Siamo portati a pensare che la comunicazione fra due esseri umani abbia più o meno le stesse caratteristiche di una macchina: se usiamo il protocollo giusto, se ci prendiamo il tempo necessario, il nostro contenuto “A” arriverà tale e quale nella “testa” dell'interlocutore.
del 02 maggio 2011
 
          Il principio della comunicazione fra due macchine è piuttosto semplice: la macchina 1 contiene l’informazione A, l’informazione A viene trasmessa, la macchina 2 riceve l’informazione A così com’era, per forma e contenuto, nella macchina 1. In particolare oggi, in un’epoca di profonda digitalizzazione, le sfide sono molte (velocità della trasmissione, conservazione e compressione dei dati, utilizzo di mezzi di telecomunicazione più o meno insoliti, quantità di dati da trasmettere, scelta dei protocolli etc.), ma il principio rimane elementare: “A” deve passare da una macchina all’altra rimanendo “A”.          E se in certi casi (come per una fotografia in JPEG) ci si può consentire un po’ di approssimazione, in altri (come nel caso di un numero di carta di credito) questa identità deve essere totale e assoluta.          Siamo portati a pensare che la comunicazione fra due esseri umani abbia più o meno le stesse caratteristiche: se usiamo il protocollo giusto, se ci prendiamo il tempo necessario, il nostro contenuto “A” arriverà tale e quale nella “testa” dell’interlocutore. Eppure se ci fermiamo a pensare le cose appaiono terribilmente complicate, come dimostra l’ansia che proviamo quando qualcuno ci chiede di “riferire i fatti” durante una testimonianza.          Entra subito in gioco quello che abbiamo visto e sentito (perché c’è altro che non abbiamo visto né sentito), che importanza gli abbiamo attribuito lì per lì, come lo abbiamo interpretato, quanto ne ricordiamo oggi e quanto invece sia frutto di una nostra rielaborazione a posteriori; e poi: quali parole scegliamo per definirlo, quali metafore o paragoni (come si fa a definire a parole un rumore? un odore?), con quale gestualità accompagniamo la descrizione, quale stato d’animo traspare; e anche: qual è la lingua del nostro interlocutore, quale il livello culturale ed intellettivo di entrambi, in quali circostanze stiamo parlando (e se non abbiamo voce? o se c’è la musica alta? o siamo al buio?); ed infine: come viene interpretato il tutto da chi ci ascolta (quanto “ne sa” di ciò di cui parliamo? ha pregiudizi?).          Tutto questo sembra più complicato della semplice scelta di un “protocollo efficiente”, come avviene fra due macchine. Eppure, nella vita quotidiana ciò non sembra preoccuparci; diamo per scontato che saremo capiti, ma il più delle volte diamo anche per scontato che ci si possa fraintendere: in fin dei conti siamo più elastici di quanto vogliamo far credere.          Il punto è che, proprio nella vita quotidiana – in quello spazio antropologicamente significativo che è la nostra esperienza relazionale di ogni giorno – noi non “riferiamo” mai i fatti come in tribunale.Piuttosto, diciamo: “Adesso ti racconto cosa mi è successo stamattina”.Cristiano Gaston
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