I salesiani: «Restiamo con i bambini» Il racconto dei volontari tra esercito e ribelli. «Non ce ne andiamo, qui ci sono milioni di disperati»
del 03 novembre 2008
«Noi non ce ne andiamo. Come potremmo? Ci sono migliaia di disperati che si rifugiano qui in cerca di cibo e cure». Al telefono da Goma padre Mario Perez parla in mezzo alla calca di mamme e bambini ammassati in quella che era l'ex cappella del centro Don Bosco Ngangi, periferia nord della capitale del Nord Kivu, la regione congolese teatro degli scontri tra l'esercito del generale ribelle Laurent Nkunda e le truppe del presidente Joseph Kabila. Padre Perez, venezuelano, capo carismatico del centro che da 20 anni ospita bambini abbandonati, è sul campo dal 1982. Con lui oggi sono rimasti quattro dei nove volontari della ong salesiana Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo): tre italiani e una francese, i più esperti. Hanno deciso di non mollare nonostante l'ordine di evacuazione dello staff non essenziale lanciato dall'Onu quando i ribelli sono arrivati a 10 chilometri dalla città.
 
Con la chiusura dei campi profughi vicini, i 45 mila sfollati recentemente fuggiti hanno cominciato a fare ritorno in città e a gravitare intorno al centro. E loro non se la sono sentita di fare le valigie e abbandonarli. Sono centinaia e centinaia: ai 350 piccoli, orfani o abbandonati già accolti nella comunità salesiana (70 con meno di 3 anni), si sono aggiunti oltre 400 disperati, tra mamme e bambini accampati in ogni luogo del centro: refettori, aule, depositi, cortili e appunto la piccola cappella, dove ieri due donne hanno pure partorito. «Altri 4mila sfollati vengono da noi ogni giorno per mangiare e andare a scuola, alla ricerca di una qualche normalità» racconta padre Perez.
 
I quattro volontari rimasti tengono le redini di questo centro profughi improvvisato. Sono loro a gestire i contatti con Unicef, Medici senza frontiere e Avsi per gli approvvigionamenti di viveri e medicine. «A livello umanitario qualcosa si è mosso. Dopo la chiusura dei campi profughi queste organizzazioni ci stanno dando una mano. Restiamo, sperando che la situazione si calmi» dice il sacerdote mentre arriva una buona notizia: il presidente Kabila e quello ruandese Kagame hanno accettato di partecipare a una riunione di emergenza in Kenya sulla crisi in Nord Kivu. Ma padre Perez non è ottimista: «È un tentativo disperato, i ribelli hanno esigenze che il governo del Congo non credo sia disposto ad accettare ». Intanto per il secondo giorno consecutivo la tregua sembra reggere, fragile. I combattimenti sono fermi ma la situazione dei profughi resta drammatica. «Noi non possiamo assistere tutti: soltanto donne, bambini e anziani, quelli più in difficoltà. Escludiamo tutti gli uomini. E qui tra l'altro piove e fa freddo: Goma si trova a 1500 metri d'altezza» ricorda.
 
 
Ad aiutare la comunità salesiana c'è anche la ong Avsi, con il suo unico rappresentante rimasto sul campo (gli altri sono stati rimpatriati), Edoardo Tagliani, 35 anni, di Biella. «La città ora è molto più tranquilla, dopo la notte di sangue di mercoledì non si è più sparato grazie alla sorveglianza delle pattuglie dei Caschi blu — racconta —. Ma la gente è in preda al panico soprattutto nei quartieri a sud di Goma, i più poveri e meno sorvegliati. La gente dorme con la valigia sotto il letto, pronta a scappare senza meta, e rivive la paura di una guerra durata 14 anni. Vive con lo spettro del conflitto etnico e il terrore che scoppi una guerra su larga scala con il Ruanda». Paure che si amplificano quando si diffonde la voce che i ribelli hanno issato la loro bandiera a Rutshuru, ultimo baluardo verso Goma, 70 chilometri a nord, e hanno sostituito l'amministratore locale con un loro uomo.
Poi c'è lo spettro di un'epidemia di colera e la mancanza di viveri: «L'Unicef ha aperto i magazzini nella cintura di Goma dove ci sono tra i 300-500 mila sfollati, ma cibo e medicine bastano appena per la metà di loro. Goma è quasi isolata. Ci sono difficoltà di approvvigionamento: cercano di organizzare voli speciali, ma una volta atterrati occorre organizzare i camion, e c'è difficoltà a reperire gasolio, senza contare il rischio di essere saccheggiati».
 
«Anche dentro la città si gira come in guerra. Non usciamo mai di notte, rientriamo sempre prima del buio, intorno alle 18.30, e non circoliamo mai a piedi ma in auto e sempre con il telefonino a portata di mano» racconta Sara Persico, 37 anni, educatrice del centro di Don Bosco. «La gente è persa, vaga senza meta: scappa, poi torna ai luoghi d'origine per cercare cibo, fugge ancora». Alle paure di tutti i giorni, per i volontari se ne aggiunge un'altra: quella che cali il sipario. «Aiutateci a tenere alta l'attenzione su questa catastrofe anche quando finirà la missione europea», chiedono.
 
Alessandra Muglia
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