Come parlare della sofferenza nell'omelia e nella catechesi

l'una e l'altra hanno come scopo aiutare a cogliere il senso e quindi a vivere in atteggiamento di consegna la condizione nella quale ci si trova. A questo riguardo le scorciatoie che non tengano conto delle domande non servono, producono anzi l'effetto contrario: i luoghi comuni possono dire le verità più alte, ma non dirle alle persone.

Come parlare della sofferenza nell’omelia e nella catechesi

da Teologo Borèl

del 19 ottobre 2009

“Due giorni del Clero”

Torino, 15 e 16 Settembre 2009

Schema della Relazione del prof. don Giacomo Canobbio

Come parlare della sofferenza nell’omelia e nella catechesi (Torino 16.09.09)

 

Premessa: l’una e l’altra hanno come scopo aiutare a cogliere il senso e quindi a vivere in atteggiamento di consegna la condizione nella quale ci si trova. A questo riguardo le scorciatoie che non tengano conto delle domande non servono, producono anzi l’effetto contrario: i luoghi comuni possono dire le verità più alte, ma non dirle alle persone. Espressioni del tipo: “Partecipi alla salvezza del mondo… compi nel tuo corpo ciò che manca alla passione di Cristo (Col 1,24)… in Cristo prende senso la sofferenza umana” rischiano di diventare slogan che irritano, perché non prendono avvio dalla domanda. Un esempio da La peste di Camus (p. 96s).

 

La domanda: perché Dio ci lascia/fa soffrire?

 

1. Il luogo della domanda Non è semplicemente la questione del male in generale, neppure quella della sofferenza in generale. Non si tratta di un problema teoretico. È piuttosto un problema che nasce in un contesto di fede, che implica una conoscenza di Dio: se Dio è Padre, ed è il Dio della vita, perché ci lascia soffrire? Il confronto con le premure di un padre terreno fa risultare Dio perdente (cfr. la parabola di Flew, e la sua applicazione). Né si può rimandare all’eschaton l’intervento di Dio; perché non interviene ora? Accanto a questa concezione, all’origine sta una concezione della vita come percorso senza ostacoli: una concezione legata a strutture native che nel nostro contesto vengono risvegliate con particolare vigore (cfr. il salutismo, che non mette in conto i limiti della condizione umana).

 

2. Le possibili risposte

 

Sono ricavate dalla Bibbia, a testimonianza che non c’è una sola risposta che valga per tutti e in tutte le condizioni, ed è frettoloso dire che le nostre risposte sono ricavate dalla Bibbia.

a) per punirci delle colpe Sullo sfondo sta l’archetipo colpa-pena: Adamo – Eva - Serpente: Gn 3,14-19; Esilio: cfr. Ger 5,19(!) Ma: perché allora la sofferenza degli innocenti? cfr. Gb. ? colpevolezza generale!? Ma perché non tutti soffrono allo stesso modo? E dove sta la misericordia di Dio? Un Dio che punisce come potrebbe insegnare il perdono?

b) per educarci La risposta nasce dalla esperienza: chi vuol far maturare deve chiedere “sacrifici”. La sofferenza come prova e come correzione. Dt 8,2-5 Eb 12,4-11. Ma si suppone che Dio ci consideri in grado di reggere alla prova. Di più, a volte la nostra sofferenza è provocata da altri: si può pensare che Dio provochi il male per provarci? E perché a qualcuno chiede più che ad altri? E chi garantisce l’esito?

c) per farci partecipare alla salvezza del mondo Cfr. la sofferenza salvifica, di Gesù riproposta dall’apostolo cfr. Col 1,24 Ma nell’un caso e nell’altro si tratta di una sofferenza particolare: è esito di una missione vissuta con fedeltà e quindi lascia trasparire la fedeltà-amore di Dio. Ma la sofferenza di chi non riesce neppure a scoprire la sua missione?

 

Non si prende in considerazione la risposta che rimanda alla fragilità nativa della natura umana, perché questa, pur essendo vera, non spiega perché una persona debba soffrire più di un’altra.

 

3. Verso una prospettiva

 

Dalle risposte ipotizzate risulta che la ragione resta misteriosa. E questo in alcuni momenti acuisce il problema: magari lo si potesse sapere! Permetterebbe di trovare un senso. Il non-sapere ci pone di fronte al mistero. E questo può essere la semplice notte o la notte che nasconde ai nostri occhi una realtà più grande. Nei confronti dell’esistenza, nonostante la percezione continua del nostro limite, noi siamo tentati di volerla “dominare”: è nostra ed è giusto che ce ne possiamo occupare! Il mistero è insopportabile perché ci rimanda al nostro limite. L’accettazione del mistero è riconduzione alla nostra verità. In tal senso il non-sapere è nello stesso tempo rivelazione della nostra condizione ed educazione a restare in essa . In ultima analisi non sappiamo perché Dio ci lascia/fa soffrire. E lui non ce l’ha voluto dire: il mistero della sofferenza è una cifra del mistero di Dio.

 

4. Di fronte alla sofferenza

 

Premessa: l’atteggiamento non potrà essere sempre identico. Il cammino per arrivare all’atteggiamento credente è faticoso e oscuro e va sopportato. Si possono ipotizzare alcuni punti di partenza, da tenere in considerazione per far giungere all’assunzione di un atteggiamento conforme a quello di Gesù.

a) la negazione di Dio o la perdita della fede È l’atteggiamento che svela la “priorità” della propria concezione della realtà e/o di Dio rispetto al mistero. Sorge in genere quando non si riesce a capire e si vorrebbe a tutti i costi farlo: cfr. Ivan Karamazov.... accecamento.

b) la protesta: Gb Nasce anch’essa dalla necessità di trovare una ragione. Ma a differenza dell’atteggiamento precedente, mantiene un riferimento all’interlocutore. I Salmi sono testimonianza di questo atteggiamento: cfr. Sal 88; 74. Si chiede conto a Dio.

c) la resa: è l’atteggiamento di chi accetta di non capire e si consegna. Impedisce sia la disperazione, sia la rivolta contro il dolore. Accetta la purificazione.

 

L’itinerario di Gb è questo: attraverso la sofferenza “ingiusta” è giunto ad aprirsi al mistero. E questo ha voluto dire “purificare” anche la sua concezione di Dio. In tal senso la sua sofferenza è divenuta educazione e luogo di salvezza (della persona che la vive). Questa infatti non consiste nell’assenza di sofferenza, ma nell’incontro con Dio come il fondamento della vita.

Che questo sia possibile lo si coglie dalla vicenda di Gesù: in lui, nella sofferenza fino all’estremo (non si tratta di morte ‘naturale’, ma frutto di violenza nata da un rifiuto radicale), si manifesta la dedizione per la salvezza dell’umanità. E la dedizione è per obbedienza fino alla fine (cfr. Fil 2,6ss). Si deve sottolineare che non è la sofferenza a salvare, bensì la dedizione. Questo va tenuto presente, se non si vuole cadere nell’assurdo: se fonte della salvezza fosse la sofferenza, non bisognerebbe eliminarla, ma provocarla.

 

È questa la meta verso la quale condurre? Se lo scopo dell’omelia e della catechesi è condurre a modellare l’esistenza secondo l’esemplare che è Gesù, pare si possa/debba rispondere “sì”. Infatti, Gesù con la sua prassi del Regno ha cercato di togliere la sofferenza degli umani; ha condiviso la sofferenza estrema del rifiuto violento per realizzare in forma compiuta la liberazione della sofferenza (non c’è croce senza risurrezione nel cristianesimo!). Valore performativo dello sguardo su Gesù: educa a vivere la vicinanza nei confronti dei sofferenti; rende capaci di dedizione; insegna a vivere la consegna; alimenta la speranza di una liberazione definitiva dalla sofferenza.  

 

don Giacomo Canobbio

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