Cosa c'entrano le emozioni con docenti, studenti e programmi?

La loro mente rimane aperta all'universo; il loro desiderio distingue e riconosce istintivamente il vero dall'artificioso, la giustizia dall'ingiustizia, il bene dall'utile, il bello dal brutto...

Cosa c'entrano le emozioni con docenti, studenti e programmi?

da Quaderni Cannibali

del 29 settembre 2010

          

           I giovani d’oggi scatole nere sì, scatole nere no. Due, a nostro avviso, gli ordini di problemi.

           Il primo. I giovani d’oggi (considerando insieme adolescenza, preadolescenza e infanzia senza confonderle) vogliono essere presi sul serio ed essere stimati; la loro mente rimane aperta all'universo; il loro desiderio distingue e riconosce istintivamente il vero dall’artificioso, la giustizia dall’ingiustizia, il bene dall’utile, il bello dal brutto.

           Il nucleo antropologico è un nucleo intatto. È quello della persona, non solo del soggetto e meno ancora dell’individuo. I ragazzi d’oggi, dunque, sono conoscibilissimi, a maggior ragione per il fatto che, tutto ciò che fanno o non fanno, pensano o non arrivano a pensare, sentono o non immaginano di poter sentire, giudicano o non giudicano, tutto in loro - nel bene e nel male - è segno di come e quanto questo nucleo si sia o meno sviluppato, e sia o meno diventato capace di dialogare, di competere e di contrapporsi agli imperativi categorici dell’economia, della società, dei media, della mentalità diffusa.

           Tutti i problemi sorgono un istante dopo. Ad esempio prendere sul serio le loro gioie, le loro tristezze, i loro successi o le loro difficoltà, fino a prendere sul serio loro stessi, fa vibrare immediatamente le corde della percezione, ch’essi hanno, di essere persona unica, intangibile, inalienabile, sublime. Eppure nell’istante successivo, quando realizzare tale percezione richiederebbe la consapevolezza e il coraggio di scelte decise reiterate nel tempo e la responsabilità di sé, dei propri pensieri e delle proprie azioni, allora essi vengono meno. Quel nucleo, pur intatto, non emerge e non viene tirato fuori, non cresce, non fiorisce, non dà frutto.

           Perché? Perché la possibilità ch’esso fiorisca sta tutta in un processo educativo in atto, inteso nei suoi pilastri portanti: quello disciplinare (la conoscenza fino alla maestria della propria materia d’insegnamento); quello didattico (la conoscenza completa degli strumenti attualmente a disposizione, da quelli tradizionali a quelli digitali, di traduzione-tradizione del sapere proprio al sapere dell’altro); quello antropologico (la conoscenza fino al dettaglio della struttura umana, che nel processo educativo deve potersi modificare per crescere fino alla capacità generativa); infine – the last but not the least – quello della professione docente: sia la conoscenza motivata dei tratti distintivi del ruolo docente (in primo luogo la consapevolezza ed esperienza del senso in-segnato; in secondo luogo l’autorevolezza, perché il docente insegna, e non è ricercatore tra pari; e in terzo luogo la capacità educativa o di generazione nello studente dell’attitudine abituale alla verifica personale ed esistenziale del senso in-segnato), sia la possibilità e le modalità di acquisizione delle relative competenze.

           Fin qui tutti o quasi potrebbero convenire. Ciò che invece in genere manca nell’attuale dibattito educativo è il come gli innumerevoli problemi, che i docenti si trovano ad affrontare quotidianamente, siano risolvibili in quest’ottica e perché.

           Facciamo un esempio. Niente soddisfa i ragazzi se non nell’istante, da qui la continua necessità di trovare qualche cosa di nuovo ed eccitante, per cacciare la noia. Poi: i ragazzi non rispondono delle proprie azioni; è venuta meno la capacità di responsabilità personale. Oppure: non esistono più rapporti duraturi nei quali abbiano imparato a stare dentro, a fidarsi e a maturare. Infine: i ragazzi, fuori da un rapporto dal quale solo possa venire un bene, ricercano e identificano il bene con quanto viene loro proposto dall’industria mediatica. Tutto vero. Ciò che però facciamo fatica a cogliere è come tutti questi problemi non siano tra loro distinti e quindi da affrontare separatamente, ma costituiscano volti diversi di un unico problema, in questo caso di un’unica dinamica, quella emotiva (antropologicamente intesa, non psicologicamente interpretata), che a sua volta è elemento essenziale di un modello antropologico, che la contempla insieme ad altri.

           Infatti la noia è la risposta negativa di un’intelligenza sulla realtà, che si chiede, se ciò che ha di fronte risponde al proprio bisogno o no. La risposta opposta alla stessa domanda quale sarebbe? Il piacere di imparare; la soddisfazione di diventare capaci di qualcosa di nuovo; la squisitezza di un libro letto; il gusto del sapere. Gusto-noia nascono da una stessa domanda, che se correttamente educata porta, nel prosieguo della stessa dinamica e attraverso diversi stadi di sviluppo intermedi, all’ulteriore domanda: colui che ho di fronte risponde al mio bisogno di essere voluto, di essere voluto bene, di essere amato, di essere stimato?

           La risposta positiva è costituita dalle innumerevoli modalità di relazionalità positiva (chi parla la lingua italiana ne concettualizza quarantuno), mentre la risposta negativa è costituita dalle innumerevoli modalità di relazionalità negativa (chi parla la lingua italiana ne concettualizza quarantanove).

           Nuovamente nel prosieguo della stessa dinamica e attraverso ulteriori stadi di sviluppo, l’essere umano, giovane o meno che sia, arriva a percepire il bene, che solo può provenire dal bello, dal vero e dal giusto, imparando quotidianamente, se sollecitato a farlo (qui però voltiamo lo sguardo sul versante della professione docente) a distinguerlo da un bene solo apparente, perché di diversa provenienza. La dinamica emotiva nel suo completo sviluppo arriva infatti alla capacità morale. Chi poi sappia connettere tale dinamica a un’ulteriore elemento antropologico, quello della volontà, educa alla responsabilità, che altro non è che rispondere alla realtà perseguendo il bene conosciuto.

           Quando perciò diciamo, che il processo educativo nei suoi pilastri portanti (il nostro esempio verteva su parte di quello antropologico) fornisce la soluzione alle difficoltà educative di ogni livello e complessità intendiamo dire che esso illumina i problemi, e ce ne mostra la continuità, le connessioni, i rimandi, il significato e quindi ci mette nelle condizioni di trovare le soluzioni. Soluzioni già praticate, delle quali è già stata verificata l’efficacia.

           Questo non significa avere la bacchetta magica. Le soluzioni sono da declinare più o meno faticosamente nel proprio contesto; sono da precisare; da approfondire; da affinare; sono continuamente da aggiornare. Però la strada all’uomo, che ci riporti l’uomo, oggi esiste ed è percorribile. Nessuna scatola nera.

           Il secondo ordine di problemi, a nostro avviso, consiste nel fatto che non sarà un sistema a dissotterrare i talenti di ognuno, pochi o tanti che siano, ma che solo un sistema potrà garantire quelle condizioni istituzionali, ordinamentali, organizzative, amministrative, a cominciare da quell’azione originaria neppure prevista, che è proprio lo spazio di conoscenza del processo educativo, senza le quali la maggior parte dei tentativi di istruire, formare, educare dissotterrando i talenti, è semplicemente resa impossibile. E a questo proposito varrebbe la pena di sistematizzare le condizioni già individuate.

Manuela Cervi

http://www.ilsussidiario.net

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