Complemento di fiducia

Quel che la scuola dovrebbe insegnare. Senza antifurto sul cervello. "Il fatto è che noi adulti ti abbiamo sempre insegnato a non fidarti quasi mai. Il mondo intorno lo impone, questo è in gran parte vero. I media sono terribili nel mettere in luce soltanto quello che indirizza tutti a non fidarsi di nessuno."

Complemento di fiducia

da Quaderni Cannibali

del 14 febbraio 2011

 

 Mi fido di te (che stai leggendo).

           Fìdati anche tu di me, per favore, anche se adesso ti chiedo fare l’analisi (logica) della frase precedente. Sappi che ti metto in un bel guaio: lasciando perdere quel “mi” che uno può far finta di non avere visto, il problema sta nel complemento “di te”. Sul piano grammaticale, arràngiati, oppure chiedi alla prof, ma ricòrdati che “di te” non è un complemento di specificazione. Sul piano dei comportamenti quotidiani, vedi un po’ se sono tante le persone che conosci alle quali potresti riferire questo strano complemento di fiducia che non esiste nei libri e tanto meno in rete. Non si sa mai…           Il fatto è che noi adulti ti abbiamo sempre insegnato a non fidarti quasi mai. Il mondo intorno lo impone, questo è in gran parte vero. I media sono terribili nel mettere in luce soltanto quello che indirizza tutti a non fidarsi di nessuno. La mentalità comune è che sia sempre meglio cautelarsi e non avere fiducia per principio. Il prof è lì per stangarti e non per insegnarti qualcosa che conta; il don è lì per farti prediche e non per farti crescere nella speranza; la mamma ti leggerebbe il diario e papà, forse, ti ha scoperto la password e legge tutto quel che vuole. I tuoi amici più cari potrebbero anche diventare, non si sa mai, ex-amici. Con tutto il gossip che c’è in giro, a tutti i livelli, se ti raccontano qualcosa di storto su di loro, sei anche capace di crederci. Una prof della quale non fidarsi           Io invece mi ricordo ancora di un mondo che tu conosci da qualche fiction TV per pubblico over 40, un mondo che non era però fittizio. Sergio e Lea erano persone importanti nella mia vita. La loro casa, solida e bianca ai margini di un frutteto immenso nella pianura pazza di sole, era aperta dalla mattina alla sera e ci entravano vicine, vicini, amici dei figli e delle figlie, parenti, passanti che avessero bisogno di un consiglio o di un’informazione o di due parole per scherzo. Forse è anche per questo che di quella casa io ricordo soprattutto l’allegria. Non era il “Mulino Bianco”: era un posto autentico con tutte le difficoltà della vita. Però era una casa in cui non c’era necessità di antifurti. Non antifurti sulle porte: antifurti sul cuore e sul cervello.            Ieri mi è successo un fatto che accosto senza confronto esplicito allo scenario della casa di Lea. Al mattino un mio amico ha ritrovato un portafogli sul prato di uno spartitraffico in città. La proprietaria era una ragazza dell’età tua, che chiameremo Marina. Marina abita in campagna (per caso, piuttosto vicina a me) e, si capisce dai documenti, prende il treno per andare a scuola.            Frequenta il quinto anno di un liceo tecnologico. Ieri pomeriggio il mio amico e io portiamo tutto quanto a casa di Marina. Esce l’intera famiglia, una famiglia simpatica e cordiale. Marina dice che non si è accorta di non avere più i documenti e suo padre usa termini giovanili e intensi per sottolineare quanto sia stata fortunata. Io sto zitta anche se, siccome sono (in incognito) una prof della quale non fidarsi, so per certo che Marina si è accorta di aver perso i documenti: non ha detto niente perché ieri era domenica e lei doveva uscire, senza grane da parte di papà. Tutto risolto: documenti recuperati, uscita domenicale garantita, padre che per non guastare la giornata se ne va ridendo a inventarsi un improbabile lavoro in giardino. Solo che il mio amico e io, pur ringraziati e festeggiati, rimaniamo per tutto il tempo della simpatica chiacchierata fuori del cancello. E piove. Piove anzi molto forte. Mi fido dunque ti parlo           Tu mi chiederai (come al solito) che cosa c’entri tutto questo con la rubrica sulla scuola. C’entra perché la scuola, invece di moltiplicare i complementi che rispondono alla domanda “di chi? di che cosa?”, dovrebbe far ragionare su come funziona la vita insieme agli altri, in particolare su come funziona la comunicazione. La scuola, a parte qualche trasmissione contenitore alla quale vengono invitati grandi accademici a dire come si scrive “qual è”, è l’unico posto in cui è normale, giusto e utile parlare di linguistica. Sul tuo libro di grammatica, a una pagina che forse non ti hanno fatto studiare, c’era il modello della comunicazione inventato da Roman Jakobson. La sostanza di quel modello è che ci sono: uno che parla, uno che ascolta, qualcosa da dire in un certo modo e una lingua comune in cui dirlo attraverso un mezzo accessibile a entrambi.            Quello di Jakobson è un bel modello, ma è come il modellino di una moto. Un modellino ha magari tutti i pezzi, ma non ha il fango sulle ruote perché non va per strada. Nella comunicazione vera, quella che ha il fango sulle ruote, c’è uno che parla e poi c’è uno che risponde e magari questi due non capiscono tutto, ma cercano di capirsi e si fidano reciprocamente per fare un dialogo e andare avanti assieme sulla strada della vita. Nella comunicazione vera, c’è un patto di fiducia. Se non c’è quello, inutile parlarsi. Io ti parlo e tu ti fidi che io ti stia parlando per comunicare e non per ingannarti; poi io mi fido di te che mi rispondi e avanti sempre. Se penso che tu mi stia dicendo una falsità o una sciocchezza, o se tu lo pensi di me, non è più una comunicazione normale. È bello che parlarsi sia un patto di fiducia ed è un peccato che non ci pensi mai nessuno, se non per violare il patto senza che gli altri se ne accorgano. Ti parlo dunque mi fido           Io credo che il patto di fiducia (che è il fondamento della comunicazione) sia una delle cose più belle che la scuola possa insegnare. Se ci si lavora sopra come si deve, insegnando e imparando ci si educa insieme, senza bisogno di fare e di subire prediche. Comunicare con gli altri sulla base di un patto di fiducia significa non avere (o almeno non attivare) gli antifurti sul cervello, primo passo per decidere che cosa fare degli antifurti sul cuore.            Significa anche interrogarsi su parole che stanno in campi semantici simili o antitetici. “Fiducia” e “diffidenza” sono termini quasi opposti. “Diffidenza” e “indifferenza” si somigliano nei suoni e stanno molto vicino. “Indifferenza” e “disattenzione”, “imprecisione”, “approssimazione” formano una facile catena di nessi e, se ci pensi, sono parole chiave nel funzionamento del mondo intorno a noi (noi esclusi o noi compresi, dipende dai casi).           Quello che voglio dire non è che non dobbiamo stare attenti e fidarci sempre e comunque. Familiari, prof, don e amici più grandi hanno ragione di metterti in guardia. Quello che voglio dire è che, se decidiamo a priori di non fidarci mai di nessuno, perdiamo l’occasione di comunicare, di scoprire il nuovo, di divertirci insieme agli altri scambiando esperienza. Se cerchiamo di tenere aperta la porta del cervello (e poi del cuore), siamo disposti non a “dire” (a senso unico), ma a “parlare” mettendo in comune, cioè a “comunicare”. Ho il sospetto che sia comodo trovare la scusa che non ci fidiamo per poter essere indifferenti agli altri e a quel che càpita (se non ci tocca), senza scendere mai in campo e senza fare scelte. Faccio bene le cose perché mi importa di te           Non sto a far colpe: se penso alla signora morta per un pugno nella metro senza che nessuno sia intervenuto, capisco benissimo che per nessuno è facile capire che cosa stia succedendo intorno e decidere su due piedi che cosa fare tenendo presenti i propri limiti senza provocare danni ulteriori. Nessuno può trasformarsi in Superman o Superwoman. Però penso che essere indifferenti con la scusa della paura sia molto comodo. Al massimo partecipo a un gruppo su Facebook e sono a posto. Ma se gli altri mi sono indifferenti, se cioè loro non contano per me, quello che devo fare nei loro confronti è un dovere che “rompe” e che non importa. Faccio tutto con imprecisione, con approssimazione, così come viene, senza metterci troppo di me stesso. Devo, ma non conta.            Magari abbiamo scoperto il motivo per cui c’è sempre qualcosa di mal fatto, di avventato o di inefficiente nel mondo occidentale contemporaneo: puoi stilare tu facili elenchi molto lunghi. Magari abbiamo scoperto anche un motivo per cui sarebbe bello cercare, uno per uno e tutti insieme, di essere efficienti: perché io faccio cose per altri, i miei “altri” contano per me e io per loro.            Siamo partiti da un falso complemento di specificazione e siamo passati attraverso la linguistica per scrivere (e leggere) un’altra predica? Ma no, è solo grammatica… Sappi dunque che nella frase “Mi fido di te” il complemento “di te” non specifica niente, ma è indispensabile al verbo perché il verbo abbia senso. Perciò “di te” è indispensabile anche al soggetto, che altrimenti, con un verbo vuoto, non è soggetto di niente. È come con il verbo “comunicare”: se non c’è qualcuno con cui comunichi (e di cui ti fidi), puoi pure tacere e non parlare a vànvera, come fanno in tanti. Altrimenti quello che dici, e cioè l’importantissimo complemento oggetto, non serve: è tutta energia sprecata. Non spetta a me dirlo, qui nella rubrica sulla scuola: però comunicare è proprio come quando preghi e ti fidi di chi ascolta. Magari non capisci subito la risposta, ma sai che il fango sulle ruote c’è. 

Susanna Conti

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