Una clinica-castello in cui si pratica la dolce morte: vuole dare un senso al suicidio, trasformarlo da tragedia ad atto medicalmente assistito perché “sia un incontro con la morte.
del 17 febbraio 2011
 
         Granguignolesco, grottesco, noir, politically incorrect, Kill me please! di Olias Barco, è una danse macabre orgogliosamente pulp sull’eutanasia. Caratterizzato da un feroce umorismo dark, il film, sperimentale, è girato in stile pseudo-documentaristico. Ottimi la scelta del bianco e nero e l’utilizzo di una telecamera leggera. Un film fuori dagli standard, con un cast convincente, una regia sicura e senza orpelli. Girato in 3 settimane e con pochi soldi, Kill me please! mette in scena l’impossibilità di controllare la morte, di ridurla ad atto consumistico.
         Il regista francese Barco, poco conosciuto al grande pubblico, lo descrive con termini hitchcockiani: “Qui, in questo film, la tensione drammatica è concepita come una scala a chiocciola. Gira in tondo e in tondo, eppure sale sempre, finché non ti fa girare la testa quando arriva al suo apice. Poi, quando cade nello straordinario diventa inevitabile, il film continua per la sua strada verso l’assurdo, a volte divertendoci”. Il suo punto di riferimento è La grande abbuffata di Marco Ferreri.
         “L’eutanasia è un tema a cui penso da quando mio cugino, a 16 anni si tolse la vita - rivela Barco -. Mi ha colpito leggere di un gruppo di giovani giapponesi che si davano appuntamento per buttarsi sotto la metro. Ho fatto studi su cliniche come la Exit e la Dignitas, in Svizzera (Dignitas era il primo titolo pensato per il film). In Canada c’è uno studio sui costi sociali del suicidio: 850mila dollari ogni vita tolta, moltiplicata per un milione di volte – racconta ancora Barco -. Mentre nella Exit si accettano solo malati terminali, alla Dignitas, la dottoressa Minnelli equipara la depressione al cancro e giustifica il ricorso al penthotal. Mi chiedo: crede di essere Dio? Fino a che punto si può autorizzare socialmente la morte?”.
         Il dott. Kruger (Aurélien Recoing) gestisce – anche grazie ad un finanziamento statale – una clinica-castello in cui si pratica la dolce morte: vuole dare un senso al suicidio, trasformarlo da tragedia ad atto medicalmente assistito perché “sia un incontro con la morte”.
         Ha creato una struttura terapeutica dove chiunque sia convinto, può ricevere la morte esprimendo pure l’ultimo desiderio. I “pazienti” mettono in luce le varie tipologie degli aspiranti suicidi, i loro perché (“ho perso la ragione di vivere”, ecc.). E sono tutti un po’ egoisti, concentrati su di sé, fino alla follia. Il dott. Kruger è gentile, beneducato, razionale, igienico, accurato, equilibrato, non perde mai la pazienza. Per sfogarsi corre…
         Finché c’è un cambiamento di tono nel film con una scena precisa, che si allontana dagli schemi classici. La calma apparente del dottore, del castello incantato, della morte dolce si frantuma. I pazienti desiderosi di morte, in realtà, sono aggrappati alla vita. “È stato l’incendio… Ho capito allora che avevo la fortuna di vivere”, dice una del gruppo. E il dottore può finalmente sfogarsi: “La frase che ha detto l’aspettavo da 10 anni”. “Basta con i morti!”, grida alla fine fuori di sé, di fronte alla morte indomabile, alla follia dilagante, alla “gente che non sa affrontare i problemi” e che lui disprezza.
         Il pensiero del regista è chiaro: “Un film di finzione su ciò che il commercio della morte potrebbe diventare se fosse completamente autorizzato e gratuito in tutto il mondo. Inoltre questo lo rende un film politico, una pellicola sulla nostra società dei consumi; salvo che qui non è una borsa di lusso che abbiamo comprato, ma la morte. La nostra morte. Se possibile, con un ultimo desiderio. Ho cercato di sviluppare questo film in Francia ed è stato impossibile perché l’argomento è tabù”.
         Allons enfant de la patrie… L’étendard sanglant est levé, la marsigliese, che consiglio di andare a leggere, cantata dall’unica sopravvissuta (Zazie de Paris) chiude lo spettacolo, unica concessione musicale in un film senza colonna sonora, poi il silenzio.
Elisabetta Pittino
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