Una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet
Incontro Gustavo Pietropolli Charmet rigorosamente a distanza, come in dad, dietro a uno schermo. Non ha bisogno di grandi presentazioni: è noto il suo lavoro con gli adolescenti e i suoi libri credo siano lettura cui non possa sottrarsi chiunque lavori – insegnante, formatore, psicologo, educatore – con i ragazzi. Ho letto il suo Il motore del mondo, uscito ad agosto e già recensito su queste pagine, ma la ragione per cui gli domando un appuntamento è che, come ho raccontato, sono in un vuoto di senso che rende difficile il mio tempo in classe e mi fa pensare urgente la necessità di interrogare la scuola, quanto accaduto, dove siamo e cosa questo tempo ci ha mostrato in modo più evidente di prima.
AS: Professore, come stanno gli adolescenti? Come è stato questo tempo di restrizioni, di frequenza con i coetanei ridottissima, a stretto contatto con la famiglia: cosa ha determinato?
GPC: Come stanno? La pandemia ha fatto due vittime: gli anziani li ha fatti fuori, e gli adolescenti li ha malmenati. Non lei direttamente, ovviamente, perché gli adolescenti non hanno nemmeno visto la morte e la malattia atroce; in primo piano hanno visto le misure preventive, le restrizioni, le rinunce, tutte apparentemente rivolte a loro: calcio, concerti, sport. Ogni cosa. Chiusi in casa. Tutto questo, in una famiglia, generalmente si definisce “castigo”: impedire di uscire, impedire l’allenamento di calcio, il vedere gli amici, sono dei castighi. Castigo, dunque? E per che motivo? Non si trattava di un castigo, sono state date delle regole, apparentemente insensate, che dovevano essere seguite. Certo è che queste regole hanno comportato deprivazioni importanti e significative. In famiglia non mi sembra che ci siano stati problemi, globalmente, la famiglia contemporanea è una famiglia a scarso contenuto etico, prevale più l’attenzione alla relazione che la regola, l’occasione di conflitto è stata dunque tollerabile. Certo, c’è stato un lungo tempo nella cameretta e un riflusso verso attività di marca regressiva: cucina, recupero della gastronomia, giochi in scatole, repertorio di cose dismesse tornate di moda per il maggior tempo a disposizione.
Il gruppo è rimasto accessibile – per loro un amico virtuale è un amico reale – e con la famiglia è stata una sorta di tempo di vacanza prolungato, con genitori a casa tutto il giorno. Socialmente invece le privazioni sono state molte, gli è stato impedito il movimento, il divertimento, il ballo, ma anche cose importanti, iniziatiche: il concerto in centomila a San Siro è un’occasione importante, che reimmerge nel clima della propria generazione. La colonna sonora diventa un’esperienza reale, con la sua ritualità.
AS: E la scuola? Come hanno vissuto la dad? Ho faticato a capire i loro vissuti, del resto molto diversi tra loro. Credo tuttavia che non si possa negare che sia visibile, da che siamo rientrati, un generale smarrimento, anche in chi era ben contento di dormire un’ora in più e connettersi indossando una maglietta sopra il pigiama.
GPC: Sento sempre dire che la loro malinconia e la loro protesta dipendano dalla difficoltà dell’andare scuola: gli amici, il gruppo classe, la dad, il contatto artificiale con gli amici. In verità non credo che sia questo il tema: loro hanno la grande risorsa di poter avere, con la loro rete, ampi contatti di natura erotica, aggressiva, virtuale, di conoscenza. Quando entrano nella loro cameretta a noi pare che vadano a studiare e dormire, ma nei fatti entrano in un centro sociale, in un’agorà piena di occasioni. Non credo sia stato questo che li abbia fatti soffrire, credo che, molto indirettamente, li abbia fatti soffrire – senza che se ne possano troppo accorgere né lo possano ammettere – il fatto che la scuola, come tutte le organizzazioni di lavoro, in questo periodo ha traballato: chiusi, aperti, socchiusi, eccetera. Questo li ha messi in difficoltà coralmente: è vacillata la loro istituzione di lavoro, che garantisce ruolo sociale, identità, appartenenza, colonizzazione del futuro, fraternizzazione – mica poco! Si tratta di cose grosse, importanti, sono le cose che fa un’università o un luogo di lavoro, un’azienda, per un adulto, senza i quali è molto facile cadere in depressione: non si sa più chi si sia, non si hanno progetti, si perde valore sociale. Ecco la scuola è l’unico momento sociale che gli consentiamo di avere, ha una funzione di appartenenza, seppur precaria, ed è il luogo dove possono prendere minimamente contatto con la propria vocazione: cosa mi piace fare? Si tratta di un contatto vago, la scuola lo sappiamo non aiuta molto in questo senso, però ci prova, nel confronto con discipline diverse qualcosa di uno stile, di un gusto, si delinea. Questa secondo me è stata la perdita più grave: il loro lavoro, quello che dava loro una qualche forma di identità, è stato sottratto. Questo ha creato un’anomia e questa, sì, è una perdita reale. Son andati in “cassa integrazione” da questo punto di vista: studenti a mezzo servizio, con tutta la sottrazione di queste benemerenze che la scuola ha, indirettamente. La scuola consente a un adolescente di sapere perché è in colpa o perché si vergogna: se apre gli occhi la mattina un adolescente incontra interrogativi su compiti, interrogazioni, scadenze. La scuola è un grande organizzatore dei sentimenti, e questa è una funzione enorme. Se un adolescente deve per contro proprio la mattina decidere se è in colpa o meno, se si deve vergognare, rispetto a che cosa, è complicato! Il figlio dell’uomo, spontaneamente, prima di aver accesso alla gioia, è portato a liberarsi di colpa e vergogna, in agguato appena apriamo gli occhi.
AS: E il rapporto con gli insegnanti?
GPC: È andato male, purtroppo. Gli insegnanti, non addestrati a insegnare a distanza, hanno ripetuto la lezione che avevano preparato. Non viene bene, non funziona: le occasioni di distrazione in camera o in cucina – dove ad ascoltare c’è anche il nonno – sono troppe. La dad non può sostituire l’insegnamento tradizionale, è necessario che si proponga dell’altro, un altro modo. Il paese sta andando verso questo – si lavora da casa, l’università sarà a casa e forse anche la scuola. È necessario pensare a modalità nuove. Così è deludente. Quello che è venuto a mancare non è tanto l’apprendimento, o una modalità di fare cultura diversa da quella che si fa a scuola, è che la scuola è una liturgia, è entrare in Chiesa, è entrare in una istituzione, è la forte richiesta sulla soglia di uscire dal ruolo di adolescente e entrare in quello di studente, con una offerta di mediazioni, nei confronti dei compagni e dei docenti, importante. La dad non offre tutto questo.
AS: Si parla poi molto del rapporto di controllo: telecamere spente e accese; la mole di verifiche non appena si è tornati in classe; la rincorsa alla valutazione…
GPC: Ne sento parlare spesso dai ragazzi, mi sembra strano, ma è anche comprensibile: i docenti sono diventati molto sospettosi nei confronti dei ragazzi, sono ricorsi a verifiche, valutazioni continue. L’immagine della ragazza bendata coglieva nel segno. Diminuendo il controllo visivo aumenta una specie di controllo rafforzato, per vedere se effettivamente qualcosa è passato. Mi diceva il dirigente di un grande istituto che c’è il tema di verificare se si connettano davvero, se siano davanti allo schermo. Ovviamente ci sono stati docenti che si sono fatti in quattro per trovare modalità alternative, capire bisogni, intercettare modalità di relazione che siano contestualizzate al momento che i ragazzi vivono: in fondo alcuni docenti fanno lezione a ragazzi al primo anno di scuola che dunque non si conoscono nemmeno tra loro, al quinto anno c’è il tema della maturità, insomma ci sono situazioni differenti da considerare.
AS: La sensazione che ho, in classe, nell’assenza-presenza, è che il controllo, diventato delirio di controllo, sia esito di un vissuto dell’insegnante di grande solitudine, che non è data tanto dal tema della telecamera accesa o spenta, quando da interrogativi di senso rispetto al proprio operare. Si è interrotto un agire automatico che abitava la scuola, il “cerimoniale”, e si è persa un po’ la capacità di collocarsi. Mi è parso che questo sia accaduto da entrambi i lati. In un primo tempo, al rientro, i ragazzi portavano un desiderio di restare a casa, e mi pare che a dare corpo a questo desiderio contribuisse una sensazione si spaesamento: aprile sembra giugno, come ho scritto. Si è provvisori, come se l’anno fosse finito (o, forse, nemmeno iniziato).
GPC: In questo senso io non credo che sarà possibile recuperare la normalità. Siamo usciti dal setting. Vale anche nella mia professione: ho lavorato a distanza e ora raggiungere lo studio mi sembra un’impresa, mi sembra di essere meno protetto e meno competente. È un discorso complicato quello che andrebbe fatto, ma devo dire che sono stato molto colpito e ho cambiato alcune convinzioni. Ero prevenuto rispetto alla possibilità di costruire una relazione a distanza con i ragazzini, soprattutto quelli che stavano peggio. Ho invece avuto l’impressione che questo strumento consenta, se si vuole, un’intimità, una confidenza, e un approfondimento che nel mio mestiere sono valori di riferimento. Quello che ancora non so dire è quanto tale intimità, tale ‘serietà’ – che fa il mio gioco in questo lavoro –, dipenda dal fatto che fuori c’è la pandemia e dunque qualcosa arriva a loro della gravità della situazione.
AS: C’è dunque stato un incontro con la morte?
GPC: Percepire la serietà della situazione, cosa che è accaduta anche se non lo ammettono esplicitamente, non ha voluto dire che abbiano visto la malattia grave o la morte orrenda, non hanno visto il rischio della distruzione della specie umana, né che abbiano paura dell’una o dell’altra. E questo è stato un errore educativo grossolano che è stato fatto dal nostro paese. Ci siamo lasciati sfuggire una occasione, un’occasione per dire, con la morte lì, “parliamo di questa faccenda che corre insieme alla vita”. Letteratura, poesia, la morte imprigionata, risolta: siamo immersi nella morte, non sappiamo se la nostra specie sopravvivrà – e se non dovesse succedere? Perché non si è alzata una voce sobria, autorevole, comprensibile – ma anche un po’ stupefacente – per parlare ai ragazzi di tutto questo. È difficile parlare con loro della relazione con la morte eppure loro ci pensano, il 20% degli studenti liceali ha fantasie di suicidio, che non attueranno, ma è un passaggio obbligato.
Ph Petra Colins.
È la scoperta della loro mortalità. Sono lasciati soli con tutto questo e abbiamo perso una grande occasione, perché per evitare che le fantasie diventino azioni bisogna che siano trasformate in parola. Loro hanno visto le misure, le regole, più delle ragioni che hanno determinato tali misure. Al più si è messo a tema il “non portare a casa il virus ai nonni”, mentre invece si sarebbe potuto convocare i ragazzi, responsabilizzarli, un grande volontariato nazionale, si sarebbe potuto trovare dei modi di coinvolgerli per portare il cibo, accompagnare per i vaccini, e soprattutto evitare i contagi con misure più significative, con un livello di responsabilità maggiore, non con una legge cieca. Il discorso sui nonni, paradossalmente, ha avvallato la loro immortalità: l’identikit della persona a rischio non erano loro. Ecco questo credo sia stato un grande errore, proprio adesso si poteva accogliere il loro: “mamma ma tu lo sapevi che sarei morto? E allora perché mi hai fatto nascere?”. Lo hanno questo problema in qualche modo, perché li abbiamo lasciati soli con questo?
AS: La scoperta della propria mortalità, dice, i fatti di cronaca registrano in questo ultimo anno un numero di passaggi all'atto che spaventa: è così o è la messa a fuoco dei media su questo che crea l'impressione che sia un fenomeno in aumento?
GPC: Credo si possa dire che, al di là dei dati statistici in questo ambito sempre opinabili a causa delle difficolta di registrazione, senza dubbio se ne parla di più di quanto accadeva un tempo. La “propria morte” è stata sdoganata, un adolescente in grave crisi sente che quella è una possibilità, si sente libro di scegliere la soluzione migliore al proprio dolore e il rifiuto di crescere è a portata di mano. Ecco perché parlo di occasione mancata, mi pare davvero fondamentale costruire una educazione sul tema della morte che non li lasci soli a decidere nel momento più cupo della loro vita.
AS: E per quel che riguarda l’esplosione del disagio psichico? Ho l’impressione che siano aumentati, almeno al mio sguardo, attacchi di panico, atti autolesivi, fenomeni di chiusura…
GPC: Non c’è dubbio che dalla pandemia sia venuta fuori una quantità notevole di ragazzi che stanno male. Ci sono indici di richieste di ricovero nelle neuropsichiatrie infantili, nei servizi di neuropsichiatria, che sono segnale del fatto che c’è davvero un esito cicatriziale di questo insieme di situazioni di malessere generalizzato e di mancanze. Attacchi di panico, disturbi della condotta alimentare, paradossalmente anche il ritiro sociale è esploso: i ragazzi lo facevano già prima, chiudersi nel virtuale, e si sono ancora più radicati. Sarà ancora più complicato tirarli fuori. C’è una relazione tra pandemia e aggravamento epidemiologico di situazioni di malessere abbastanza gravi, soprattutto – stranamente – fenomeni di autolesionismo. Le crisi di panico sono momenti orrendi, terrificanti – in quel momento sei morto o sei pazzo –: è una radicalizzazione della grande paura del figlio dell’uomo. Paradossalmente hanno una loro efficacia: hai paura ma non muori e non impazzisci, per quanto rimarrà il ricordo di quel momento davvero orribile. Nel consultorio gratuito dove lavoro abbiamo una richiesta importantissima di aiuto, strettamente correlata alla pandemia: molti sono i ragazzi traumatizzati dalla morte che hanno avuto in famiglia – spesso morti multiple, vista la contagiosità del virus. Complessivamente c’è sempre una frangia di ragazzi che sta male, potremmo dire per ragioni statistiche, ma ecco quello che vedo è che il disagio si è aggravato. Io ho scelto di lavorare con questi ragazzi: ritiro sociale, disturbi della condotta alimentare, atti autolesivi. Tutto questo quarant’anni fa, quando ho iniziato questo lavoro, non c’era. L’autolesionismo era allora un sintomo gravissimo di esordio psicotico, il corpo non si toccava era la casa del Signore o comunque apparteneva alla madre, sacro. L’uso del corpo per risolvere un problema della mente è nuovo e soprattutto è nuova l’intensità dei sentimenti violenti, intollerabili, in assenza di una diagnosi clinica. Questi cambiamenti sono un po’ sconcertanti, le metodologie sono sconcertanti: tagliarsi, digiunare, chiudersi nella stanza. Insomma rende la misura del dolore. Ma non è solo questo: c’è stato anche un ingigantirsi, a seguito della pandemia, di alcuni vissuti, come la noia e la tristezza. Questo ha prodotto depressione, apatia, perdita di progettualità, disinteresse, e poi soprattutto il disprezzo per chi prova ad avvicinarsi con proposte – sport, cultura, gastronomia – non interessanti. Gli adolescenti han molto sofferto, direi che si è slatentizzato qualcosa che era già presente, che è stato messo in forma dal periodo di pandemia ed è diventato qualcosa da curare, mentre prima si tendeva a ignorare.
AS: Dice di queste proposte che arrivano a loro: mai interessanti. Incontro questo, in classe. In Il motore del mondo (Solferino, 2020) lei scrive che la scuola non insegna il futuro, l’impressione che ho, in questo tempo, è che non solo la scuola non lo insegni ma che la fatica ora sia proprio reperirlo, un futuro. E dunque, come adulti, che si fa? Come ci rapportiamo, come rispondiamo a questa sfiducia, questa assenza di desiderio generalizzata.
GPC: Non c’è una risposta. Insomma come adulti con che faccia tosta ci presentiamo ai ragazzi vagheggiando il futuro come momento felice di realizzazione dei talenti? Siamo preoccupati, lo eravamo già prima di tutto questo. Sarebbe bello che la scuola potesse qualcosa, ma non è così. I docenti si ritrovano con una storia imponente da raccontare ai ragazzi, tutte le materie sono impregnate di questa storia, di come l’uomo ha costruito teoremi ed è arrivato su Marte. A forza di studiare il passato non si riesce a insegnare il futuro. È ovvio che si debba fare la storia, la storia della letteratura, ma qualcosa nell’impostazione attuale non aiuta a vedere il futuro, a dargli spazio. Forse mettere insieme le discipline in modo integrato, forse portare questo grande tema che li riguarda, il fatto che c’è da aggiustare la Terra, prima di tutto, aggiustare i rapporti umani, l’organizzazione sociale. Il lavoro che c’è da fare è il futuro, ma non si arriva a mettere a tema nella scuola. Si tratta di temi che possono essere affrontati solo in un dialogo tra diverse discipline e io credo che questo per i ragazzi sia molto importante: il disastro che è sotto i nostri occhi va messo a posto e c’è poco da fare, tocca a loro. Non è male come compito, è un compito eroico.
AS: Mi sembra tuttavia che più che il futuro i ragazzi soffrano della propria, singolare, inettitudine alla vita: in fondo io, nei loro discorsi, non sento che non c’è il futuro, sento che c’è la propria impotenza, il loro essere inadatti, come qualcosa di irredimibile. Forse è l’adolescenza, forse è stato così anche per noi, ho l’impressione – ma magari è il mio sguardo dimentico – che oggi sia più radicale. Non c’è modo di uscire dalla propria inettitudine alla vita.
GPC: È così. Se parliamo di futuro bisogna pensare che per loro il futuro è domenica. Sarò capace, domenica, di fare quel che non ho fatto? Se non sono capace sono inadeguato alla vita: mi ritiro, mi taglio, mi ammalo. Risolvono così l’inadeguatezza. Se però si accetta che al posto del padre siede il gruppo e che è il gruppo che decide cosa è importante o meno – esser bello? aver successo? occuparsi del pianeta? – il pensiero del gruppo può essere usato per accendere l’interesse, la vocazione. Il valore personale dell’insegnante è avere questo tesoro pazzesco di informazioni sul passato da trasmettere, ma parla del passato.
AS: Ma un po’ ci si illude che nel passato si trovi qualcosa di sé, in fondo mi pare che dire il passato sia trovare tracce, rendere complessa l’inadeguatezza, svelare che è fatto antico.
GPC: Non è semplice con gli adolescenti che ci troviamo davanti oggi. Quello che li attacca non è il vecchio e amabilissimo Super-Io, non è la legge morale, il parroco, il dovere. Il tema sono gli ideali della società dei consumi: la vergogna produce un sentimento di inadeguatezza irreparabile, crudele, non è come la colpa, che si ripara con la confessione. Chi è inadatto deve solo vergognarsi e scomparire, è più grave. Come fare a valorizzarli a fronte di esperienze personali mortificanti? Sono marginali, non riescono a essere popolari. Vivono in un cono d’ombra. Riuscire a tirarli fuori da tutto questo non è semplice: bisogna valorizzare la loro età, la loro generazione, la loro sottocultura. Non è impossibile, non è peggiore delle altre, ma è un compito difficili e bisogna fare attenzione; molti docenti amici, di grande volontà, rischiano di trasformare la scuola in un servizio: ma se la scuola è un servizio hai dei clienti e devi soddisfarne le esigenze, e dunque è finita l’educazione. I ragazzi oggi sono più vicini al disprezzo che all’aggressività. Una volta al docente disobbedivano, oggi lo disprezzano: non gliene frega niente. Quello che non riescono a fare è davvero indossare il ruolo di studente e restituire alla scuola un valore istituzionale ed etico. Sono in classe ma, anche nelle mura dell’aula, restano adolescenti e non studenti. Hai voglia tirarli dalla parte della cultura e della ricerca! A un adolescente non interessa, interessa a chi è entrato nel ruolo di studente, ma non è così scontato che questo accada. Bisognerebbe rendere il ruolo di studente molto accattivante, farne non solo un fatto di merito e votazione, ma promuovere ingegno, capacità, motivazione. Del resto gli allievi che portiamo avanti nei nostri studi sono persone ingegnose, creative, anche se – secondo me – con una coscienza sindacale esagerata! Ma è anche giusto, certo, fatto sta che spesso mi trovo da solo a lavorare e loro alle cinque sono andati a casa. Io ero l’ultimo a spegnere la luce quando c’era il Professore e ora accade lo stesso, sono sempre l’ultimo a uscire: sono il Professore e spengo la luce!
Ph Petra Colins
di Anna Stefi
tratto da doppiozero.com
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