Commento al Vangelo 4^ Domenica

Meditazione sul vangelo della II domenica di Quaresima, in stile salesiano da Don Paolo Mojoli.

Abbiamo ascoltato, magari anche pregato e meditato questo brano molte volte, durante la nostra vita. È possibile che l’abbiamo anche analizzato con attenzione, spiegato e reso attuale a favore di altre persone: lo sappiamo quasi a memoria.
Eppure, il vangelo non è mai scontato o ripetitivo. Sì, perché – se lo accogliamo nel nostro cuore – è sempre fonte di vita e di trasformazione interiore e anche esteriore. «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).

Tutto questo offre spazio a una tentazione e a una buona notizia.
Il pericolo consiste nel chiudere il nostro cuore, magari ritenendo di essere già «cristiani maturi», che frequentano gruppi ecclesiali, fanno volontariato e tante altre belle cose, ma… crediamo di non avere un grande bisogno di questo genere di storielle (ecco che si presenta subito la figura del figlio maggiore).
L’opportunità da cogliere assolutamente è quella di incontrare Gesù in ogni pagina del vangelo, considerandola veramente in quanto la prima, l’unica e l’ultima volta che ci viene donata (esattamente come per la S. Messa, l’Eucaristia).

L’ambientazione in cui è situato questo brano consiste nel fatto che stanno aumentando le scintille di malumore e dissapori, da parte degli scribi e farisei, nei confronti di Gesù: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 

Ancora adesso, in quanti siamo così ipocriti da considerare la «legge» (chiaramente, quella che viene da Dio (?), ma manipolata a nostro comodo e piacimento) più importante delle persone concrete, specie quelle che ci stanno accanto ogni giorno? 
Forse ci capita di scandalizzarci per la scelta del Signore, che accoglie in cielo persino il buon ladrone?

Anche nel vangelo di oggi, Gesù non si stupisce o scandalizza per la durezza dei nostri cuori. Invece, risponde con le tre parabole della misericordia: la pecora smarrita, la moneta perduta, il padre misericordioso.

Credo che sia utile soffermarci, in particolare, sulle dinamiche tra i protagonisti della nostra parabola: il padre, il figlio giovane e il figlio maggiore.

Il primo a prendere la parola è il figlio minore, che chiama correttamente il papà, ma subito impone un ordine: «dammi». Da quando in qua i figli danno ordini ai genitori? 
E che imperativo: nel mondo biblico, l’eredità viene ricevuta dopo la morte del genitore; dunque, il succo della richiesta del figlio potrebbe essere esplicitata: «Papà, voglio che tu muoia e mi dia i soldi che mi spettano». O quantomeno, «Sto aspettando solo che tu crepi, giungano a me i soldi che hai guadagnato e io me ne vada da questa casa di gente antipatica: voglio divertirmi, io sono giovane».

Poche righe dopo, sprecati tutti i soldi e ridotto in miseria, il figlio «ritornò in sé». Quante volte, nelle omelie abbiamo sentito ribadire l’importanza di ritrovare se stessi, la propria anima, far esplodere tutta la spiritualità che c’è in noi. Il fatto interessante è che troppe poche volte facciamo capire e sottolineiamo che, ancora in questo punto della narrazione, il figlio minore non ha capito un bel nulla.

Non basta la buona volontà per lasciarsi convertire da Dio. 
Appunto, è Dio che ci previene e ci accompagna nell’opera di conversione. 
Non serve a nulla mettere al centro il proprio «io» (egoista), allo scopo di diventare cristiani!

Lo scopriamo nei dialoghi tra il figlio e il padre. Il primo vuole tornare come semplice operaio, si vergogna a chiedere anche solo quello al papà, dopo che il ragazzo aveva impostato la dinamica nel modo peggiore possibile.

«Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». È esattamente la peggior tentazione che il diavoletto possa insinuare nel nostro cuore: hai sbagliato, paga; per te non c’è più speranza; sei un fallito per gli uomini e per Dio. Sono proprio tutte vocine (o grida) del maligno.

Il figlio è appena all’inizio del suo percorso di ritorno a Dio e al padre. Ma l’atteggiamento del Signore, che ci viene consegnato, è tutto racchiuso in una sola frase, in cui i verbi rotolano velocissimamente, uno dopo l’altro: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Sembra che il padre abbia vissuto anche lui, quasi in piena sintonia, la dolorosa sciagura del figlio. Questi viene lasciato parlare (non ha ancora capito veramente niente del dono di Dio, rappresentato dall’atteggiamento del padre).

«Ma». In questa parola c’è tutto. L’amore di Dio che ci precede sempre, addirittura (e per fortuna!) non risponde letteralmente alle nostre invocazioni o richieste di perdono (noi chiederemmo troppo poco, o le cose sbagliate).

Particolare interessante, che volutamente lascio sospeso con solo una domanda. Siccome a noi, specialmente a noi preti, fa comodo utilizzare questa parabola per preparare o esortare al sacramento della Confessione, chiedo anche a chi legge: il figlio ha sbagliato, si è convertito, il padre lo spiazza addirittura ordinando di fare festa. Tutto tranquillo, per noi lettori quasi addormentati. 

Ma nella Riconciliazione è previsto il momento della penitenza, dell’impegno che viene affidato a chi viene a confessarsi. Bene, proprio nel vangelo, nella parabola della Misericordia, dov’è andata a finire la penitenza? Vi sfido a trovarla in questo brano di vangelo. 
Se non ritornando a quelle famose ghiande che il ragazzo avrebbe voluto mangiare, ma senza poterlo fare.

Il figlio maggiore, immagine degli scribi e farisei di ogni tempo e latitudine. Notiamo che, quando il ragazzo piccolo era ancora «lontano», papà lo vede e comincia quella dinamica che porta ad una bellissima festa; il figlio maggiore, invece, arriva addirittura «vicino a casa» e si limita a stupirsi delle musiche allegre.
Il servo interpellato ha capito tutto e risponde proprio bene: si tratta di «tuo fratello»! È tornato, è a casa!
«Egli si indignò, e non voleva entrare». Ecco il vero inferno: non voler entrare in paradiso, in comunione con Dio e con il fratello, che infatti viene chiamato da lui «questo tuo figlio». Non lo riconosco più come «fratello».

Di fronte ad un cuore così gelido e chiuso, come meravigliarsi delle guerre nelle famiglie, tra famiglie, tra cristiani… fino a quelle grandi e più distruttive?

Suo padre allora uscì a supplicarlo». Siamo convinti fino in fondo che Dio non smette di offrirci la sua grazia?

Nella mia vita di salesiano e di sacerdote, ho raccontato molte volte questa parabola, a tante persone che magari non l’avevano mai sentita, cercando di farlo sempre con il cuore. 
Ho visto i bravi ragazzi dei campiscuola o dei gruppi formativi annoiarsi, addormentarsi ed andarsene stufi.
Mi è capitato anche di ri-donarla a ragazzi/e ex-tossicodipendenti, a ragazze divorate dall’anoressia, ragazzi che facevano i bulli… tutti questi avevano gli occhi che non mi lasciavano un istante e non si perdevano una parola.

Chi sa dirmi perché capitano queste due diverse reazioni?
Non è che forse questa parabola ci inviti a scrollarci di dosso tonnellate di orgoglio, perbenismo, giudizi avventati…?

San Francesco di Sales: «È evidente quanto questo cuore grande e questa bontà di Nostro Signore riportino e riconducano molto meglio le anime al loro dovere, ed abbiano molta più efficacia e potere di ritrarli dal peccato, anziché tutte le correzioni degli uomini!»

Le Esortazioni, 42, 3.

«Don Bosco non precipitava una decisione, si armava di un solerte spirito di sacrificio e prudentemente si adoperava per trarre a Dio quelle anime. E più volte la sua carità ottenne il premio. Egli soleva ragionare: “Siccome non v’è terreno ingrato e sterile che per mezzo di una lunga pazienza non si possa finalmente ridurre a frutto, così è l’uomo; vera terra morale, la quale per tanto sia sterile e restia, produce nondimento tosto [presto] o tardi pensieri onesti e poi atti virtuosi, quando un direttore con ardenti preghiere aggiunge i suoi sforzi alla mano di Dio nel coltivarla e renderla feconda e bella.
In ogni giovane anche il più disgraziato avvi [c’è] un punto accessibile al bene e primo dovere dell'educatore è di cercar questo punto, questa corda sensibile del cuore per trarne profitto”»

G. B. Lemoyne, Memorie Biografiche di San Giovanni Bosco, V, 367.
Don Paolo Mojoli
www.donpaolomojolisdb.it

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