Cose che nessuno sa

«Una volta ho sognato una donna bellissima, vestita di un cappotto bianco. Mi guardava e sorrideva. Le ho chiesto: “Da dove viene la tua bellezza?”. E la donna mi ha risposto: “Un giorno piangevi e io mi sono strofinata il viso con le tue lacrime”

Cose che nessuno sa

da Feste dei Giovani

del 04 novembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

D'Avenia e il padre che svanisce 

«E' scomparsa la figura simbolica che rappresenta l'autorità, quella che dice ai figli cosa devono fare».  

          'Cose che nessuno sa' (Mondadori, 332 pagine, 19 euro), il secondo romanzo di Alessandro D'Avenia. Il primo, Bianca come il latte rossa come il sangue, uscito nel gennaio del 2010, è stato un successo strepitoso: quattrocentomila copie vendute in Italia, venti traduzioni all'estero, un film che uscirà l'anno prossimo. Parlava di quell'età meravigliosa e difficile che è l'adolescenza, ed era riuscito nel miracolo di farsi leggere sia dai ragazzi, sia dai genitori. Cose che nessuno sa va ancora più nel profondo, e scava in una delle grandi colpe rimosse del nostro tempo: l'assenza del padre, o la sua sciatta presenza, che è quasi la stessa cosa.          Trentaquattro anni, insegnante di lettere in un liceo di Milano, Alessandro D'Avenia ci racconta di una mail che dice molto dell'attesa che s'è creata su questo suo secondo romanzo: «Una ragazza mi ha scritto che non vede l'ora di leggerlo perché ha un padre che torna a casa dal lavoro tardi, è sempre stanco, non parla, e appena trova un po' di tempo va a curare un campo dove ha piantato degli olivi. Così lei si chiede se è meno importante di un pezzetto di terreno».Quanti ragazzi si possono ritrovare in una mail come questa?

«A volte mi chiedo perché non vedo mai i padri ai colloqui a scuola. Vengono sempre le mamme. Perché? Perché gli uomini sono al lavoro? Ma no, questo valeva una volta, non adesso che lavorano anche le donne. Credo che i padri non si rendano conto di quanto i ragazzi abbiano questo desiderio, questo bisogno. Dovreste vederli, in classe, come sono orgogliosi quelle rare volte che i papà vengono ai colloqui. Glielo leggi in faccia che pensano: per mio padre oggi sono stato più importante io del suo lavoro».Chi, fra noi padri, non si sente chiamato in causa? Forse siamo la prima generazione che ha abdicato al compito di educare la successiva: educare nel senso etimologico, cioè «condurre, trarre fuori» dai figli le potenzialità, il tesoro che hanno dentro, per aiutarli ad affrontare la vita. «In questo momento - ci dice D'Avenia - la nostalgia della società intera è quella dell'assenza di un padre, con la minuscola e con la maiuscola. Non parlo solo dei padri biologici. Anche nel mondo del lavoro soffriamo e paghiamo l'assenza di padri, intesi come maestri. Perché il mio primo libro ha avuto così tanto successo? Perché uno dei protagonisti, il professore, è uno che vuole fare il padre, che si fa carico dei ragazzi che gli sono stati affidati.«Oggi i due profili dell'adolescente sono: o Narciso, o la totale disistima di sé. Sono due poli che dipendono entrambi dall'assenza di un padre. Se io oggi credo in me, non è perché sono presuntuoso, ma perché sono stato amato moltissimo. Innanzitutto dai miei genitori, e poi da altri che si sono presi cura di me. Penso a due miei professori del liceo di Palermo: uno era quello di lettere, l'altro era padre Puglisi. Tutti e due hanno dato la vita per i loro ragazzi, padre Puglisi addirittura fino a farsi ammazzare.«Oggi non è solo un problema di assenza fisica. È scomparsa la figura simbolica del padre, quello che rappresenta l'autorità, che dice ai figli che cosa devono fare senza aprire una trattativa. Il padre è quello che quando ti insegna ad andare in bicicletta, sta a qualche metro di distanza e ti dice 'se hai bisogno, io sono qua, ma tu vai da solo'. Molti uomini oggi fanno cose che un tempo i padri non facevano, cambiano i pannolini e fanno i bagnetti, e se devono insegnare al figlio ad andare in bicicletta, lo tengono per un braccio perché hanno paura che cada: ma così non si fa il padre, si fa la mamma-bis».Poi c'è il dramma delle assenze più, come dire, carnali. La protagonista di Cose che nessuno sa è una ragazza di quattordici anni, Margherita, che decide di andare alla ricerca del padre fuggito da casa. Affascinata dal suo professore che gli presenta l'Odissea come se fosse proprio la sua storia, come Telemaco Margherita va alla ricerca del genitore, e alla fine sarà lei, non il padre, a portare la ferita di Ulisse.«Quando entri in classe» racconta D'Avenia, e qui a parlare è più il professore che lo scrittore, «vedi subito la differenza tra gli occhi di chi ha i genitori separati e quelli di chi una famiglia ce l'ha: magari tribolata, ma ce l'ha». Ed è qui che Cose che nessuno sa passa inevitabilmente dal tema del padre a quello dell'amore: se tanti padri scappano come il papà di Margherita, è perché abbiamo smarrito la percezione della bellezza del «per sempre». «Oggi i ragazzi danno per scontato che un amore sia necessariamente 'a tempo'. E io dico loro: scusate, ma voi quando fate una dichiarazione d'amore che cosa dite, voglio stare con te fino al 2013? Tutti mi rispondono 'Nooo, sarebbe bruttissimo!'. E allora io dico: visto che lo intuite anche voi? Il bello dell'amore è la durata, è il resistere».È il punto di vista di un credente? «In un libro a me molto caro, Lettera a D., André Gorz, ateo, arrivato alla fine dei suoi anni, scrive alla compagna della sua esistenza che 'se per assurdo avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme'. È partendo dall'umano, e non da un Dio, che si percepisce quanto, come diceva Nietzsche, l'amore voglia profonda eternità». Ma non pensate che il romanzo di D'Avenia sia un sermone sui doveri del padre e sulla fedeltà. Al contrario, alla fine quel che prevale è uno sguardo di misericordia sull'uomo, alle prese con l'incompiutezza di un mondo che non si può definire in uno schema perché ci sono troppe «cose che nessuno sa». Misericordia, e un grande amore per la vita nonostante le sue ombre.

Michele Brambilla

  

Il ritorno di D'Avenia ... sui padri perduti  

Un narratore sconosciuto che esplode alla prima prova, come Alessandro D’Avenia con Bianca come il latte, rossa come il sangue, e inoltre si fregia anche di un nome elegante e scorrevole, tanto calzante da sembrare uno pseudonimo, non può che aspettarsi sopracciglia alzate e molti «sì, però...» al secondo libro. La cosiddetta 'società letteraria italiana' è smilza, gelosa e percorsa da brividi di robusta invidia. Si sgomita per una segnalazione, si ucciderebbe per ottenere quello che il bravo D’Avenia ha ottenuto in un soffio, con grazia spavalda e sofferta: lettori appassionati ed esigenti, un identificarsi amoroso e selvaggio di moltissimi giovani, che lo vedono come un maestro (e a ragione: la capacità di questo giovane scrittore di trasmettere ai suoi lettori versi e voci della grande poesia e della grande letteratura ha del prodigioso: si vede bene quanto li ama, i suoi classici, di quell’amore religioso e umile che li rende sempre nuovi).

E invece la scommessa del secondo libro (Cose che nessuno sa, Mondadori, pagine 332, euro 19, in libreria dal 2 novembre) mi pare sostanzialmente riuscita. Anche perché si appoggia robustamente su alcuni 'miti fondanti' di grande tenuta emotiva, capaci di generare immagini forti, che giacciono nel profondo di ciascuno di noi. Prima di tutto c’è Omero, e un’Odissea resa contemporanea, rivissuta e riamata, come è giusto che si amino i grandi libri. Margherita, la quattordicenne protagonista, ascolta dal suo professore, che per lei diventa veramente psicopompo, la storia di Telemaco, il figlio dell’eroe, che deve andare alla ricerca del padre Odisseo, lontano da lunghissimi anni. Quella storia diventa la sua; quelle parole immortali, Margherita sente che sono state create per lei. Allora se ne appropria, e le usa per comprendere il proprio smarrimento e il proprio dolore per la fuga del padre amatissimo: e del personaggio di Telemaco fa il suo modello e la sua guida. E così si abbandona a una fuga generosa e folle, verso Genova, verso il mare dove il padre ha un suo rifugio: da là non risponde e non dà cenni di vita, ma la figlia è sicura di trovarcelo. La accompagna il secondo protagonista, Giulio, un ragazzo abbandonato dalla nascita, chiuso in un’autosufficienza maligna che cela una disperazione profonda. Ma con Margherita si sono guardati, di uno sguardo che si è inciso nell’anima di entrambi con forza straziante, adulta. Un altro grande mito (che si intensifica e si giustifica nella seconda parte, man mano che la trama si fa più lineare e drammatica) è quello della perla, e si gioca fin dall’inizio sul nome: margarita in latino (ma anche in antico italiano) vuol dire appunto 'perla'.

D’Avenia ha molto riflettuto sulla magica, lenta opera della conchiglia che secerne strati e strati di madreperla per avvolgere il predatore che si è annidato al suo interno, e sul modo in cui dalla bruttezza mortifera di un male esce alla fine la bellezza translucida e vivente di una perla perfetta, col suo luminescente chiarore. E attribuisce alla sua protagonista, inconsapevole di sé ma carica di destino, la capacità silenziosa ma smisurata di fare del suo dolore un centro di forza, ponendosi al centro delle vite e dei destini di tutti i personaggi che la circondano. Questa centralità si snoda pagina dopo pagina lungo tutto il libro, ma si rivela con la massima chiarezza verso la fine, quando la ragazzina è in coma dopo un brutto incidente, ma 'sente' la forza dell’amore che salva, e riannoda i destini di tutti, come tenendosi in equilibrio su una corda da funambolo, tesa nel cielo del suo sogno, nel mondo silenzioso e vigile in cui si trova: «Sentiva l’urgenza di piangere, ma le lacrime non potevano uscire. Allora cominciarono a fluire dentro di lei, calcificandosi lentamente attorno al predatore». Se la piccola Margherita è la perla, allora è intorno a lei che tutte le vite degli altri si riordinano, almeno provvisoriamente: «La più fragile di tutti su quel filo stava portando ciascuno di loro lassù, a considerare quanto fossero fragili. L’unica forza per stare in equilibrio sul filo della vita è il peso dell’amore». Margherita è il funambolo che «trasforma la gravità in leggerezza, il peso in ali». Il terzo tema che percorre tutto il libro, sottotraccia ma fortissimo, è il mito dell’isola, incarnato nella nonna siciliana. Anche Teresa conserva un segreto, che sarà svelato solo nelle ultime pagine; ma la sua sola presenza è affascinante e riequilibra il libro sul versante della quotidianità, là dove la preparazione del cibo si confonde con la luce ferma e i mille proverbi, gli odori e i sapori della Sicilia. Le confidenze dei nipoti si intrecciano agli ingredienti delle torte; la preparazione della cassata è un pezzo di bravura di straordinaria efficacia. E non è un caso che il libro si concluda proprio nella casa sull’isola.

La lingua di D’Avenia è soave e sfrangiata, ma sempre appoggiata su una cultura profonda e profondamente amata; ma alcune frasi, come il titolo, ricorrono più e più volte, come i ritornelli delle ballate e delle canzoni ottocentesche, a screziare la compattezza del testo con misteriosi echi musicali.

Antonia Arslan

Antonio Arsan

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