Come ho ricominciato a vivere dopo tre mesi nelle mani dei ribelli

Sono Agnes Gillian Ocitti, un'ugandese di 27 anni. Sono nata nel distretto di Kitgum, nel nord dell'Uganda, sono un'Acholi e sto seguendo un master post laurea in Diritto internazionale dei diritti umani presso l'Università di Utrecht...

Come ho ricominciato a vivere dopo tre mesi nelle mani dei ribelli

da Quaderni Cannibali

del 23 settembre 2008

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Sono Agnes Gillian Ocitti, un’ugandese di 27 anni. Sono nata nel distretto di Kitgum, nel nord dell’Uganda, sono un’Acholi e sto seguendo un master post laurea in Diritto internazionale dei diritti umani presso l’Università di Utrecht.

Chi vive nell’Uganda del nord ha sofferto ed è stato testimone delle atrocità causate dal LRA (Lord’s Resistance Army), un fanatico gruppo di ribelli, in una guerra durata 22 anni e che ora si sta cercando di superare.

Come molti altri bambini dell’Uganda del nord rapiti dal LRA, anch’io fui rapita nella notte del 10 ottobre 1996, all’età di 14 anni, insieme ad altre 139 ragazze del collegio dove studiavamo, il St. Mary ad Aboke, nel distretto di Apac. Suor Rachele, una missionaria comboniana italiana che all’epoca era vicedirettrice della scuola, e un insegnante di nome Bosco, si misero sulle nostre tracce e riuscirono ad ottenere il rilascio di 109 ragazze. Trenta di noi non furono liberate, e io ero tra quelle. Solo più tardi riuscimmo a trovare un modo per fuggire, ma quattro delle mie amiche di Aboke morirono durante la prigionia e due sono ancora disperse. Sono ormai passati dodici anni da quando ciò avvenne.

Ho conosciuto fino in fondo la durezza della vita di un prigioniero del LRA. Ho imparato a come sopportare in silenzio le percosse e a recitare la parte del soldato ubbidiente. Durante la prigionia, fummo costrette a uccidere una ragazzina che aveva cercato di scappare, a rubare per sopravvivere, maltrattate e torturate in modo crudele. Le ragazze giovani subivano abusi sessuali e diventavano così madri di figli di ribelli. Io dovevo essere presa come moglie da un comandante del LRA e sapevo che avrebbe distrutto me e i miei valori. Ogni giorno il mio cuore piangeva per la libertà.

Riuscii a scappare dopo tre mesi, mesi segnati da dolore, lacrime e sofferenza. Nella nostra fuga incontrammo per fortuna alcuni contadini che ci portarono ad una caserma dell’UPDF (l’esercito ugandese). Fui inondata di gioia e le lacrime cominciarono a scorrere liberamente, lacrime di sollievo, di dolore e di felicità.

I miei genitori e le mie compagne di scuola mi accolsero con grande affetto e l’amore e le attenzioni che mi furono date fecero sì che riuscissi a riprendermi psicologicamente dal trauma. Sia nella mia famiglia che a scuola fui consigliata, amata e curata in un modo speciale. Dopo il rapimento ero tornata a studiare ad Aboke proprio per il grande amore che lì c’era per me. Suor Alba fu un’amorevole e premurosa direttrice e ci trattò come se fossimo sue figlie. Purtroppo morì nell’aprile del 2006 senza riuscire a vedere tutte le sue care figlie tornare a casa dalla prigionia del LRA. Il mio rapimento sviluppò in me un particolare amore per l’umanità ed è per questo che decisi che dovevo diventare avvocato, per l’esigenza di giustizia e pace che avevo nel cuore.

La situazione politica nell’Uganda del nord è molto migliorata negli ultimi due anni e noi ne siamo molto contenti: più del 50% dei rifugiati interni sono tornati nella loro zona di origine e altri sono stati accolti in nuovi insediamenti dove possono avere terra da coltivare. Tutto ciò mi colpisce perché so cosa significhi tornare alla propria casa, dove i bambini possono trovare quell’accoglienza familiare e quell’amore di cui sentivano tanto la mancanza nei campi profughi.

Negli ultimi due anni, con AVSI, ho lavorato con questi profughi, un’esperienza che mi ha arricchito socialmente ed emotivamente. Particolarmente toccante è stato vedere come nei villaggi, pur nella tristezza causata dalla grave situazione economica e sociale, emergeva comunque la gioia del ritorno. Perché noi viviamo tuttora tra speranza e disperazione.

Come giovane professionista mi sento messa alla prova dal modo in cui si vive in Uganda del nord, con la maggior parte delle persone ancora traumatizzate e rovinate economicamente e socialmente. Molti devono far fronte alle invalidità causate dal conflitto, altri soffrono per la mancanza di acqua, che devono andare a prendere a chilometri di distanza, vi sono genitori in apprensione per i figli lasciati nei campi profughi per poter studiare, così come sono stati lasciati i deboli fisicamente, i disabili e gli anziani, perché gli ambulatori sono stati distrutti e gli ospedali sono accessibili solo dai campi.

Siamo contenti che la situazione sia migliorata a livello politico, ma a livello economico la situazione è ancora disastrosa e i bambini, i giovani, tutta la comunità dell’Uganda del nord ha ancora bisogno di aiuto. C’è bisogno di scuole, di ambulatori, di acqua potabile e noi non possiamo avere tutto ciò senza aiuto. Per favore, non dimenticateci, aiutate noi per aiutare voi stessi.

 

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