Come se fossero parte di noi

Insidioso nel viag­gio audace fra due opposti mondi, splendido nel ritrovarsi attesi e a­mati. Il lento risalire della navetta fra mu­ra interminabili di roccia, il fiato dell'uomo a bordo che manca...

Come se fossero parte di noi

da Quaderni Cannibali

del 18 ottobre 2010

         

         

          «Stavo con Dio e con il diavolo. Hanno lottato per avermi, e ha vinto Dio: mi ha afferrato, in nessun momento ho dubitato che mi avrebbe tirato fuori di là». Copiapò sembra, nelle parole di un minatore salvato, un mito, uno di quei racconti primordiali la cui origine si perde nel tempo: ero nel ventre della terra, nel buio, ma un dio mi ha strappato da là – la vita più forte del nulla.

           E si è commosso il mondo per quei 33 che lentamente, uno alla volta, mentre questo giornale va in stampa ancora stanno tor­nando a casa; e ancora resta il fiato sospeso: ce la faranno tutti? E di quanto coraggio a­vranno bisogno gli ultimi, soli ormai in quel­l’antro nero e vuoto?

          Si potrebbe notare che attorno alla miniera cilena s’è creata una partecipazione, e anche una preghiera, che non s’è vista in disgrazie ben più grandi, in catastrofi che hanno messo in ginocchio interi Paesi. Ma il fatto è che a Copiapò, 700 metri sotto terra, respirava u­na speranza. Già dati per morti, i 33 erano vivi e decisi a vivere.

          Metafora trasparente: nel fondo del buio, nella peggiore delle realtà possibili, si può tuttavia sperare, aiutarsi, e infine tornare a vedere la luce. Quanti, senza accorgersene magari pienamente, hanno intravisto nel dramma cileno una simmetria con il proprio personale buio di solitudine o malattia o fa­tica, e hanno vegliato sul destino di quegli sconosciuti, ancora questa notte.

          La carrucola del filo che cigola, la navetta che spunta dalla terra por­tando un altro uomo. Figli, mogli, madri che aspettano da oltre due mesi. La luce, finalmente. L’attesa che si scioglie in un abbraccio.

          Un’altra, viscerale ma evidente, metafora: somiglia a un parto, quel venire dal buio. Insidioso nel viag­gio audace fra due opposti mondi, splendido nel ritrovarsi attesi e a­mati. Ma: ce la faranno, tutti? (Il lento risalire della navetta fra mu­ra interminabili di roccia, il fiato dell’uomo a bordo che manca. Pa­radossale nascita che risale dalla terra, la stessa terra che per noi uo­mini è segno di sepoltura).

          Devono farcela. Ha pregato il Papa, e Obama, e i minatori sardi. E in milioni in queste ore vanno sui siti web che trasmettono da Copiapò. Per 33 uomini, pochissimi a confronto delle stragi delle inondazioni in Pakistan, o del terre­moto ad Haiti e nello stesso Cile.

          Ma il fatto è che là sotto covava una speranza. E alla speranza gli uomini sono radicalmente, originariamente legati. La speranza, poi, questa volta aveva assunto sembianze trasparenti, da mito, o da trama che abbiamo in noi – tessuta addosso.

          L’oscurità, l’angoscia, la disperazione (il diavolo, le chiama il minatore); poi un filo di fiducia che si dipana, sottile; il lavoro, la fatica, l’attesa; e infine quel rivedere il sole, che tanto somiglia all’istante in cui la levatrice trae alla luce un bambino.

          La cronaca, stavolta, sbalorditivamente ha toccato come corde di violino gli archetipi su cui la vita si fonda; e siamo stati a guardare, come se quegli uomini sepolti fossero parte di noi. Come se anche noi confusamente attendessimo di nascere.

          Di uscire dal buio. Con gli anni, con il peso affaticato dei giorni, questa segreta indicible ansia di potere in qualche modo rinasce­re altri, trasformati. «Può un uomo rinascere quando è vecchio?» La domanda è antica. Quei 33 laggiù come una parte di noi, di cui normalmente si tace («Come si tace – scrive Rilke – di una speranza ineffabile»).

Marina Corradi

http://www.avvenire.it

Versione app: 3.25.0 (f932362)