L'importanza e l'incisività del fare animazione passa attraverso il carattere dell'EDUCARE, una categoria oggi disattesa o rimandata sempre ad altri. Il buon animatore deve trasformarsi in EDUCATORE. Proponiamo la riflessione di don V. Chiari.
IN TROPPI FUGGONO DALL’EDUCARE
È possibile fuggire dall’educare? Secondo alcuni sì: «Sono diventato grande anch’io da solo, può farlo anche lui». Secondo altri, no: perché anche chi fugge in qualche modo educa, anzi diseduca.
Ad un corso per insegnanti di scuola media, una «prof» era intervenuta criticando la mia relazione, che invitava gli insegnanti a ritrovare la loro vocazione di educatori: «Io non sono una volontaria, io sono un’esperta nella mia materia. A me basta comunicare con competenza quanto ho studiato e ritengo utile agli allievi. Non sono chiamata ad educare». Ho risposto sorridendo: «Già come entri in classe, come vesti e come parli, come guardi i ragazzi davanti a te, come li interroghi, tu educhi o diseduchi!». Questo vale anche per i genitori, per quanti, in qualche modo, sono a contatto con i ragazzi: «Tutti dicono di amare i ragazzi, diceva il cardinal Martini, ma ditemi: come mai essi fuggono da casa, dalla scuola, dalla chiesa, dallo Stato e spesso anche dalla vita?».
I ragazzi fuggono quando gli adulti disertano il campo educativo, quando si dimenticano di ararlo e di fecondarlo con la pazienza e la speranza del contadino. Gli adulti fuggono perché non hanno voglia di confrontarsi con loro, non hanno memorie da comunicare, hanno perso il gusto di vivere, temono i ragazzi per la libertà con la quale si pongono nei confronti dell’adulto. L’atto educativo, come l’amore, nasce nella libertà! Da qui le difficoltà di genitori, che affermano: «Preferisco costruire un muro che stare con mia figlia...»; «Non ho tempo: il lavoro mi occupa tutta la giornata e quando ritorno a casa, sono stressato e non voglio stare a discutere»; «Non è mai contento delle mie risposte e io non sono una professoressa d’università»; «Non ti dico le discussioni quando entro in negozio per comprare un vestito o un paio di scarpe!»; «Ho tanto desiderato un figlio, ma adesso che diventa grande, mi pento di averlo fatto!».
Oggi una mamma è entrata al Centro dei «barabitt», con il piccolo giovane Tore di 8 anni: «Ve l’ho portato perché me lo spaventi. Sono stufa delle lamentele delle maestre. Gli metta paura... Gli dica che lo tiene qui!». «Mettere paura? Signora, non si è mai chiesta il perché del disimpegno e dell’aggressività di Tore?». Era una delle famiglie che non avevano tempo, dove i genitori fuggivano dall’educare. «Il tempo è la misura dell’amore, signora. Dovete trovarne per lui, altrimenti lui continuerà a castigarvi dicendo bugie, dando morsi alla sorellina, non facendo i compiti e rompendo... l’anima alle maestre! Non fugga, se non vuole perdere suo figlio!». Non mi è parsa soddisfatta della mia risposta: non mi ha dato la mano andandosene. Al suo posto me l’ha data il piccolo Tore... Lui, sì, che aveva capito tutto!
DARE VALORE AL PATRIMONIO CHE OGNI GIOVANE HA CON SÉ
È questo il primo passo che un educatore deve compiere nel cammino di educazione alla fede. È un patrimonio di doti di incontri, di storie, di cultura, di veri e falsi bisogni, del quale occorre tenere conto per non essere degli astratti. Accoglierli come sono, al punto in cui sono, per non lasciarli come sono! Sembra un gioco di parole, mentre è un impegno che esige dall’educatore tanta intelligenza e pazienza. E l’accoglienza, quando non è pregiudizio, presunzione, genera amicizia: la religione cristiana è vita di amicizia, è fatto d’amore. Prima del culto, della preghiera, della Messa, ci deve essere una conversione agli altri. Non è possibile amare Dio che non vedi, se non ami il fratello che vedi. «Non dovrebbero giudicarmi — scrive Enzo di anni 17 – ma aiutarmi ad essere giudice di me stesso, non devono condannarmi ma mettermi nella condizione di rifarmi e recuperare, e a perdonare imparerò il giorno in cui mi sentirò perdonato».
L’accoglienza è una circolazione di reciproca amicizia, di stima e responsabilità, che fa scoprire al giovane la centralità della sua persona, aiutandolo nel contempo ad andar oltre la realtà del quotidiano. Essa lo tocca più profondamente, quando è tutto un ambiente, carico di vita e ricco.
I giovani hanno bisogno di ambienti in cui ritrovarsi, sentirsi a loro agio, confrontarsi in esperienze qualificate e significative di gruppo; ambienti che li aiutino a verificarsi, a costruirsi un criterio di giudizio, che sappia discernere il bene dal male, a sperimentare la sicurezza che danno «i valori» legati non a una ideologia ma alla persona di Gesù Cristo. Per «ambiente» non intendiamo solo le strutture educative oratoriane o parrocchiali (che ci vogliono!) quanto un clima che invita, affascina, attrae per i rapporti impronta- ti alla confidenza e allo spirito di famiglia; per la gioia e la festa, che si accompagnano alla laboriosità e al dovere ben compiuto; per le espressioni libere e molteplici del protagonismo giovanile; per la presenza amicale degli educatori, che sanno fare proposte e sanno illuminarle della luce del Vangelo, alla quale attingono per dare «un tocco di Dio» a quanto viene elaborato.
Don Bosco è stato un «mago» nell’inventare questi ambienti in cui educazione e fede si fondono, dove i giovani si sentono missionari dei giovani. Ed era esigente sulla loro qualità educativa tanto da non esitare a prendere decisioni anche sofferte nei confronti di giovani e collaboratori, che in qualche modo rifiutavano o cornpromettevano l’ambiente educativo. Nell’incontro personale dell’educatore con i giovani, dei giovani con un ambiente che spinge e sollecita le energie giovanili, maturano esperienze esemplari di fede.
don Vittorio Chiari
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