Cosa succede ai nostri ragazzi?

La scuola è chiamata a riflettere su quale identità vuole assumere e su quale personalità vuole definirsi, enunciando chiaramente regole e prassi, fondando nel miglior modo possibile il senso della reciproca appartenenza, quindi sviluppando adeguatamente ascolto e comunicazione, ad ognuno chiedendo il 'meglio'...

Cosa succede ai nostri ragazzi?

da Quaderni Cannibali

del 08 maggio 2007

È capitato spesso, recentemente (in seguito a molti episodi di bullismo, microcriminalità, violenze sessuali tra adolescenti), di sentire ripetere “Ma cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?”

E gi√π a seguire inchieste, dibattiti, analisi pertinenti e non di esperti, la scuola colpevolmente di mezzo.

Niente, non sta succedendo niente di ciò che noi adulti non vogliamo; e, forse, se anziché lasciarci andare ad esagitate indignazioni e a improvvisate reprimende, avessimo la forza, il coraggio e la voglia di analizzare il famoso “quel che ci sta a monte” con l’intenzione di capirlo e di tenerne criticamente e strategicamente conto, certamente trarremmo le migliori indicazioni per contenere l’analfabetismo dei sentimenti e il malgoverno emozionale che sta irretendo i nostri figli dopo aver circuito e sedotto maldestramente noi stessi.

L’episodio di violenza sul ragazzo disabile nell’istituto torinese, gli stupri condotti da bande di ragazzini su compagne bambine, i film hard girati tra adolescenti consenzienti, hanno drammaticamente evidenziato il male che sta inesorabilmente attraversando il cuore di una parte della nostra gioventù, essendo il segnale pestifero di una condizione che sta debordando sempre più; essendo l’evidente riflesso di una latitanza di valori comunque diffusa e che sta lì a rinfacciarci il peso della disattenzione affettiva, educativa e formativa non solo delle famiglie. Singolare ed emblematico, peraltro, appare il ruolo il ruolo che ha avuto il telefonino in quasi tutte queste vicende: specchio per un perverso narcisismo, diffusore di virus voyeuristici, espediente per affermare tecnologicamente la propria presenza (attori e spettatori di se stessi) per contrastare il dubbio di non essere nessuno. Non meno singolare l’uso di internet, che introduce in un oceano in cui le sirene cantano per indirizzare verso un altrove sempre più vago, in cui il ricorso all’anonimato sembra proteggere anche le più nefaste intenzioni, solleticando baldanze e tracotanze al di fuori di ogni regola morale, dove il naufragio si coniuga con la codarda eccitazione del rischio.

All’indomani della scoperta della violenza al disabile, così bellamente in mostra tra i video “divertenti” da scaricare, su La Repubblica Umberto Galimberti ha scritto: “L’umanità ha fatto un percorso lunghissimo per passare dalla violenza del gesto alla discussione con la parola.

Oggi stiamo spaventosamente regredendo. E costruendo fin dalla più tenera età ragazzi che cercano la loro identità nella forza. Non nella forza del del carattere, e neppure nella forza del pensiero, ma nella forza del muscolo, naturalmente dopo aver opportunamente valutato che la propria forza superi quella dell’altro. E nel loro cuore latita non dico l’amore, sentimento troppo sofisticato per i loro cuori, ma la commozione che non devi fare nessuno sforzo per trovare. Viene da sé, tocca il tuo cuore per il semplice, e per giunta più svantaggiato di te. Senza cuore non è un’espressione patetica. Significa che in te non si è formato quel sentimento di appartenenza alla comunità umana già presente nel mondo animale, dove tendenzialmente  il simile non attacca il simile. Il senso di appartenenza non è una conquista culturale, è un dato naturale che accomuna tutte le specie e, al loro interno, la salvaguardia. Dobbiamo allora pensare che la nostra cultura sia così degradata da infrangere, sin dalla giovane età, non solo il precetto universale di amare il prossimo, presente in tutte le religioni, ma anche il ribrezzo naturale di accanirsi sul più debole? Sì. Dobbiamo pensarlo se è vero che quel video è tra i più visti sul Web.”

E in effetti, traguardando il disdicevole evento, qual è la differenza tra i ragazzi che hanno immesso il video nel circuito globale e chi si è “divertito” anche scaricandolo? Non possiamo cogliere in questo comportamento gli esiti di una televisione che fa spettacolo architettando scherzi ai danni di persone ignare o che sollecita risate malconce alle disavventure altrui, o che usa i disabili a scopo spettacolare, o che investe risorse ed energie per sollecitare pubbliche liti tra personaggi “famosi”, o che premia l’apparire senza talento di corredo? Colpevoli i ragazzi artefici della violenza, ma non meno colpevole l’improvvida televisione che fornisce squallidamente pretesti per circuire e sedurre la parte scura dello spettatore, colpevole anche il modo sgangherato di proporsi di certi politici detentori di una cultura da avanspettacolo, colpevole il disinvestimento morale di certi politici e valori che fino all’altro ieri erano gli argini naturali del viversi accanto, colpevoli i videogiochi che autori maligni incentrano sulla violenza gratuita.

Ancora più grave il ricorso sempre più  frequente allo stupro di gruppo, in cui la vittima prescelta è annullata, invasa e devastata senza ritegno e senza remore. Ma lo straziante campanello d’allarme non è forse nelle violenze che si consumano in famiglia? In quella madre che “cede” la sua bambina nel giorno del suo tredicesimo compleanno per un rito propiziatorio e che se la ritrova violata? O in quel padre che avvia alla prostituzione il figlio di otto anni per dividersi i guadagni con gli altri due figli? Nella tredicenne che ritrae, o fa ritrarre, parti di sé per venderle al telefonino secondo un preciso tariffario: tre euro per il seno, quattro per le zone intime, dieci per la figura intera?

Cosa sta succedendo ai nostri ragazzi? Sta succedendo quello che i tempi stanno preparando e determinando, rendendo instabili i diritti e privilegiando la brutta spettacolarità alla sobrietà, al valore, al buonsenso, alla solidarietà, quest’ultima utilizzando come giaculatoria assolutoria attraverso un susseguirsi ininterrotto di giornate dedicate a raccolte per questo e per quello.

Stiamo oggettivando il sentimento assoggettandolo alla logica dell’usa e getta. Il corpo si fa strumento per voglie imposte dell’esterno, per bisogni indotti, per miti perversi.

Di fronte a questo quadro, c’è da chiedersi in cosa consista l’eccellenza. Davvero si coniuga con i risultati di contenuto che possono favorire la scuola italiana nella graduatoria internazionale, o non piuttosto nella formazione morale del cittadino e, prima ancora, nella capacità di indagare se i fondamentali della natura umana sono presenti e attivi nei nostri ragazzi e farne quindi fondamento di riflessione, confronto, insegnamento? Se la TV è specchio di un’Italia da “tardo romano impero”, e insieme ai videogiochi insinua volgarità e violenza nel quotidiano dei nostri ragazzi, forse è il caso che la scuola insegni a prendere le distanze dal falso, dal gratuito e dall’egoismo per rivolgersi al sentimentale e all’emozionale che deve caratterizzare in modo permanente l’individuo, insegnando il rispetto per l’altro e, attraverso l’altro, anche il rispetto per sé.

Le puntualizzazioni dell’intelligenza emotiva di questi ultimi anni hanno chiaramente indirizzato l’attenzione verso le dimensioni intrapersonale ed interpersonale, inequivocabilmente evidenziando la necessità di guardare ai meccanismi psicologici che formano la persona e che la intercettano nel contesto sociale, sulla base di una dotazione critica che deve espandersi positivamente e responsabilmente.

Va bene, quindi constatare che i fenomeni di bullismo sono aumentati in maniera preoccupante gia fin dalla scuola dell’infanzia, ma oltre ad analizzare il fenomeno per correre ai ripari, vale molto più considerare l’opportunità di insegnare le “buone maniere” in maniera sistematica ed inequivocabile, facendone parte integrante e sostanziale del progetto formativo. Il che vuol dire curare il clima organizzativo, favorire un clima operativo sano e realmente integrante, premiare la buona disponibilità, prestare attenzione alle urgenze affettive prima che cognitive, fornire esempi di buona civiltà, fare apprezzare la diversità come valore di cui ognuno è portatore sano, incrementare la possibilità di conoscere gli aspetti della sofferenza che finisce col toccare tutti senza infingimenti né pietismi, costruire percorsi di crescita critica che inducano a tener conto dei diversi punti di vista, ad ognuno attribuire valore. In aggiunta, ma a sostegno di tutto, vuol dire curare la comunicazione, non tanto e non solo nella componente trasmissiva, ma in quella formativa, ossia nella parte che coinvolge la persona da dentro, nella parte che definisce l’incontro sia cognitivo che affettivo, nella parte che veicola le emozioni e che determina entusiasmo e motivazione, desiderio di conoscenza e comprensione della solidarietà.

“Quel che ci plasma o ci altera, - affermava il filosofo Günther Anders, - che ci forma e deforma non sono soltanto gli oggetti mediati dai mezzi di comunicazione, ma i mezzi stessi, i congegni stessi”. I mezzi di comunicazione non sono neutrali rispetto alla natura dell’uomo e questi non può utilizzarli illudendosi che la sua natura non si modifichi in base alle modalità con cui si declina tecnicamente. Anche questo dovremmo insegnare, per contrastare il simulacro dell’onnipotenza che ci proviene dai mezzi che utilizziamo e che, in realtà, non fanno altro che affermare il senso della solitudine affettiva.

Il bullismo c’è sempre stato, ma adesso è reso più tragico dal fatto che la nostra cultura popolare è tenuta sotto controllo dall’industria del consumo. Avverte Marco Lodoli dalle pagine di Repubblica (17 novembre 2006): “Non facciamo i finti tonti, vi prego, e non gettiamo sulle spalle curve della scuola anche questa colpa. Sono vent’anni almeno che l’immaginario della nostra società si struttura attorno alla violenza, al denaro, al cinismo, alla brutalità. Sono vent’anni almeno che gli insegnanti si trovano ad affrontare ragazzi ipernutriti da un cibo avariato che avvelena la mente, eccita a dismisura i desideri, accelera i tempi fino alla frenesia, cancella ogni pazienza ed esalta sempre e comunque una trasgressione senza scopi. […] Insomma, a quindici anni nella testa di un adolescente, come nella gola di un’oca, è già stata rovesciata una quantità spaventosa di schifezze. E dall’altra parte del fosso c’è la scuola, lavagne nere e gessetti, vecchi banchi allineati, professori vestiti così così, che arrivano in autobus o su macchine mezze scassate, e che assegnano compiti su cui studiare, che ripetono fino alla nausea che la vita è dura, che bisogna studiare, concentrarsi, perché nulla ci viene regalato, perché anche le passioni prevedono sacrifici, costanza, tempi lunghi.

Sono due mondi che inevitabilmente entrano in collisione, e non è difficile intuire qual è il vaso di coccio e quale il vaso di ferro. […] La scuola non può non apparire agli occhi dello studente che come una perdita di tempo, un posto lento, dove si imparano cose inutili, che non aiutano affatto a tenere sempre viva e zampillante l’adrenalina.

La scuola sembra il contrario della vita. […] L’adolescente non tollera la sua età, non può accettare di restare immerso nelle lunghe stagioni dell’apprendistato, nella vaghezza di un tempo dove tutto accede piano piano: vuole dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stesso che la sua volontà di potenza, accuratamente fomentata dal mondo, non si ferma davanti a nulla, figuriamoci davanti alla compassione”. Con questa prospettiva, la scuola non può tenere il passo con la cultura dominante; “è una gara persa in partenza, una gara falsata”.

Eppure la scuola deve fare qualcosa, e non solo perché sospinta dall’emergenza; più ancora perché deve saper definire il suo quadro di funzionamento con l’intenzione di rieducare la maleducazione culturale e sentimentale, secondo un percorso chiaro e concreto, che riscontri i fondamentali della natura umana per arricchirli degli strumenti della civiltà, della riflessione critica, della conoscenza della storia sostanziandoli della visione della interdipendenza e della reciprocità comunque sia l’altro.

Occorre severità, serietà e comprensione ; occorre fede e progettualità; occorre, più in particolare, coinvolgimento e coerenza che si sviluppino concretamente all’interno tra tutti i fruitori del servizio scolastico, siano essi gli alunni come gli operatori scolastici e gli stessi genitori.

Qualcuno afferma che il bullismo si può vincere se la scuola si fa competitiva, se riesce a stimolare desiderio di imparare e curiosità. Meglio ancora, la scuola può fare molto se riesce a far leva sulla creatività e a sviluppare la competitiva con se stessi.

Le ricerche di settore hanno evidenziato come le situazioni di maggior disagio siano prevalentemente riferibili ai soggetti maschi, ma registrano una prospettiva di crescita sempre più consistente ed allarmante per i soggetti femmine (incremento delle forme di anoressia in età precoce, partecipazione a “bande” di maschi, comportamenti devianti).

In particolare, i comportamenti a rischio sembrano correlarsi con:

-                            L’importanza attribuita all’esperienza scolastica e ai risultati conseguiti;

-                            La percezione dell’utilità della scuola;

-                            Il tempo dedicato alla lettura;

-                            Il tempo trascorso senza svolgere alcuna attività;

-                            Il tempo trascorso nei locali pubblici;

-                            Il valore attribuito ai messaggi pubblicitari e ai modelli premiati dai mass-media;

-                            Le incoerenze intra ed intersistematiche.

 

Il progetto della scuola, perciò, deve avere una impostazione integrata, in cui tutti si sentano responsabilmente coinvolti.

Ma occorre serietà, dicevamo, una serietà che non ceda a lusinghe e che favorisca nello studente la prassi di mettersi continuamente e saggiamente in discussione, già a partire dalla scuola dell’infanzia.

La scuola è chiamata a riflettere su quale identità vuole assumere e su quale personalità vuole definirsi, enunciando chiaramente regole e prassi, fondando nel miglior modo possibile il senso della reciproca appartenenza, quindi sviluppando adeguatamente ascolto e comunicazione, ad ognuno chiedendo il “meglio” che è in grado di dare per farlo evolvere al massimo grado possibile.

Lorenza Carelli

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