Come si scopre la propria vocazione? - Parte II

Vengono suggerite ai giovani "cinque regole" per scoprire la propria vocazione: fare ciò che piace di più, scegliere ciò che costa di più, preferire quello che aiuta gli altri, scegliere ciò che dà pace al cuore, consultare una persona adulta.

Come si scopre la propria vocazione? - Parte II

da Quaderni Cannibali

del 28 luglio 2011

 

SOLO CON DIO           Un giorno, dopo che Gesù ebbe esposto ai farisei le esigenze del matrimonio, i suoi discepoli gli dissero: 'Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi'. Gesù allora, ribadì: 'Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca' [MT, 19,10-12].  Cerchiamo anche noi di capire.  Prima di tutto, Gesù afferma che ci sono alcuni che hanno rinunciato a sposarsi per il Regno di Dio: tra questi, c'è Lui. Perché?  Perché, attraverso di essi, Dio vuol dare un'altra immagine di se stesso. Infatti, con l'amore nuziale ci dice che Lui è amore, con la verginità che Lui è tutto, che non è complementare a nessuno, che è l'Assoluto.  Ovviamente, quelli che chiama a questa vocazione sono persone sessuate, normali quanto quelli che si sposano; anzi, in perfetta condizione per potersi sposare.  Mi rendo conto che ora si affollano alla mente ulteriori problemi. Cercherò però di dare qualche spiegazione, pur sapendo che, come Gesù ha detto, '... non tutti possono capirlo'.            Chi può veramente comprendere, come richiede il Vangelo, che è bello essere poveri, miti, piangere, essere gli ultimi? Eppure, chi non vorrebbe essere come Francesco d 'Assisi o Madre Teresa? Il vero problema è che il Vangelo non è un libro da leggere ma da vivere! Il Vangelo va visto realizzato! Lo stesso accade per il celibato.  Ma andiamo con ordine.  Abbiamo detto che, sessualmente, una persona può essere frustrata, sublimata o integrata e che la perfezione la trova con l'integrazione che avviene nel matrimonio.  Chi non si sposa per il Regno di Dio, a quale categoria appartiene?  Alla terza. A coloro che cioè, integrano la loro sessualità attraverso il matrimonio, non però attraverso nozze umane, ma vere e proprie nozze con Dio che, in tal modo, dimostra di essere tutto per la persona. Infatti, Lui solo è capace di integrarla pienamente, anche affettivamente!  Quindi, chi non si sposa per il Regno di Dio, non è ne sessualmente frustrato, ne sublimato, ma pienamente integrato: Dio è diventato tutto per lui. Ecco perché Francesco di Assisi poteva dire: 'Mio Dio e mio tutto!'.  Non ti fermare a pensare a casi di consacrati non riusciti, capita anche nei matrimoni, ma segui il mio ragionamento.            Dio, e soltanto Lui, chiama al matrimonio o alla verginità e lo fa per completare il messaggio con cui rivela se stesso. Con la vocazione al matrimonio poi, Dio ci dice che è amore, e con la chiamata alla verginità che il matrimonio è solo un segno, un sacramento, per indicare che Lui vuole essere lo sposo dell'umanità, vuole cioè avere un rapporto nuziale con ogni persona.  Ma, com'è possibile 'sposare' Dio? Com'è possibile essere affettivamente integrati in Lui? Posso dirti che questo avviene e che sono anche matrimoni ben riusciti!  Di questo matrimonio, ce ne parla una ragazza geniale che la Chiesa ha dichiarato 'dottore' e che quindi, ci può essere d'aiuto: santa Teresa di Gesù Bambino.            L'immagine del vero sposo di Dio è Gesù Crocifisso: ha le braccia inchiodate per abbracciare tutti, senza stringere e possedere nessuno; il suo amore è totale e liberante; il suo cuore è aperto, squarciato da una lancia e da quel cuore scaturisce sangue e acqua, la vita per tutti. Ma quale vita? La vita nello Spirito; la vita ricevuta attraverso il Battesimo e accresciuta dall'Eucaristia.  Dal suo cuore scaturisce il nuovo popolo di Dio. Ma, quando Dio volle formare il popolo dell'Alleanza, il popolo di Israele, cosa fece?  Chiamò Abramo eleggendolo capostipite di questo popolo e, dopo 1'esperienza di fede con Isacco, i suoi figli generarono molti altri figli 'secondo la carne'.  Quando Dio volle formare il nuovo popolo dell'Alleanza, mandò suo Figlio Gesù che, al contrario di Abramo, non si sposò, ma generò molti figli 'secondo lo Spirito', inaugurando in tal modo, il nuovo popolo di tutti coloro che credono in Lui.  Chi, come Cristo, non si sposa, non fa un matrimonio infecondo con Lui. Tutt'altro. Dio gli concede di avere figli '... come le stelle del cielo e come: la sabbia che è sul lido del mare' [GEN. 22.17] perché il suo amore non è circoscritto dalla carne e dal sangue. Mi spiego.  Mio padre e mia madre erano due persone aperte e sensibili ed era un piacere vederli con i bambini dei vicini di casa, perché li facevano giocare, li assistevano, erano loro vicini nei momenti di difficoltà: posso proprio dire che volevano loro un gran bene.  Però, il bene che volevano a me e a mia sorella, era superiore a quello dimostrato ad altri. Perché? Perché ci avevano partorito, avevamo cioè lo stesso sangue, eravamo la stessa famiglia. Invece, per chi si sposa con Dio, l'amore non ha diversità perché l'amore della famiglia di Dio abbraccia tutti, indistintamente.            I primi di agosto del 1941 nel campo di concentramento di Auschwitz era fuggito un detenuto. Dopo aver ripetuto per due volte l'appello, scattò la terribile legge: per ogni fuggitivo, dieci dovevano essere condannati a morire di fame e di sete nel sotterraneo della morte. Il Capo delle SS scelse le dieci vittime che si avviarono verso il blocco 13, dov'era il sotterraneo. Uno di loro, pensando alla moglie e ai figli, cominciò a gridare che non voleva morire: era un austriaco, di Vienna.  In quello stesso momento un detenuto uscì dalle file, si presentò al Capo, inorridito, che gli chiese: 'Che vuoi?' 'Posso andare a morire al suo posto?'  'Chi sei?' 'Sono un prete cattolico'.  'Vai, pretaccio, ...e tu torna a posto'.  Dopo alcuni giorni, solo lui era sopravvissuto. Gli fu iniettata una fiala di acido fenico e spirò: era Padre Massimiliano Kolbe, il martire della carità.  Perché lo ha fatto? Perché era padre di quell'uomo, perché era membro di quella famiglia che, con Dio, aveva generato.  Se fosse stato sposato, avrebbe potuto farlo? Avrebbe dovuto, almeno, interpellare la moglie e i figli perché la sua vita è prima di tutto la loro.  La fecondità del matrimonio dipende dallo spessore dell'amore che lega i due sposi: questo vale anche per le nozze con Dio.  I grandi innamorati di Dio hanno molti figli: basta uno sguardo, un dialogo, per generare un figlio.  Quanti si ritengono figli di Padre Pio perché lo hanno visto una volta o sono riusciti a confessarsi da lui, o addirittura perché hanno visitato la sua tomba o hanno letto una sua vita!  Anche per me è accaduta la stessa cosa. Infatti, quando celebravo per le Missionarie della Carità ed era presente Madre Teresa, terminata la Messa, mi ritiravo in disparte per parlare con lei per farmi 'rigenerare' dalle sue parole.  Ricordo anche a Firenze il Professor La Manna, che si professava non credente. Un giorno chiese a Mons. Giulio Facibeni, fondatore dell'opera 'Madonnina del Grappa': 'Lei che è padre per tutti, lo sia anche per me'. Questo per citare solo i casi più noti, ma la paternità di Dio passa attraverso tanti uomini e donne sposati a Lui che, nel silenzio della vita quotidiane nelle parrocchie, negli ospedali, nelle scuole, nei lebbrosari, esercitano una reale paternità di cui l'uomo ha veramente bisogno.  Ecco perché i preti e le suore non si sposano: perché il loro amore e la loro paternità non devono essere circoscritti e limitati dalla carne e dal sangue, ma devono essere grandi e intensi come quelli di Dio.  Il matrimonio con Dio ha le stesse regole di quello umano: si fonda nell'amore ed esige la convivenza. Diversamente dal passato, oggi ci si sposa solo per amore e il matrimonio regge perché regge l'amore.  I matrimoni di convenienza nascono male e finiscono peggio. Così è per il matrimonio con Dio. Chi è chiamato a sposarsi con Lui, lo fa solo perché lo ama, perché misteriosamente Dio gli ha rapito il cuore, per cui l'interessato dice: :'Dio solo mi basta'.  Questo però è solo l'inizio: la vita è lunga e l'amore iniziale deve crescere attraverso una vera e propria convivenza con Dio che si attua, in primo luogo, attraverso la preghiera, dalla quale scaturisce un 'autentica vita evangelica. L'unione con Dio poi, fa crescere nell'amore, fino a condurre all'esperienza della stessa presenza di Dio.            Sperimentare Dio presente e che ti ama è un 'autentica 'esperienza mistica' che è tutt'altro che astratta ed estatica, ma è quell'amore che riempie il cuore e ti rende insoddisfatto finche non hai fatto tutto e più di tutto per Colui che tu ami.  Quanto ti ho detto, è stato meravigliosamente rappresentato dal Caravaggio in un quadro, custodito nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma: vi è raffigurata la vocazione di Matteo. La scena si svolge in un ambiente buio, squallido. Seduti attorno ad un tavolo, alcuni uomini contano del denaro: hanno riscosso le tasse. Sono quattro, più il futuro apostolo Matteo.            Improvvisamente, accompagnato da Pietro, entra Gesù che accenna a Matteo il quale, stupefatto, indica se stesso: la chiamata e la risposta sono istantanee. Un attimo ancora e Matteo, abbandonato il lavoro, il guadagno e i compagni, si alza per seguire il Signore. Dei presenti, solo Matteo capisce: i due giovani a destra si voltano incuriositi all'arrivo del Cristo; gli altri, neppure si accorgono di quanto sta accadendo e continuano tranquilli il conteggio. È una scena tutta da contemplare: il pittore ha davvero capito 1'inizio di una vocazione.  La forza della chiamata deve continuare per tutta una vita e la ragione della fedeltà consiste tutta in quanto Gesù ha detto di se stesso: 'Io e il Padre siamo una cosa sola' [Gv, 10, 30].            Le due vocazioni, al matrimonio e alla consacrazione a Dio, si integrano e si sostengono a vicenda: i preti e le suore hanno bisogno dell'esempio dei genitori per apprendere l'arte di essere padre e madre.            Ricordo il pianto di don Pietro, il parroco di una popolosa parrocchia di una borgata romana al funerale di Adele, una vedova che si era completamente consacrata alla parrocchia. Confessò candidamente che da quando vicino alla parrocchia c'era il campo dei nomadi, non si viveva più: gli zingarelli entravano dappertutto, facendo danni e portando disordine. Lui li cacciava da una porta, ma loro rientravano da un'altra, perché Adele li richiamava e li soccorreva in tutto. 'Lei aveva una marcia in più: era mamma', diceva il parroco, 'Quanto mi mancherà!'  Allo stesso modo, anche i genitori hanno bisogno dei consacrati per ricordarsi che la famiglia, prima di tutto, è di Dio ed è molto più grande delle pareti domestiche.  Ma...   COME SI RICONOSCE UNA VOCAZIONE           Il desiderio, il bisogno di sposarsi, esprime la vocazione al matrimonio; il desiderio, il bisogno di consacrarsi a Dio, quella di sposarsi con Dio. Ogni ulteriore spiegazione mi sembra superflua. Ora mi sembra proprio il caso di dire che 'al cuor non si comanda' e ricordare che il luogo propizio per il dialogo con Dio è il nostro cuore.  Purtroppo, il matrimonio non è sempre percepito come una vocazione alla famiglia e lo si vive come un approdo della vita, mentre invece è un'autentica vocazione a realizzare l'amore.            La consacrazione a Dio suscita spesso scetticismo tra i conoscenti e, addirittura, ostilità tra i parenti. Ricordo cosa non mi combinarono i miei santi genitori per farmi cambiare idea, anche se, in un secondo tempo, si schernivano dicendo che ero diventato prete liberamente, certamente di una libertà ben conquistata La vocazione si manifesta a tutte le età ed è importante far percepire ai giovani il matrimonio come una vocazione a cui rispondere.  Altrettanto importante mantenersi attenti a Dio che, solitamente, si manifesta attraverso un 'esperienza di preghiera, occasione propizia per creare un incontro con Lui. Non è detto che chi prega si faccia prete o suora, ma chi non prega, difficilmente percepisce una tale vocazione.  Ho conosciuto molti giovani, ormai avviati negli studi universitari con un chiaro orientamento professionale e felicemente fidanzati, che attraverso un 'esperienza di preghiera hanno scoperto che la loro vocazione era un'altra: hanno cambiato rotta e hanno seguito la nuova strada.            La prospettiva della duplice vocazione deve essere sempre tenuta presente ed è opportuno parlarne ai ragazzi fin dalla più giovane età, così come hanno fatto Gesù e San Paolo i quali, trattando del matrimonio non hanno tralasciato di parlare anche della verginità: in questo modo emergerà sempre più chiaramente che la famiglia è una vocazione ed un impegno, così come lo è il celibato per il Regno di Dio.   CHIAMATI A SERVIRE Servizio è una bella parola, anche di moda se vogliamo, ma di non facile attuazione.  Per precisare il proprio pensiero riguardo al servizio, Gesù approfittò della richiesta fatta da una madre che chiedeva due buoni posti per i suoi figli.            'I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non cosi dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti' [Mt, 20, 24-28].  Anche nella gerarchia della Chiesa tutto deve essere considerato servizio: dal primo grado dell'ordine sacro, il diaconato, al Sommo Pontefice che si autodefinisce 'Servo dei servi di Dio'.  Il nostro servizio deve essere continuo, come quello di Gesù che ci ha detto: 'Il Padre mio opera sempre e anch'io opero' [Gv, 5, 17]. Impegnarci ad un servizio continuo è duro, ma è la nostra ragione d'essere.            Ricordo una signora che si lamentava perché da sola doveva badare a quattro uomini: 'La mia vita è tutta lavare, stirare e far da mangiare: mi sento proprio una donna di servizio, senza salario'. 'Coraggio signora', le risposi, 'finché serve, serve; quando non serve, non serve più'. 'Ha proprio ragione, Padre', mi rispose.             La vita è servizio. Ma, quale servizio scegliere? Anche la professione è una vocazione. Il lavoro è sacro: 1'ho imparato fin da bambino quando passavo con mio padre sotto il campanile di Giotto. Lui mi indicava le formelle esagonali sulle quali erano rappresentate le varie arti e i mestieri e, per il fatto che erano scolpite sul campanile, le ho sempre percepite come una cosa sacra. È sacro studiare astronomia, come fare il muratore; esercitare la medicina, come navigare, coltivare la terra, far politica, scolpire, pitturare, scrivere poesie, far del teatro.  Mio padre, ovviamente, si soffermava volentieri ad indicarmi la formella della scultura: in quella, lui si riconosceva.            Ma qual è la professione più adatta per me? Quella che mi permette di amare di più, perché è in questo che consiste la mia felicità. Oggi le professioni sono tante e tutte degne dell'uomo, a condizione che siano svolte con amore, per vocazione e non per mestiere. C'è, infatti, un'abissale differenza tra la vocazioni e il mestiere. Nella prima, la persona si identifica con quello che fa, tanto da essere chiamata, con il nome della professione stessa, che diventa nome proprio: la maestra, il medico; ...è come dire: la mamma, il papà che, ovviamente, non vogliono essere chiamati per nome. Il mestiere invece, è qualcosa che si fa, indipendentemente dal proprio essere e con il quale non ci si identifica.            A questo proposito, non dimenticherò mai Stefano, il padre di un mio seminarista che, al primo nostro incontro, si presentò dicendomi che da trent'anni preparava ogni giorno la più bella sala del mondo per i più importanti ricevimenti. Non gli mancavano però le sofferenze, soprattutto quando la sua sala veniva invasa dai pullman che la profanavano. Aveva conosciuto cinque Papi, senza mai stringere loro la mano: li aveva seguiti settimanalmente, dall'inizio alla fine, e per loro ogni mattina puliva, ordinava tutto e si sentiva orgoglioso. Era un umile netturbino di San Pietro, ma si sentiva grande come il Bernini che aveva costruito la piazza; era dignitoso come il Pontefice per il quale svolgeva il dovere dell'accoglienza al pari di un maggiordomo o un maestro di camera.  Ho conosciuto anche un grande chirurgo che diceva di non operare senza aver vicino 'la sua suora ferrista'. E dinanzi al mio stupore aggiunse: 'Quella, è più importante di me'.            Ricordo ancora che, quando iniziarono i lavori di restauro del Seminario Romano, si pensò ad una sopraelevazione. Una mattina, si riunirono a discutere il progetto tre ingegneri e due architetti: le cose si mettevano male e stavano ormai sentenziando che non era possibile eseguire il lavoro quando, un uomo, piuttosto corpulento e impolverato, intervenne dicendo che era possibile. Espose con competenza le motivazioni e zittì tutti. Chiesi al geometra chi fosse. Mi rispose: 'Quello è il capomastro, è uno che sa tirar fuori una casa da un progetto e le assicuro che a Roma ce ne sono pochi di così capaci!'  Proprio così: quanto a dignità, non c'è differenza tra architetti e netturbini, tra ferristi e chirurghi, tra ingegneri e muratori. L'importante che ciascuno esegua il proprio lavoro come una vocazione e con amore: solo così ogni lavoro sarà un capolavoro, proprio come spera Dio.   RICONOSCERE LA PROPRIA VOCAZIONE AL SERVIZIO           'Quando Dio crea un uomo, si comporta come un 'sapiente architetto' che, prima di costruire un'opera, prepara il disegno. Per ciascuno di noi Dio ha fatto un disegno che, ovviamente, non rivela a nessuno, ma viene conservato negli archivi del Paradiso. A noi spetta indovinare questo progetto e realizzarlo. Alla fine della vita ci sarà la verifica: sarebbe un bel guaio se nel disegno risultasse che ero destinato a fare il muratore e, invece, ho fatto l'infermiere o viceversa; oppure, destinato a fare l'ingegnere, ho fatto il medico!'  Un giorno, dopo una di queste mie prediche, si presentò il padre di un bambino per dirmi che quel giorno avevo parlato di sua moglie: 'Era destinata ad essere ingegnere', mi disse, 'invece, è psicologa: fa diventar matti tutti!'   Ma come si scopre la propria vocazione?  Ecco cinque regole che proponevo ai bambini, per indovinare cosa avrebbero dovuto fare in futuro; sono regole che possono aiutare anche noi.  Prima regola: devo fare ciò che mi piace di più.  E' il problema fondamentale della vita perché, ti ripeto, sbagliare vocazione, significa compromettere la felicità, Voglio essere ancor più semplice e ti racconto quello che dicevo ai bambini quando parlavo loro della vocazione.  Non è una regola difficile da accettare, anche se è difficile da attuare. Infatti, più che 'ciò che mi piace', il più delle volte si dovrebbe dire ciò che 'mi piacerebbe se ...'. Quello che 'mi piace per davvero' è ciò che realizza il desiderio più profondo celato nel mio intimo e che, quasi mai, è il primo che salta in mente; anzi, di solito è quello che mi fa più paura di tutto.  Seconda regola: scegliere ciò che mi costa di più. La vita è impegno e responsabilità ed è solo attraverso lo sforzo che si realizza il meglio di noi stessi. A questo proposito, ricordo un giovane sacerdote che, dopo una collaborazione di diversi anni con me, prima di partire per un altro servizio, mi lasciò un biglietto sul quale aveva scritto: 'Ti ringrazio, perché mi hai chiesto sempre più di quanto pensavo potessi dare'.  Terza regola: preferire sempre ciò che serve di più agli altri. Secondo l'insegnamento di Gesù, chi ama la propria vita, la perde; chi dona la propria vita, la trova. Il capitale non si aumenta conservandolo, ma investendolo bene. Diceva Raoul Foullerau, il grande apostolo dei lebbrosi, un uomo che ha salvato milioni di vite da questa terribile malattia: 'Non c'è disgrazia più grande che possa capitare ad un uomo, che quella di accorgersi di non essere stato utile a nessuno'.  Nessuno si salva da solo. Siamo persone, esseri relazionali: il mio 'io' è sempre per un 'tu' e passa sempre per un 'noi'. È solo rendendolo un autentico servizio ad altri, cercando di svolgerlo il meglio possibile mettendoci del mio, che un lavoro, anche se non scelto ma subìto per le innumerevoli traversie della vita, può diventare qualcosa che mi realizza, e non un orribile frustrazione sopportata solo per portare a casa uno stipendio.  Stai attento: in gioco c'è la tua felicità, il cui segreto è contenuto in due semplici parole 'di più', [in latino magis], che fanno scattare in te tutte le potenzialità che Dio ti ha dato perché vengano messe a servizio degli altri.  Se uno sbaglia vocazione, va all'inferno? No! Però, non sarebbe così felice come se realizzasse la sua vera vocazione. Come vedi, Dio che ti ha creato, non ti molla un momento, ti tiene sempre per mano per farti realizzare il desiderio di amore che c'è in te: tutto, per darti felicità.  Ora, non mi resta che salutarti, augurandoti di indovinare la tua vocazione per essere felice e, se tu avessi bisogno di una mano, sappi che la mia è sempre disponibile: fa parte della mia vocazione.  Attenzione! Applicare queste regole, vuol dire contestare il comune modo di pensare che, invece, preferisce ragionare così: 'Se vuoi essere pienamente realizzato, scegli solo ciò che ti fa guadagnare di più e con meno fatica possibile!'  Quarta regola: scegliere solo ciò che mi dà la vera pace del cuore. 'Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi' [Gv, 14, 27] ha detto Gesù nell'Ultima Cena ai suoi discepoli. La scelta più autentica, anche se molto difficile, è quella che, sia quando la immagino che quando l'attuo, è capace di farmi sentire bene; è quella che dà pace al mio cuore inquieto, facendomi sentire al giusto posto.  Quinta regola: consultarmi con una persona adulta e che mi conosce bene, per verificare se ho applicato correttamente le regole precedenti e se sono sufficientemente obiettivo nel mio giudizio.

 

Giuseppe Mani

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