L'essere umano “deve” consegnarsi a qualcosa o a qualcuno, è fatto per abbandonarsi all'altro, a chi o a che cosa lo deciderà lui, ma non può farne a meno. Fiducia vuol dire un modo di guardare a sé e al mondo, agli altri e a Dio, come una percezione-intuizione d'una sostanziale positività dentro e attorno a sé, legata all'io e al tu...
del 13 dicembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Tenerezza, paure, resistenze, fiducia, scelte vocazionali: termini che cercheremo di considerare da un preciso punto di vista, quello pedagogico.
1. Fiducia
          Partiamo da quello che sembra essere l’elemento centrale e strategico: la fiducia nella scelta vocazionale e con l’intento, come sempre, di fornire alcune indicazioni utili, soprattutto per quel povero cristo d’animatore vocazionale a volte tentato dal contrario della fiducia.
          La fiducia sembra oggi, nella cultura odierna, come un valore in via d’estinzione, la cui assenza determina crisi a vari livelli: da quella dei mercati finanziari a quella dei governi politici (che chiedono – a volte senza meritarla - la fiducia), da quella dei giovani nei confronti degli adulti a quella degli adulti nei confronti dei giovani, da quella dei preti in crisi di fiducia nel loro ministero a quella classica dell’animatore vocazionale che la fiducia spesso se la deve guadagnare, o perché non ne ha granché in se stesso o perché non ce l’ha per il suo lavoro, o perché respira sfiducia nell’ambiente o perché gli viene data dai Superiori in modo condizionato - una fiducia condizionata, come la libertà di certi imputati…-, cioè a partire dai risultati, o in proporzione al numero di vocazioni che riesce a conquistare. E allora che fiducia è? Figuriamoci come un animatore in queste condizioni potrà dare fiducia a un giovane perché faccia un’autentica scelta vocazionale. Ma un convegno vocazionale è per natura sua una risposta alla crisi di fiducia: chi vi partecipa evidentemente ha fiducia. Chi lo organizza ancor di più.
Dal  momento che trasmettere fiducia non è un atto automatico, è necessario riflettere su di essa e sulla sua dinamica, sulle sue radici e la sua evoluzione.
1.1 Componenti e peculiarità
          Fiducia, in un senso ancora molto generale, vuol dire un atteggiamento complesso interiore, un modo di guardare a sé e al mondo, agli altri e a Dio, come una percezione-intuizione d’una sostanziale positività dentro e attorno a sé, legata all’io e al tu, a qualcosa di vero-bello-buono che m’attira e che avverto di poter raggiungere o che comunque sento amico e accogliente.
Lo specifico della fiducia è espresso ancor meglio dal verbo che la esprime: mi fido. Che sta a significare, fondamentalmente quattro cose o sensazioni:
          Anzitutto la combinazione di queste percezioni positive: verso l’io e il tu, verso la realtà esterna e la realtà stessa che mi sta dinanzi o che in qualche modo m’attrae (come ad esempio una scelta di vita); l’importante è che queste sensazioni siano avvertite assieme, ovvero l’autentica fiducia è un atteggiamento globale, universale (se uno non si fidasse almeno un po’, implicitamente o esplicitamente, di sé e delle sue capacità, degli altri e del loro senso di rispetto, della terra e della sua fecondità, di Dio che nutre e feconda la terra, non pianterebbe mai un albero; così come se due genitori non si fidassero l’uno dell’altro, ma anche della vita attorno a sé e di Dio, datore della vita, non si metterebbero mai a far figli).
          Nel gesto del fidarsi, c’è anche la percezione di qualcosa che sfugge al controllo del soggetto (come quando uno si trova dinanzi a scelte che toccano il suo futuro che evidentemente non conosce, oppure quando la scelta coinvolge un’altra persona), o qualcosa che non è del tutto motivato razionalmente, o qualcosa di difficile per le proprie capacità, quasi d’irrealizzabile in prospettiva futura (ad es Maria di fronte all’Angelo che le rivela il piano “impossibile” di Dio su di lei);
          Nel primo caso la fiducia è come un dar credito all’altro (di cui mi fido), il fidarmi del quale equivale come a un consegnarmi nelle sue mani, ad affidarmi a lui, ad abbandonarmi (ad es il matrimonio o un’amicizia, ma soprattutto l’innamoramento è fiducia alla radice e al massimo grado, così pure l’atto di fede è “fatto” di fiducia, e il bambino che si fida della madre ne è l’esempio più chiaro); nel secondo caso il fidarsi assomiglia a una scommessa, come un colpo di testa cui è legato un rischio (es Pietro che getta le reti dall’altra parte della barca fidandosi della, o scommettendo sulla, Parola del Maestro; ma anche la scelta vocazionale sa di scommessa, non tanto su di sé, ma su Dio).
          Di conseguenza da un lato la fiducia è gesto libero, proprio perché nella fiducia non c’è alcuna costrizione, anzi, chi si fida va oltre anche il razionale (e a volte il ragionevole) e sembra sfidare l’impossibile proprio in forza della sua fiducia; d’altro lato, però, è naturale per l’uomo fidarsi, lo deve fare… per forza, in ogni scelta c’è sempre un margine non controllato dal calcolo e gestito proprio dalla fiducia. L’essere umano “deve” consegnarsi a qualcosa o a qualcuno, è fatto per abbandonarsi all’altro, a chi o a che cosa lo deciderà lui, ma non può farne a meno1. E se per caso si metterà in testa di non volersi consegnare a nessuno (“io mi basto a me stesso”) diventerà prima o poi dipendente da qualcosa che lui stesso ignora.
          Già da questa riflessione iniziale possiamo dedurre che l’atto del fidarsi è tipicamente e profondamente umano, e pure fondamentale per l’atto di fede (molti credono, pochi si fidano), così come è un atto assieme personalissimo e del tutto relazionale, ma è anche libero e assieme necessario.
1.2 Somiglianze e dissomiglianze
          Sorella quasi gemella della fiducia è la speranza, ma con una differenza significativa. Entrambe dicono la positività dell’atteggiamento profondo della persona, quel certo ottimismo che viene dalla fede, in particolare; entrambe dicono ancora l’atteggiamento aperto al futuro; ma mentre la speranza fondamentalmente attende dall’altro, forse con certa passività, l’attuazione del desiderio (o del sogno), la fiducia implica pure la disposizione interiore e attiva del soggetto che s’abbandona, che si consegna all’altro, alla vita, a Dio. C’è molta contiguità tra questi due atteggiamenti virtuosi.
          Al  contrario, alla fiducia s’oppone una serie di atteggiamenti che vanno dal sospetto più o meno generalizzato all’agire calcolato, dalla diffidenza verso l’altro al rifiuto di far qualsiasi cosa che sia percepita al di sopra delle proprie capacità, dall’esagerata timidezza a un malinteso senso dei propri limiti, dalla paura dell’altro al timore di fare brutta figura, dalla prudenza che è falsa quando inibisce le scelte all’incapacità di sognare e desiderare in grande, dallo sguardo amaramente scettico su tutto e su tutti alla pretesa di fidarsi solo di sé e delle proprie cose, della propria gente e della propria razza…Insomma uno scenario niente male e per niente lontano dalla realtà che stiamo vivendo! E che va inevitabilmente a influenzare la capacità decisionale dell’essere umano: senza fiducia è molto difficile la scelta, particolarmente quella vocazionale.
2. La scelta
          La scelta è momento strategico della vita umana, è il momento nel quale l’evidenza del mistero nella vita umana si dà in maniera particolare: quando l’uomo sceglie è inevitabilmente posto dinanzi al mistero, anche se non lo sa, al mistero di sé, dell’altro, della vita, di Dio se è credente, ma anche se non lo è. E, scegliendo manifesta quel che ha in cuore, soprattutto se la scelta è ponderata e rappresenta una decisione rilevante per la vita. 
          Vorremmo cercare di cogliere una pedagogia della scelta, partendo dalla situazione culturale in cui ci troviamo oggi, per veder poi gli elementi costitutivi della scelta, e ciò che distingue la scelta cristiana dalla scelta puramente umana, e infine dare alcune indicazioni pedagogiche.
2.1 Cultura dell’indecisione (o paura di scegliere)
          Oggi viviamo, potremmo dire, addirittura in una cultura dell'indecisione, e i giovani d'oggi, figli di genitori, o con educatori, insegnanti, preti… indecisi, sono esattamente una generazione d'indecisi. La crisi vocazionale non è forse segnale preoccupante proprio di questa situazione? Laddove ciò che preoccupa non è tanto il vuoto più o meno desolante di seminari e noviziati, quanto la mancanza di quell'atteggiamento fondamentale di scelta che ogni giovane dovrebbe avere dinanzi alla vita in genere e al suo futuro in particolare, qualsiasi esso sia. Tale atteggiamento assume forme variegate e interessanti, ma tutte, senza distinzione di sorta, prive della dimensione del mistero e caratterizzate da una crescente paura, la paura di scegliere. Vediamo alcune di queste forme partendo dal livello più povero e inconsistente.
a) La non scelta
          È il livello zero, tipico di chi vorrebbe non scegliere mai, se potesse, e quando proprio deve fare una scelta (da quella dell'indirizzo scolastico a quella delle vacanze) la rimanda all'ultimo momento, o traccheggia all'infinito, assalito da dubbi e conflitti o semplicemente tranquillo e adattato allo status dell’homo indecisus.
          Di fatto, queste persone scelgono pochissimo nella vita, e rischiano soprattutto di non prender mai posizione dinanzi ai grandi problemi dell'esistenza, restando sempre in una posizione amorfa e neutra, senza mai il coraggio e l’intelligenza di mente e di cuore di porsi dinanzi al mistero. Per giungere magari al termine della vita senz'aver ancora deciso di vivere. Si nasce, infatti, per una scelta altrui, ma la qualità della vita, e normalmente anche della morte, è legata a una decisione propria!
b) Scelta delegata e del “così fan tutti”
          In realtà è impossibile non scegliere nella vita; chi pretende viver così si ritrova a dover subire, magari senza accorgersene, scelte fatte da altri al suo posto, come avesse dato la vita (e il cervello) in appalto a qualcun altro. È il caso di giovani, anzitutto, che sembrano subire i propri istinti e sentimenti, divenendone succubi, anche senza saperlo, come dei primitivi adoratori di entità sconosciute o enigmatiche; o che non fanno un'opzione di valori né hanno il coraggio di dare un senso originale alla loro storia, ma assorbono la cultura circostante, bevendo tutto e mai scoprendo il gusto della ricerca personale; o ragazzi che sono psicologicamente “costretti” a seguire la logica del branco, costretti a fare i bulli e farsi schifo alla fine, miseramente schifo; o giovani che non scelgono assolutamente il proprio futuro, perché già programmato da più o meno occulte agenzie di collocamento (i genitori, il mercato, la convenienza economica, l'opinione dominante...). C'è tanto “pappagallismo” in giro oggi, o “neo-pecoronismo”, come un rischio che incombe su tutti in questa società dalla comunicazione imperiosa e imperante, condizionante ogni scelta ed escludente - è ovvio – ogni idea di mistero.
c) Scelta contraddittoria e …infedele
          È la decisione di chi in ogni scelta si lascia sempre aperta la possibilità di fare marcia indietro, in qualche modo lasciandosi sempre una porta aperta o smentendo quel che ha deciso, la parola detta o l'impegno preso (così se ci sposiamo lasciamo sempre aperta la possibilità di lasciarci, anzi, conviviamo semplicemente allora, è più semplice; o se t’ingravido e non ti garba basta una pillola e addio bebè; o se intraprendo una strada, se poi non mi piace più ne inizio un’altra…, e tutto diventa fragile e inconsistente, leggero e liquido, proprio come la modernità odierna). È scelta che teme il 'per sempre', finendo però per contraddire il mistero della libertà umana, e rendendo banale l'esistere, inaffidabile la parola e incerto il rapporto. Ma anche pretendendo di cancellare il dramma della vita umana: l'uomo può decidere d'abbandonare la sua vita a un ideale, a un affetto, a un progetto..., può consegnarsi a tutto ciò, e in definitiva, a un Altro, o a qualcosa che lo supera e di cui si fida. Anzi, non solo può, ma lo deve fare, come abbiamo visto prima, naturalmente decidendo lui e solo lui a chi o che cosa consegnarsi, ma rimanendovi poi fedele anche quando c'è un prezzo da pagare.
Ogni scelta autentica esprime, implicitamente o esplicitamente, questo dramma che dice assieme la dignità umana e la piena accoglienza della sua dimensione misteriosa.
d) Scelta ripetitiva e sterile
          C'è chi teme la novità della scelta e le possibilità che certe scelte aprono davanti al soggetto, e allora decide di non correre alcun rischio: sceglie, ma è come non scegliesse, sceglie infatti di fare solo ciò che è sicurissimo di saper fare, sta ben attento a non fare il passo più lungo della gamba, è superprudente e pretende tutte le garanzie, preferisce battere la strada vecchia, più sicura e senza sorprese, e non s'accorge che si sta ripetendo o che il suo futuro è troppo simile al passato, quasi in un processo di clonazione a ripetere, mentre la vita diventa sempre più noiosa e incolore. In prospettiva vocazionale questo sarebbe il caso di chi decide il suo futuro semplicemente in base a quel che è, alle sue doti, a ciò in cui riesce, a quanto ha già scoperto di sé, e non è disposto ad accogliere alcuna provocazione che lo spinga ad andare oltre se stesso, a rischiare l'inedito, a buttarsi in avventure un po' ardite, ove non ha garanzie precise. D'altronde è solo così che uno scopre la propria identità, e soprattutto scopre che essa è sempre al di là di quel che uno pensa di sé, del suo io attuale o dei suoi test attitudinali.
e) Scelta egoista e cieca
          Infine esiste anche la decisione di chi vede solo se stesso e i propri interessi, e decide in base a essi, senz'accorgersi degli altri, del bisogno o del dolore altrui. Scegliere vuol dire aprirsi, accogliere la provocazione che viene dai volti incrociati, tener vigilanti i propri sensi, lasciarsi intercettare da appelli e domande. L'egoista non sa scegliere, poiché vede solo se stesso; e chi non sceglie il “tu” ha già scelto la propria morte.
f) Scelta imbecille e odiosa
          Infine c’è la scelta di chi non sa più cosa fare per occupare il tempo, ovvero per sentirsi vivo, reattivo, capace di godere della vita, o che forse ha esaurito varie possibilità in tal senso, andando a cercare felicità nei santuari moderni, e ricevendo in cambio solo illusione di gioia, e si ritrova che non sa più cosa fare davvero per “ammazzare il tempo”. Un po’ come quei giovani assolutamente normali che, negli anni passati, non trovavano niente di meglio che “divertirsi” gettando sassi dal cavalcavia, giovani “vuoti”, come ebbe a giudicarli Andreoli2; o come quegli altri di Rimini, giovani di buone famiglie, che una notte di qualche mese fa decidono di dar fuoco a un povero barbone che sta tentando di difendersi in qualche modo dal freddo pungente notturno, ovvero decidono che la loro voglia di provare un’emozione diversa sia più importante della dignità e della vita di quest’uomo. Per poi giustificarsi dicendo che non volevano fargli del male, ma solo spaventarlo, così, “per gioco”; e i genitori a difendere “teneramente” i loro pargoli ventenni perché… “mica l’han fatto per cattiveria”. Forse, il vuoto mentale forse è ereditario… In quale vuoto, in quale educazione al nulla sono cresciuti questi ragazzi “normali”? Che cos’è un uomo e chi ci sia dietro al volto d’ognuno, è mistero per qualcuno perduto, memoria colmata dal nulla…
2.2- Elementi costitutivi della decisione
          Ogni decisione personale, ci ricorda l’analisi rigorosa psicologica, implica quattro componenti: la preferenza (o il desiderio), la rinuncia, il legame col passato, l’orientamento verso il futuro3. Ma ne aggiungo un’altra, in linea con la prospettiva del mistero che avvolge la vita umana e che proprio nel momento della decisione si rende paradossalmente evidente; è la componente, dunque, della zona scoperta e in qualche modo a rischio.
a) Desiderio (elemento preferenziale)
          Si sceglie una possibilità non perché è la sola possibile, ma perché preferita ad altre pur accessibili. O perché c’è un desiderio intenso che attira in quella direzione; desiderare, infatti, significa concentrare tutte le proprie energie nella tensione verso qualcosa che la persona sente come centrale per la sua vita. Se la concentrazione energetica è come la pressione delle acque sulle pareti d’una diga, la decisione è il punto di rottura della diga che fa fuoruscire l’acqua. In termini spirituali potremmo dire che se il desiderio rappresenta la componente mistica, la decisione è l’attuazione ascetica.
          C’è dunque un’attrazione positiva all’origine d’una scelta, che diventa improbabile o che sarà debole se tale attrazione è povera o assente. Ed è sempre tale attrazione o il desiderio a motivare la rinuncia, perché non diventi mortificazione costrittiva. Nell’autentica decisione i valori o le alternative cui s’è rinunciato non vengono in alcun modo disprezzati. Non è la malizia di ciò che si esclude, ma la desiderabilità di ciò che si sceglie a provocare l'esperienza dell'addio. Questo ha già un’implicazione pedagogica di assoluto rilievo per quanto ci riguarda: se non vi sono decisioni vocazionali occorre lavorare sul suo primo elemento costitutivo, il desiderio. Altrimenti detto: la decisione vocazionale non può esser provocata artificialmente, ma solo favorendo la capacità di desiderare e di desiderare ciò che è degno d’esser desiderato, e al tempo stesso alla capacità dell’animatore di dire la bellezza dell’ideale, capacità che è presente solo se egli ne è innamorato.
b) Rinuncia (elemento mortificante)
          Per realizzare ciò che desidero devo rinunciare. Volere una cosa significa automaticamente rinunciare a un'altra incompatibile con la precedente. C'è una rinuncia comunque, anche quando si decide di non decidere, anche se il soggetto non se ne avvede.
          La rinuncia di cui parliamo è una rinuncia non solo e non tanto a cose esterne (abilità, occasioni...), quanto a una parte dell'io stesso, ad alcune sue esigenze e bisogni, o al loro esercizio. Se voglio dare un senso alla mia giornata devo rinunciare ai desideri opposti: dormire, semplicemente evitar guai, fantasticare...
          Ogni decisione, va dunque detto molto realisticamente, è una limitazione delle potenzialità personali, una mortificazione, anche se il termine appare desueto e poco invitante. Ma riguarda la natura della decisione in quanto tale, della decisione qualsiasi. Ovvero il concetto di rinuncia non è necessariamente cristiano, esso appartiene a una sana psicologia. In prospettiva pedagogica ciò significherà che nessun educatore può chiedere una rinuncia se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia spalanca al soggetto. In prospettiva vocazionale ciò sta a dire quanto sia importante che l’animatore sia capace di presentare la bellezza della prospettiva vocazionale, la libertà che essa dona, la pienezza di vita che essa regala. È chiaro, infatti, che la rinuncia fa paura nella misura in cui la prospettiva positiva non è abbastanza evidente. D’altro canto i giovani hanno il diritto che si trasmetta loro, da parte degli adulti, ideali, e non solo scetticismo e cinismo. La forza d’attrazione posseduta dall’ideale diventa forza per la rinuncia.
c) Legame col passato (elemento temporale)
          Ogni decisione, anche quella che sembra banale e comunque poco significativa, ha la sua storia e dice qualcosa di noi, è inevitabilmente connessa con scelte precedenti o con uno stile di vita già collaudato. La scelta del presente in qualche modo svela questo passato, o ne svela conseguenze e implicanze, abitudini indotte e a volte profondamente radicate, al punto da risultare difficilmente modificabili. Non esiste, in tal senso, scelta innocua o che non lasci traccia alcuna, al contrario, ogni scelta tende a ripetersi o crea comunque tendenza nella medesima direzione. Per questo la prospettiva psicologica dà molta importanza alle singole decisioni di una persona, che non vanno mai sottovalutate. Nella logica di quanto dicevamo dianzi potremmo dire: non esiste scelta troppo piccola da non poter condizionare quelle successive. È chiaro, allora, che anche la grande scelta vocazionale è preceduta da una quantità di microscelte, potremmo dire, che la preparano aprendo una strada che va in quella direzione. Oppure il contrario, piccole scelte di segno opposto (antivocazionali) allontaneranno sempre più il soggetto dalla possibilità di fare un’autentica opzione vocazionale.
          Il legame tra scelte passate e scelta presente non va comunque in alcun modo assolutizzato o enfatizzato, fino a eliminare tout court libertà e responsabilità, come vorrebbe oggi certa cultura deresponsabilizzante e dilettante (nel senso che sembra proprio giocare con certa psicologia mal divulgata e peggio ancora assimilata, quasi da rotocalco). La verità è che noi possiamo non essere responsabili, o non esserlo del tutto, delle tendenze ereditate dal passato, ma siamo in ogni caso ora responsabili del rapporto che stabiliamo verso di esse, di quanto facciamo per esserne consapevoli, per coglierne le radici e per tenerle sotto controllo4. Qui si decide la maturità della scelta.
d) Orientamento verso il futuro (elemento prospettico)
          La scelta fatta, specie se si tratta d’una scelta esistenziale, d’uno stato di vita o di qualcosa che per natura sua coinvolge l’intera esistenza, diventa il fondamento per tutte le scelte future che devono ancora essere pensate. Decidersi è come disegnare una cornice: delimita dei confini e distingue lo spazio interno da ciò che rimane fuori; questo spazio dovrà essere riempito dalle decisioni future, le quali saranno qualificate come riuscite e vere solo se saranno nella stessa linea di questo primo inizio liberamente scelto. “La condizione dell'impegno è che la persona si renda incapace di rovesciare la sua decisione... Deve mantenere un atteggiamento inequivocabile verso l'alternativa scelta e rinunciare all'altra; tale rinuncia darà un contenuto di gioia all'alternativa scelta”5.
          L'insieme di questi quattro elementi permette già di intendere la decisione come un orientamento che pone le sue radici nel passato e che è liberamente imposto all'intera nostra esistenza. Libertà e auto-imposizione si richiamano a vicenda: l’auto-imposizione è la conseguenza della libertà, così come l'imperativo è la conseguenza dell'indicativo.
          Una volta deciso, la persona si vede «costretta» a interpretare tutta la vita seguente alla luce dell'orientamento scelto. La decisione presa diventa una chiave di interpretazione per il futuro: la vita sarà genuina solo se fedele a questo inizio. Ci si decide e poi ci si vede prenotati per il futuro. Questa auto-imposizione non significa freddo volontarismo o castrazione di sé, ma esprime l'elemento preferenziale implicato in ogni scelta libera. Tale imposizione fatta non per forza, ma per scelta darà un contenuto di gioia al resto della vita.
e) Zona scoperta e a rischio (elemento misterioso)
          Ma permane in ogni caso in ogni decisione, e specie in questo tipo di decisioni importanti per la vita, una zona buia, in cui scarseggiano le evidenze e gli appoggi e non bastano i calcoli e le previsioni. Forse è il punto in cui la scelta mostra il suo legame col mistero. È anche questa elemento costitutivo della scelta umana. Proprio per questo sosteniamo che “alla radice della decisione non c'è un'evidenza matematica, ma un atto libero che si basa solo su una certezza morale: rimane sempre un residuo di insicurezza intellettuale che può essere superato solo osando e rischiando. Non è possibile prevedere i singoli eventi futuri; decidendosi, l'uomo fa un passo nel futuro sconosciuto sorretto tuttavia dalla conoscenza delle proprie forze morali e quindi dalla conoscenza del suo modo probabile di agire di fronte a futuri avvenimenti. Ma il futuro rimane libero, tutto da fare; è un processo di avveramento continuo che mette alla prova la capacità di integrazione di chi decide. Tuttavia questo futuro, anche se rischioso, non è mai arbitrario perché guidato dall'orientamento liberamente scelto, ovvero da una fiducia di fondo, verso se stessi, anzitutto, ma poi verso l’altro, con colui con cui in qualche modo ci si sta legando e cui si sta consegnando, come vedremo.
          E qui esplode il mistero dell’essere umano e la sua dignità: che un uomo possa consegnare il proprio futuro, che non conosce, nelle mani d’un altro, d’un Altro, o che possa dire a una donna: “Ti prometto di starti accanto, ovvero la mia fedeltà, nella buona e nella cattiva sorte” è mistero grande, non è solo commovente, ma è qualcosa che evoca la grandezza dell’essere umano, e che si può spiegare solo con l’intensità dell’amore. Perché solo ciò che è intenso ha bisogno di estensione e può abbracciare tutta la vita.
          Non si capisce davvero perché oggi si voglia impoverire la vita di queste esperienze e privare il soggetto di queste sensazioni. In esse è tutta racchiusa la bellezza dell’esistenza umana. Il “per sempre” può far paura, paura sana come la paura del mistero, che fa venire le vertigini, ma nel vero senso della parola, vertigini che attraggono e risucchiano la persona: in quel lasciarsi attrarre-risucchiare dal mistero consiste la decisione. Se la paura, invece, non viene dal mistero, ma dal timore di perdere le possibilità o le alternative cui uno deve rinunciare, allora non c’è alcuna decisione, ma solo l’implosione su di sé, egoista e sterile.
 
Note
1. Lo dice molto chiaramente Rahner su un piano non semplicemente psicologico: “L’uomo si affida necessariamente ad altri ed è necessariamente portato a farlo” (K. Rahner, Che significa amare Gesù?, Roma 1983, p.13).
2. Così li diagnosticò il famoso psichiatra veronese: “Questi giovani non sono malati; non sono neppure cattivi. Purtroppo sono vuoti, e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”.
3. Prendiamo lo spunto per questo paragrafo dalle penetranti analisi di A. Manenti, Vivere gli ideali. Fra paura e desiderio, Bologna 1988, pp.208-213. Ma cf anche M.E. Kaplan – S. Schwartz (eds.), Human judgment and decision processes, New York 1975; I. Janis- L. Mann, Decision making. A psychological analysis of conflict choice and commitment, New York 1977.
4. Cf A. Cencini – A. Manenti, Psicologia e Formazione. Strutture e dinamismi, Bologna 1998, pp.198-200.
5. Il riferimento di fondo di queste pagine è una teoria sulla decisione umana che è piuttosto datata, ma che mi sembra ampiamente confermata non solo da studi più recenti, ma soprattutto dalla realtà esperienziale della vita: cf H.B. Gerard, Basic features of commitment, in R.P. Abelson, Theories of cognitive consistency: a sourcebook, Chicago 1968, p.457.
Amedeo Cencini
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