Confessione e Santa Cena

«Confessate l'uno all'altro i vostri peccati» (Gc 5,16). Chi resta solo con la propria malvagità, resta solo completamente. Può darsi che dei cristiani restino abbandonati a se stessi, nonostante la medi¬≠tazione e la preghiera in comune, nonostante si sia realizzata la co¬≠munione nel servizio...

Confessione e Santa Cena

da L'autore

del 01 gennaio 2002

«Confessate l’uno all’altro i vostri peccati» (Gc 5,16). Chi resta solo con la propria malvagità, resta solo completamente. Può darsi che dei cristiani restino abbandonati a se stessi, nonostante la medi­tazione e la preghiera in comune, nonostante si sia realizzata la co­munione nel servizio; può darsi che non si riesca a fare l’ultimo sfor­zo per giungere veramente alla comunione, proprio perché l’abbia­mo raggiunta sul piano della fede, della devozione, ma non quando ci dobbiamo riconoscere ribelli a Dio, peccatori. In effetti la comu­nione, se si configura come comunione di devoti, non permette a nessuno di essere peccatore. Per questo ognuno deve nascondere il peccato ai suoi propri occhi e allo sguardo della comunità. Non ci è permesso di essere peccatori. Non si riesce a immaginare l’orrore di molti cristiani, se improvvisamente un vero peccatore capitasse fra la gente devota. Per questo restiamo soli con il nostro peccato, nella menzogna e nell’ipocrisia; infatti siamo noi ad essere peccatori.

 

Ma la grazia dell’evangelo, così difficile da capirsi per la gente devota, è che l’evangelo ci pone nella verità, dicendo: tu sei un pec­catore, grande e senza speranza di salvezza; ma presentati per quello che sei, un peccatore, al tuo Dio, che ti ama. Egli ti accoglie così come sei, non pretende da te nulla, né sacrifici, né opere, vuole te soltanto. «Figlio mio, aprimi il tuo cuore» (Prv 23,26). Dio è venuto a te, per salvare il peccatore. Rallegrati! Questo annuncio è libera­zione per mezzo della verità. Davanti a Dio non puoi nasconderti. Davanti a lui non serve la maschera che porti agli occhi degli uomini. Egli vuol vederti così come sei e vuol farti grazia. Non occorre più che tu inganni te stesso e il tuo fratello, come se fossi senza peccato; ora ti è consentito essere peccatore, ringraziane Dio; egli infatti ama il peccatore, ma odia il peccato.

 

Cristo è stato nostro fratello nella carne, perché credessimo in lui. In lui l’amore di Dio è giunto al peccatore. Davanti a lui gli uomini hanno potuto essere peccatori, e solo così ne hanno ricevuto aiuto. Qualsiasi apparenza aveva perso, davanti a Cristo, la sua ragion d’es­sere. La miseria del peccatore e la misericordia di Dio, questa è stata la verità dell’evangelo in Gesù Cristo. In questa verità avrebbe dovuto vivere la sua comunità. Per questo egli ha conferito ai discepoli il potere di ascoltare la confessione dei peccati e di rimettere il pec­cato in suo nome. «A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti» (Gv 20,23).

 

Con questo Cristo ha fatto della comunità e del fratello in essa una fonte di grazia per noi. Ora il fratello sta al posto di Cristo. Davanti al fratello non ho più bisogno di essere ipocrita. È l’unico al mondo che mi consenta di presentarmi come quel peccatore che sono; qui infatti il criterio è dato dalla verità di Gesù Cristo e della sua misericordia. Cristo si è fatto nostro fratello per aiutarci; ora, per suo mezzo, il nostro fratello è divenuto il Cristo per noi, con il potere dell’incarico ricevuto. Il fratello sta davanti a noi come segno della verità e della grazia di Dio. Ci è dato in aiuto. Egli raccoglie la nostra confessione di peccato al posto di Cristo, e al posto di Cristo ci rimette il peccato. Salvaguarda il segreto della nostra con­fessione, come lo salvaguarda Dio. Se mi presento alla confessione fraterna, mi presento a Dio.

 

Perciò per la comunione cristiana l’appello alla confessione e alla remissione fraterna è l’appello alla grazia di Dio estesa a tutta la co­munità

 

Nella confessione si apre la strada per realizzare veramente la co­munione. Il peccato esige che l’uomo sia solo. Lo sottrae alla comu­nione. Quanto più è solo, tanto più distruttivo è il dominio del pec­cato su di lui; e ancora, quanto più intricata la rete del peccato, tanto più disperata la solitudine, il peccato vuol rimanere sconosciu­to. Ha orrore della luce. Nell’oscurità dell’inespresso il peccato av­velena tutto l’essere dell’uomo. Può accadere anche nella comunità devota. Nella confessione, la luce dell’evangelo irrompe nelle tene­bre e nell’oscurità in cui il cuore si chiude. Il peccato è costretto a venire alla luce. Ciò che rimaneva inespresso è detto apertamente e riconosciuto. Ora viene alla luce tutto ciò che è nascosto e segreto. È una dura battaglia quella per giungere ad ammettere il peccato e alla sua confessione verbale. Ma Dio infrange porte di bronzo e cate­ne di ferro (Sal 107,16). Se la confessione dei peccati avviene alla presenza del fratello cristiano, si riduce a zero l’ultima resistenza del­l’autogiustificazione. Il peccatore si consegna, rinuncia a tutta la mal­vagità che è in lui, rimette a Dio il suo cuore e trova la remissione di tutti i suoi peccati nella comunione con Gesù Cristo e con il fratello. Il peccato reso esplicito nella confessione perde tutto il suo potere.

 

È stato rivelato e giudicato nella sua natura di peccato. Non può più distruggere la comunione. Ora è la comunità a portare il peccato del fratello. Con la sua malvagità egli non è più solo, ma nella confes­sione ha «deposto», affidato a Dio la propria cattiveria. Ne è stato alleggerito. Ora fa parte della comunione dei peccatori, che vivono della grazia di Dio nella croce di Gesù Cristo. Ora gli è consentito di essere peccatore e di rallegrarsi tuttavia della grazia di Dio. Può confessare i propri peccati e proprio in tal modo trovare infine la comunione. Il peccato rimasto latente lo separava dalla comunione, ne rendeva falsa ogni apparenza, mentre il peccato confessato lo ha aiutato a giungere alla vera comunione con i fratelli in Gesù Cristo.

 

Finora si è parlato della confessione tra due cristiani. Per ritrovare la comunione con tutta la comunità, non occorre una confessione dei peccati davanti a tutti i suoi membri. In quel solo fratello a cui confesso il mio peccato e che mi rimette il peccato già incontro l’in­tera comunità. Nella comunione che stabilisco con quel solo fratello, mi è già donata la comunione con l’intera comunità; infatti qui nes­suno agisce per proprio mandato e per autorità personale, ma per mandato di Gesù Cristo, valido per tutta la comunità, che il singolo è solo chiamato a rappresentare. Se un cristiano è nella comunione della confessione fraterna, non è più solo, ovunque egli si trovi.

 

Nella confessione si apre la via per giungere alla croce. La radice di ogni peccato è l’orgoglio, la superbia[1]. Voglio essere per mio conto, ho diritto a me stesso, a nutrire il mio odio e la mia concupi­scenza, a volere la mia vita e la mia morte. Spirito e carne dell’uomo sono stimolati dalla superbia; infatti, nella sua malvagità, l’uomo vuol essere come Dio. La confessione davanti al fratello è la più profonda umiliazione, fa male, ci mette a terra, abbatte la superbia senza risparmiarla. Presentarsi al fratello come peccatore è una ver­gogna che si sopporta difficilmente. Nella confessione di peccati concreti l’uomo vecchio muore fra i dolori di una morte ignominiosa in presenza del fratello. Questa umiliazione è così pesante, che pen­siamo sempre di poter fare a meno della confessione davanti al fra­tello. I nostri occhi sono così abbagliati, da non scorgere più la pro­messa e la gloria di tale umiliazione. Eppure nessun altro se non Gesù Cristo stesso ha sofferto pubblicamente al nostro posto la mor­te ignominiosa del peccatore; egli non si è vergognato di venir croci­fisso come malfattore per noi, e niente altro che la nostra comunione con Gesù Cristo ci porta alla morte ignominiosa nella confessione, al fine di poter partecipare nella verità alla sua croce. La croce di Gesù Cristo annienta qualsiasi superbia. Non possiamo trovare la croce di Gesù, se abbiamo timore di andare là dove egli si fa trovare, cioè là dove il peccatore subisce la morte in pubblico, e ci rifiutiamo di portare la croce; se ci vergogniamo di sottoporci alla morte igno­miniosa del peccatore nella confessione. Nella confessione superia­mo l’ultima resistenza verso l’autentica comunione della croce di Gesù Cristo, nella confessione acconsentiamo alla nostra croce. Nel­la profonda sofferenza, fisica e spirituale insieme, dell’umiliazione davanti al fratello, vale a dire davanti a Dio, impariamo a riconoscere nella croce di Gesù la nostra salvezza e la nostra beatitudine. Muore il vecchio uomo, ma colui che lo ha vinto è Dio. Ora partecipiamo alla risurrezione di Cristo e alla vita eterna.

 

Nella confessione si apre la strada verso la nuova vita. Quando si odia il peccato, lo si riconosce e si ha la remissione, si ha la rottura con il passato. «Le cose vecchie sono passate». E dove si è rotto ogni rapporto con il peccato, lì c’è la conversione. La confessione è conversione. «Ecco, tutte le cose sono divenute nuove» (2 Cor 5,17). Cristo si è messo con noi in un nuovo rapporto. Come i primi disce­poli di Gesù, che al suo appello hanno lasciato tutto per seguirlo, così il cristiano nella confessione abbandona tutto e si mette al segui­to di Cristo. La confessione è sequela. È iniziata la vita con Cristo e con la sua comunità. «Chi dissimula le proprie colpe non prospere­rà; chi le confessa e le ripudia troverà indulgenza» (Prv 28,13). Nella confessione il cristiano inizia a ripudiare il proprio peccato. Il domi­nio di questo è spezzato. Da questo momento in poi il cristiano accumula vittorie. Ciò che è accaduto in noi nel battesimo, ci viene nuovamente donato nella confessione. Siamo salvati dall’oscurità e siamo ammessi nel regno di Gesù Cristo. Questo è un messaggio di gioia. La confessione è il rinnovamento della gioia del battesimo. «La sera alberga il pianto, al mattino è la gioia» (Sal 30,6).

 

Nella confessione si apre la strada verso la certezza[2]. Da che di­pende la maggiore facilità che spesso si riscontra nel confessare i peccati davanti a Dio, piuttosto che davanti al fratello? Dio è santo e senza peccato, è giusto giudice del male e nemico di ogni disubbi­dienza. Ma il fratello è peccatore come noi, per esperienza sa che cos’è la notte del peccato che resta nascosto. Non dovrebbe essere più facile rivolgersi al fratello che non a Dio, che è il santo? Poiché però per noi le cose stanno diversamente, allora ci dobbiamo chiede­re se nel confessare i peccati davanti a Dio non ci siamo più volte autoingannati, confessando i nostri peccati a noi stessi, e rimettendo­celi da soli. E le innumerevoli ricadute, la debolezza della nostra ubbidienza cristiana non è forse motivata dal fatto che viviamo di un’autoremissione, non di una vera remissione dei peccati? Se ci rimettiamo i peccati da soli, non saremo mai in grado di tagliare definitivamente i ponti con il peccato: ciò è possibile solo alla Parola giudicante e misericordiosa di Dio. Come si fa ad esser certi di aver a che fare, nella confessione e nella remissione dei nostri peccati, non con noi stessi, ma con il Dio vivente? Questa certezza è donata a noi da Dio per mezzo del fratello. Il fratello infrange il cerchio dell’autoinganno. Chi confessa i peccati davanti al fratello, sa di non esser più solo con se stesso, e sperimenta nella realtà dell’altro la presenza di Dio. Finché resto solo con me stesso nel riconoscere i peccati, tutto rimane nelle tenebre; al cospetto del fratello il peccato deve venire alla luce. Prima o poi, il peccato deve venire alla luce, quindi è meglio che ciò avvenga oggi fra me e il mio fratello, che non alla fine dei tempi, nella luce del giudizio finale. La possibilità di confessare i nostri peccati al fratello è una grazia. È ciò che ci risparmia il terrore del giudizio finale. Il fratello mi è dato allo scopo di farmi raggiungere già qui la certezza della realtà di Dio nel giudi­zio e nella grazia. Se da un lato la confessione dei peccati è sottratta all’autoinganno in quanto si compie al cospetto del fratello, dall’al­tro, per quanto riguarda la remissione, la certezza è piena solo se è il fratello a rimettere i peccati, per mandato e in nome di Dio. Per darci la certezza della remissione divina, Dio ci fa il dono della con­fessione fraterna.

 

Il conseguimento di questa certezza è la ragione per cui la confes­sione deve esser fatta come ammissione di peccati concreti. Di solito, quando si fanno confessioni generiche, si tenta di autogiustificarsi. La completa rovina e corruzione della natura umana mi diventa chiara nei peccati ben precisi che commetto, nell’esperienza che ne faccio per mio conto. L’esame in rapporto ai dieci comandamenti sarà perciò la preparazione adeguata alla confessione. Altrimenti po­trebbe accadere che io perseveri nella mia ipocrisia anche nella con­fessione fraterna, e che non riesca a trarne consolazione. Gesù ha avuto a che fare con uomini, i cui peccati erano alla luce del sole, con pubblicani e prostitute. Essi sapevano perché avevano bisogno di remissione, e la ricevevano come remissione del loro specifico peccato. Al cieco Bartimeo Gesù chiede: «Che vuoi tu che io ti fac­cia?»[3]. A questa domanda dobbiamo rispondere in termini chiari nella confessione. Anche noi in essa riceviamo la remissione di deter­minati peccati, che qui vengono alla luce, e proprio per questo la remissione di tutti i nostri peccati, noti o no.

 

Tutto questo significa che la confessione fraterna sia una legge divina? La confessione non è una legge, ma un’offerta di aiuto divi­no per il peccatore. Può darsi che uno consegua per grazia divina e senza confessione fraterna la certezza, la nuova vita, che giunga alla croce e alla comunione. Potrebbe darsi che uno impari a non dubitare mai della remissione e del proprio riconoscimento dei pec­cati, che tutto questo gli sia donato nella confessione individuale davanti a Dio. Qui abbiamo parlato per coloro che non possono dire di goderne. Lutero stesso faceva parte di coloro che non riusci­rebbero più a pensare la vita cristiana senza la confessione fraterna. Nel Grande catechismo ha detto: «Perciò, nell’esortare alla confes­sione, esorto ad esser cristiani»[4]. A coloro che, pur cercandola fati­cosamente, non riescono a trovare la grande gioia della comunione, della croce, della nuova vita e della certezza, si deve presentare l’of­ferta divina che ci è fatta nella confessione fraterna. L’ambito in cui essa si colloca è quello della libertà del cristiano. Ma chi respinge­rebbe senza danno un aiuto che Dio ha ritenuto necessario offrire?

 

A chi dobbiamo confessare i nostri peccati? Ogni fratello cristia­no, secondo la promessa di Gesù, può accogliere la confessione del­l’altro. Ma ci capirà? Forse è così avanti rispetto a noi nella vita cristiana, da non poter ammettere con comprensione un peccato come quello da noi commesso? Chi vive sotto la croce di Gesù, chi ha riconosciuto in essa l’abisso del rinnegamento di Dio da parte di tutti gli uomini e del proprio cuore, non può stupirsi più di alcun peccato; chi è rimasto atterrito dall’orrore del proprio, peccato, per cui Gesù è stato crocifisso, non inorridisce più davanti al peccato, per quanto grave, del fratello. Egli conosce il cuore umano a partire dalla croce di Gesù. Sa che esso è del tutto smarrito, nel peccato e nella debolezza, si rende conto del suo perdersi per le vie del pecca­to, ma sa anche che è accolto nella grazia e nella misericordia. Solo il fratello che si pone sotto la croce può ascoltare la mia confessione. La sua capacità di ascolto non dipende dall’esperienza della vita, ma dall’esperienza della croce. Il più esperto conoscitore dell’umanità sa infinitamente meno circa il cuore umano di quanto non sappia il più semplice cristiano nel suo vivere sotto la croce. Si può avere il massimo intuito psicologico, si possono avere capacità ed esperien­za, ma tutto questo non fa capire che cosa sia il peccato. Si può conoscere la miseria, la debolezza e il fallimento, ma non la lonta­nanza dell’uomo da Dio. Per questo si ignora anche che l’uomo peri­sce solo a causa del peccato e che può guarire solo grazie alla remis­sione. Solo il cristiano sa questo. Davanti allo psicologo posso essere solo un malato, davanti al fratello cristiano mi è consentito di essere peccatore. Lo psicologo cerca di indagare il mio cuore, ma non ne raggiunge mai fino in fondo la profondità, il fratello cristiano dice: ecco uno che è peccatore come me, uno che è lontano da Dio, che vuol confessarsi e desidera la remissione da Dio. Lo psicologo mi prende in considerazione, come se Dio non esistesse[5], il fratello mi considera alla presenza di Dio che giudica e fa misericordia nella croce di Gesù Cristo[6]. Non si tratta di un difetto delle conoscenze psicologiche, ma di un difetto nell’amore per Gesù Cristo crocifisso, quando ci scopriamo così sprovveduti e inadeguati alla confessione fraterna. Nel serio e quotidiano confronto con la croce di Cristo, il cristiano perde lo spirito del giudizio umano e della fiacca indulgen­za, e riceve lo spirito della severità e dell’amore divino. Diventa per lui realtà quotidiana la morte del peccatore davanti a Dio e la rina­scita dopo la morte ad opera della grazia. Così egli ama i fratelli con l’amore misericordioso di Dio, che attraverso la morte del peccatore porta alla vita del figlio di Dio. Chi può ascoltare la nostra confessio­ne? Chi vive sotto la croce. Dove è viva la parola del crocifisso, lì sarà anche possibile la confessione fraterna.

 

La comunità cristiana che pratica la confessione deve guardarsi da due pericoli. Il primo riguarda chi raccoglie la confessione. Non è bene che uno lo faccia per tutti. Troppo facilmente uno si esauri­sce, e la confessione diventa per lui una pratica vuota; ne risulta l’abuso malsano della confessione per esercitare un dominio spiri­tuale sulle anime. Per non incorrere in questo gravissimo pericolo, chi non si sottopone personalmente alla confessione deve evitare di raccogliere la confessione altrui. Solo chi si è sottoposto all’umilia­zione, può ascoltare senza danno la confessione del fratello. Il secon­do pericolo riguarda chi si confessa. Per la salvezza dell’anima, egli deve guardarsi dal fare della propria confessione un’opera di devo­zione. Infatti sarebbe un esporre il proprio cuore senza riserve, nel modo più disastroso, rovinoso, impudico, sarebbe un chiacchierare per proprio gusto. La confessione come opera di devozione è un’i­dea del diavolo. L’unico motivo per cui possiamo osare di immerger­ci nella profondità della confessione è esclusivamente l’offerta della grazia di Dio, dell’aiuto e della remissione; possiamo confessarci solo in vista della promessa di assoluzione. La confessione come opera è morte spirituale, la confessione in vista della promessa è vita. La remissione dei peccati è il solo motivo e scopo della confessione.

 

Per quanto la confessione sia un’azione autosufficiente in nome di Cristo e la sua frequenza all’interno della comunità dipenda solo dal desiderio di ricorrervi, tuttavia la confessione serve alla comunità cristiana specialmente a preparare la partecipazione comune alla Santa Cena. I cristiani vogliono ricevere il corpo e sangue di Gesù Cristo riconciliati con Dio e con gli uomini. È comandamento di Gesù, che nessuno si presenti all’altare se il suo cuore non è riconci­liato con il fratello[7]. Questo comandamento vale per qualsiasi culto, anzi per qualsiasi preghiera, e quindi a maggior ragione per accostar­si al sacramento. Il giorno prima della celebrazione comune della santa Cena, i fratelli di una comunità cristiana si riuniranno e si chiederanno reciprocamente perdono dei torti commessi. Nessuno può accedere alla mensa del Signore con la preparazione adeguata, se cerca di evitare quell’incontro con il fratello. È necessario che i fratelli eliminino ogni sorta di ira, di contesa, di invidia, di maldicen­za e di comportamento poco fraterno, se vogliono ricevere insieme la grazia di Dio nel sacramento. Però la richiesta di perdono al fratel­lo non è ancora confessione, e solo questa è il senso del comanda­mento esplicito di Gesù. La preparazione alla santa Cena può risve­gliare in qualcuno anche il desiderio della piena certezza della remissione di determinati peccati, che lo angustiano e lo tormenta­no, e che sono noti solo a Dio. A questo desiderio viene incontro l’offerta della confessione e assoluzione fraterna. Se è grande l’ango­scia e il tormento per il proprio peccato, se si aspira alla certezza della remissione, allora ci sarà l’invito alla confessione fraterna nel nome di Gesù. Ciò che fu rimproverato a Gesù come bestemmia contro Dio, la remissione dei peccati, è ciò che si verifica ora nella fraternità cristiana, in forza della presenza di Gesù Cristo. L’uno rimette all’altro tutti i peccati[8], in nome di Gesù, del Dio trinitario[9], e gli angeli in cielo gioiscono per il peccatore convertito[10]. Quindi il tempo di preparazione alla santa Cena comprenderà l’ammoni­mento fraterno, il conforto, la preghiera, il timore e la gioia.

 

Il giorno della santa Cena è un giorno di gioia per la comunità cristiana. Con il cuore riconciliato nei confronti di Dio e dei fratelli, la comunità riceve il dono del corpo e del sangue di Gesù Cristo, e per mezzo di questa remissione, nuova vita e beatitudine. Riceve il dono di una nuova comunione con Dio e con gli uomini. La comu­nione della santa Cena è la massima realizzazione della comunione cristiana in assoluto. I membri della comunità sono una sola cosa nel corpo e nel sangue alla mensa del Signore, allo stesso modo in cui saranno insieme nell’eternità. Qui la comunione ha raggiunto la sua meta. La gioia di Cristo e della sua comunità è pienamente godu­ta. La vita in comune dei cristiani alla luce della Parola ha raggi

[1] In latino nel testo. Sulla base di Sir 10,14s. (nell’edizione italiana 10,13s): «Principio d’o­gin peccato è la superbia», si è avuta la classica tradizione della superbia come radice del peccato nella ribellione a Dio (cfr. anche Gn 3,5). Cfr. ad es. Tommaso d’Aquino, S. th. II-II q. 162 a. 7.

[2] Cfr. D. Bonhoeffer, Nachfolge 264s. [Sequela 226].

[3] Mc 10,51; Lc 18,41.

[4] M. Luther, Der große Katechismus, Vermahnung zur Beicht, 1529 (Weimarer Ausgabe der Werke Martin Luthers 30/I, 238; BSLK 732).

[5] Cfr. D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung 393 (Resistenza e resa 439): «H. Grozio, che formula il suo diritto naturale come diritto dei popoli, valido ‘etsi deus non daretur’, ‘anche se Dio non esistesse’».

[6] Cfr. n. 12 e n. 73.

[7] Cfr. Mt 5,23s.

[8] Cfr. Mc 2,7; Mt 9, 3; Lc5, 21.

[9] Cfr. Mt 6,14; 18,21.35; Lc 6, 37; Gc 5,16.

[10] Cfr. Lc 15,7.

Dietrich Bonhoeffer

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