Così l'Uganda sta vincendo la lotta all'Aids senza preservativi

“Chi pensa di salvare l'Africa con i preservativi è fuori dal mondo. Qui Non abbiamo medicine, si muore di malaria, di dissenteria. E ci vogliono mandare i preservativi. Ma che coraggio hanno di fronte al mondo di dire che il bisogno dell'Africa è un preservativo? E' la libertà che muove la persona, se uno la usa male..."

Così l’Uganda sta vincendo la lotta all’Aids senza preservativi

 

          “Il problema è capire se la vita ha un senso. Solo così posso volere bene a me e a chi ho davanti. E’ allora che lo proteggo, che faccio di tutto perché non si ammali”. Rose Busingye passa la sua vita ad accogliere e curare gli ammalati di Aids assieme all’ong Avsi al Meeting Point di Kampala, la capitale dell’Uganda. Rose è un’infermiera ugandese, e sa bene di cosa si tratta quando si parla di Africa, Hiv e preservativi. “Il problema è se la vita ha un valore, un significato, altrimenti non c’è preservativo che tenga”. In Uganda dal 1986 sono morte quasi un milione di persone (e più del doppio sono rimaste infettate) per il virus dell’Hiv. L’Uganda è però anche il primo paese del continente nero ad avere attuato una politica vincente nella lotta all’Aids: in pochi anni si è passati dal 21 per cento della popolazione infetta al 6,4 per cento di oggi. “Lo abbiamo fatto – spiega Rose – senza distribuire preservativi a tutti, ma educando le persone. Anche grazie al nostro presidente”.

          Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda, ha preso di petto la questione dell’Hiv fin da subito: “Ha chiesto di tornare alle nostre origini culturali – continua Rose – ha voluto che si lavorasse per il cambiamento delle persone. Una volta, durante un seminario, si discuteva di come affrontare il dilagare della malattia e la moglie del presidente è andata su tutte le furie quando ha sentito dire che la soluzione erano i profilattici. L’uomo non è come un cane che non riesce a trattenersi, diceva, ha la ragione, può smettere di vivere come un animale”. Così (come racconta anche il libro “Lo sviluppo ha un volto”, a cura di Roberto Fontolan, edito da Guerini) si è cominciato ad andare nei vari villaggi a insegnare, ad esempio, che chi ha una vita sessuale ordinata non rischia di prendere l’Hiv, che l’astinenza e la fedeltà al partner sono fondamentali e che in certi casi particolari è anche opportuno usare il preservativo.

          Nulla di diverso dalle parole del Papa: “Se non c’è l’anima, se gli africani non si aiutano, non si può risolvere il flagello con la distribuzione di profilattici: al contrario, il rischio è di aumentare il problema. La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro, e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto con le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, a essere con i sofferenti”. Nulla di diverso da quello che racconta Rose: “Non sappiamo amare, viviamo definiti dall’istinto. E quando uno non si sente amato non può amare nessuno, usa se stesso e gli altri. A uno infettato dall’Hiv non interessa nulla proteggere gli altri se non sa che la sua vita ha un valore, un significato. Quelli che attaccano il Papa non sanno cosa dicono”. O forse lo sanno benissimo. “Tu vali più di un preservativo, il bisogno dell’Africa non sono i preservativi. Se lo pensi sei fuori dal mondo”, dice.

          Rose incalza: “Qui Non abbiamo medicine, si muore di malaria, di dissenteria. E ci vogliono mandare i preservativi. Ma che coraggio hanno di fronte al mondo di dire che il bisogno dell’Africa è un preservativo?”. Le chiediamo se quindi sia un problema di educazione: “Si educa solo a ciò che si è”, risponde. In altre parole? “Bisogna risvegliare la coscienza dell’uomo: quando uno è voluto bene subito si accorge di quello che vuole, senza bisogno di fargli la lezione. L’uomo è un bisogno infinito di capire cos’è la giustizia, la bellezza, la felicità”. Rose racconta che tante persone che passano dal suo centro magari per un giorno poi non vogliono andarsene: “Se uno incontra anche solo un piccolo occhio che lo guarda per quello che è non può non riconoscere di essere fatto per queste cose. Puoi stare anni a insegnare come si usa il preservativo, ma se si è guardati con dignità basta un secondo per cambiare. Quando gli ammalati sentono che secondo te il loro bisogno è un preservativo se ne vanno, lo sanno che la loro vita è molto più grande. Non è un pezzo di lattice che salverà l’Africa, siamo seri. E in Uganda, dove il presidente si è opposto a questa idea, abbiamo abbattuto il numero di infezioni, tanto che adesso l’Hiv è soprattutto una malattia dei più ricchi, non dei poveri”.

          Secondo Rose, il mondo dovrebbe avere il coraggio di parlare dell’origine della malattia, non di come contenere gli effetti di un comportamento di cui la malattia è diretta conseguenza. “E’ la libertà che muove la persona, se uno la usa male non può poi accusare la mancanza dei preservativi. Questo è un modo sbagliato di usare la ragione”. Ciò che impressiona è come le parole di Rose siano gravide di conseguenze nei fatti: al Meeting Point le donne infette dal virus dell’Hiv ballano, cantano, lavorano tutto il giorno; stanno talmente bene che all’inizio nessuno credeva che avessero bisogno di cibo e medicine, e solo dopo avere fatto il test a ognuna di loro si sono ricreduti. Parla di “ideologia”, Rose: “Si pensa che la vita umana sia definita solo dal sesso, ma questa è ideologia, nel senso che è l’esaltazione di un singolo aspetto umano”.

          A questo punto racconta di quando ha insegnato alle sue donne come si usano i preservativi: “Abbiamo letto insieme le istruzioni: occorre una temperatura esterna non troppo alta, bisogna lavarsi, stare attenti perché basta un po’ di polvere per romperlo, ecc. Le mie donne mi hanno guardato e mi hanno detto: ‘Rose, quanti gradi ci sono in Africa? Quante case hanno il rubinetto per lavarsi?’. Poi mi hanno fatto vedere le loro mani: ruvide e rovinate dal lavoro nella cava, affilate come un sasso. E se basta un po’ di polvere per rompere il preservativo… Capisci? Non hanno neanche le lenzuola, i letti, l’acqua – ride – E pensano di salvarci con i preservativi!”. Si ferma, torna seria: “Bisogna smetterla di parlare per niente, senza sapere di cosa si sta parlando”. Sia l’opera grandissima in cui lavora Rose a Kampala sia i risultati dell’azione governativa sembrano dare ragione alle parole di questa piccola donna sempre sorridente: “L’uomo è fatto per essere amato e per amare, e ha la libertà. La sua soddisfazione totale non è nel sesso. In Uganda abbiamo combattuto senza preservativi ma per il cambiamento delle persone”.

          Astinenza e fedeltà le parole d’ordine. Sembra impossibile al mondo laico del Vecchio continente. E invece sembra essere l’unica via per combattere con successo questa piaga. Ma una cosa del genere è possibile solo là dove c’è la chiesa? “Sì – dice Rose – perché chi riconosce che l’umano ha un valore è la chiesa”. Il presidente ugandese non è cristiano, però. “No, ma è un uomo”. Il viaggio del Papa in Africa ha scatenato l’ennesimo dibattito sull’opera della chiesa in quelle terre: “Qua tutti sanno che Benedetto XVI ci vuole bene, non abbiamo dubbi. I dubbi piuttosto ce li abbiamo su chi ci manda i preservativi invece dell’aspirina. Su chi riconosce che siamo esseri umani non abbiamo dubbi”. Rose ha perso tutti i parenti nel genocidio in Ruanda: “Dov’erano quelli che vogliono salvarci con i preservativi? Cos’è un preservativo di fronte ai morti che ho visto in Ruanda? Ammettano che sono loro gli sconfitti invece di volere salvare noi. Forse pensano che non lo capiamo, ma anche noi africani abbiamo il cervello, sappiamo usare la ragione”. Quegli stessi accusano il Papa di attentato alla vita dell’Africa: “Non ha senso attaccare una persona disarmata che ama così tanto la vita della gente”.

 

 

Piero Vietti

 

http://www.ilfoglio.it

Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)