noi, sono state conservate dalla tradizione apostolica e inserite in una grande “preghiera di benedizione” o supplica di ringraziamento, in greco eucaristia» (p. 84), cui furono unite poi «le letture, i salmi, le preghiere, le istruzioni un tempo tenute nelle sinagoghe» (p. 85). Un ulteriore passo fu il divieto paolino di confusione con le agapi, onde evitare che l’eucaristia fosse fraintesa come banchetto. Abbiamo dunque il nucleo fondamentale della messa, che sin dall’inzio appare contraddistinta da liturgia della parola e liturgia eucaristica, e in cui la dimensione del convito è subordinata a quella del sacrificio. Successivamente l’autore ripercorre le varie riforme nella storia della Chiesa, fino alla riforma “universale” del Vaticano II, fonte di non pochi fraintendimenti superabili soltanto «nell’uscire in certo senso da se stessi e con la guida del magistero attingere alle sorgenti del rinnovamento che sono la sacra Scrittura e la tradizione dei padri e dei santi dottori» (p. 91). Il sacerdote non deve dimenticare di essere mediatore tra divino e umano e come «non inventa una propria dottrina, così non può fare o inventare liturgie» (p. 93): l’ars coelebrandi consiste piuttosto nel «servire con amore e timore il Signore» (p. 95) eseguendo con fedeltà tutti quei gesti che la Chiesa prescrive non certo per scrupolo rubricistico, ma per esprimere quello “stupore eucaristico” raccomandato da Giovanni Paolo II. 

          Nel capitolo successivo, don Bux ci aiuta a scoprire Cos’è la santa Messa (pp. 102-159). La messa è memoriale mortis Domini, è la partecipazione alla vita di Gesù: «una avventura che culmina in un dramma, la croce, che sarebbe stata una tragedia se egli non fosse risorto dopo tre giorni» (pp. 104-105). Il mistero della morte del Signore, centro del culto cristiano, getta nuova luce sui singoli aspetti della liturgia, a cominciare dalla ricca simbologia dei paramenti sacri, dalle suppellettili e dalle singole preghiere. «Presentarsi davanti a Dio per il sacrificio è un atto così grande che la Chiesa ha sempre sentito il bisogno di preghiere preparatorie» (p. 117) come «la recita del salmo 42 nella forma straordinaria del rito romano [...] Tali riti nascono da una domanda: sono degno di stare alla presenza di Dio? E da una certezza: sento che egli mi giudica e se sono contrito mi perdona» (ibidem). Nella messa si impara a stare alla presenza di Dio, e quindi ad adorare. Nulla di più naturale quindi di inginocchiarsi e di prestare la massima cura nel ricevere il Corpo del Signore: «Se tu lasciassi cadere qualcosa, devi considerarlo come se tu avessi tagliato uno dei membri del tuo proprio corpo. Dimmi, ti prego, se qualcuno ti desse granelli d’oro, tu per caso non li terresti con la massima cautela e diligenza, intento a non perdere niente?» (San Cirillo di Gerusalemme, cit. a p. 155). 

          Partecipare alla messa (pp. 160-176) richiede innanzitutto devozione, in quanto è partecipazione alla Passione di Cristo. Ed è un’esperienza totale, non riducibile alla sola comprensione razionale: «Alla liturgia si partecipa con i cinque sensi e ci si lascia afferrare da qualcosa che viene dal profondo e dall’eternità. Comprendere la realtà della liturgia è diverso dal comprendere le parole. Una vecchietta pia può comprendere il mistero anche se non comprende il significato delle parole» (p. 161), talvolta meglio di tanti teologi. La partecipazione piena, attiva, consapevole  – proprio quella raccomandata dal Concilio – è dunque in primo luogo una partecipazione interiore, è «l’offerta di noi stessi al Signore. È questo il “grande balzo” dell’incarnazione, non certo agitare le mani o muoversi di continuo» (p. 166). Non è la liturgia a dover essere abbassata al livello umano, siamo noi che dobbiamo lasciarci innalzare fino alle vette della liturgia celeste. 

          Il libro si chiude con un contributo di Vittorio Messori dedicato a Il Problema dell’omelia (pp. 177-191), in cui il noto apologeta cattolico ricorda ai preti qualche piccola regola di comunicazione: la semplificazione, la reductio ad unum, badando ad essere divulgativi, senza per questo scadere nel razionalismo. Ancora una volta ricorre l’et-et, caro a Messori, tra ragione e mistero, tra linguaggio e simbolo, perché «La parola dell’uomo può molto, ma non può tutto. Ben lo sapevano le società religiose (come il medioevo) che conoscevano e praticavano il linguaggio del simbolo. Quel simbolo che anche gli analfabeti erano in grado di decodificare nelle lussureggianti foreste di pietra delle grandi cattedrali, mentre noi – con tutte le nostre lauree e diplomi e specializzazioni – ne abbiamo perso la chiave» (p. 185). Forse perché abbiamo finito per inseguire un linguaggio “intellettuale” a base di kérygma, sinassi, esegesi, e via grecizzando, ancora più esoterico dell’ “oscuro” latino.

 

Stefano Chiappalone

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