Una rana crocefissa al posto di Cristo, esposta al Museo di arte moderna di Bolzano e un materasso con un secchio, meloni, arance, cetrioli, opera intitolata Au Naturel: sono solo due dei tanti esempi che si possono addurre per mostrare rispettivamente la provocazione che si traduce in deliberata blasfemia o la moda artistica che consacra la bruttezza e l'ostentazione..
del 06 giugno 2011
 
          Una rana crocefissa al posto di Cristo, realizzata da Martin Kippenberger ed esposta al Museo di arte moderna di Bolzano nell’agosto 2008, un materasso con un secchio, meloni, arance, cetrioli, opera intitolata Au Naturel (1994) dell’artista Sarah Lucas: sono solo due dei tanti esempi che si possono addurre per mostrare rispettivamente la provocazione che si traduce in deliberata blasfemia o la moda artistica che consacra la bruttezza e l’ostentazione.           «Bello è il brutto e brutto il bello» sentenziavano le streghe nella tragedia shakespeariana Macbeth e profetizzavano, così, quanto sarebbe, poi, effettivamente accaduto nella contemporaneità. Il ribaltamento nella concezione estetica è, qui, presentato come sintomo, il più conclamato, della corruzione e della degenerazione dell’epoca. Il verso pronunciato dalle streghe potrebbe, allora, essere parafrasato «il bene è male e il male è bene» a sottolineare lo stravolgimento per cui l’indecenza, la volgarità e il brutto sono diventati oggetto costante di rappresentazione nella maggior parte dei circuiti mass mediatici.           Evidentemente, in un’età come la nostra, non sono, certo, solo i premi artistici o i concorsi culturali a promuovere la diffusione del brutto e l’eversione dai canoni culturali ed etici tradizionali. I canali oggi privilegiati e più responsabili nella propagazione di una mentalità che diventa habitus consolidato sono ormai proprio quelli massmediatici di maggior uso, ovvero televisione, internet, riviste. Questi canali negli ultimi anni hanno consolidato, spesso, il dominio dell’informale (l’assenza della «forma» che nell’antichità era sinonimo di «bellezza»), dell’incompetenza o della iper specializzazione (per cui si ricorre sempre all’esperto), dell’oscenità, della violenza, della provocazione ad ogni costo e dello squallore pornografico. Insomma, è un’epoca la nostra in cui sembrerebbe, almeno in apparenza, affermarsi il dominio del brutto. L’uomo sembra quasi attratto e sedotto dal brutto. Perché? « L’immagine volgare, brutta, non chiede apprendimento, educazione: essa è più facile da recepire di una culturalmente costruita, di una bella. In quest’ultima c’è un’idea di progetto, una visione che impegna nella costruzione di un mondo possibile, nell’altra c’è nichilismo, dissoluzione che si accoglie con una sguaiata risata dissacratoria» (Stefano Zecchi).           Anche le persone istruite ed «educate al bello» non sono immuni dall’attrazione del brutto, o meglio non riescono spesso a liberarsi dal consumo di prodotti squallidi, bassi ed osceni, emblema di quella degenerazione della cultura e dell’arte contemporanea, che ha portato all’affermazione graduale del trash. Proveremo ora a sintetizzare le tappe fondamentali di questo processo.           Il primo passaggio avviene tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX quando la rivoluzione industriale porta alla produzione in serie attraverso la catena di montaggio. Questo nuovo processo di produzione influisce profondamente anche sull’idea di unicità dell’opera d’arte e di razionalizzazione del processo artistico. Così, Antonio Canova riproduce più volte lo stesso soggetto. Nell’iter di realizzazione dell’opera lo scultore include una prima fase di ideazione dello schizzo, una seconda di realizzazione della statua in terracotta o in gesso di misura inferiore all’opera conclusiva (la statua viene punterellata da fori che individuano le lunghezze di alcune parti anatomiche in modo tale che, poi, l’artista possa riprodurre la statua finale più volte). L’ultima fase coincide con la riproduzione della statua in marmo in copie magari differenti solo per misura.           Il secondo passaggio si verifica a metà dell’Ottocento con l’affermazione del Kitsch, che deriva dal connubio tra l’inserimento del fatto artistico all’interno della logica della produzione industriale e il desiderio della classe sociale borghese, ormai affermatasi come prevalente, di godere dell’opera d’arte direttamente in casa propria. Questa necessità porta alla realizzazione in serie integrale o parziale, a prezzi competitivi, di opere d’arte famose per un pubblico sempre più numeroso. Queste non sono più copie, ma vere e proprie riproduzioni industriali.
          Terzo passaggio. Il Novecento si apre con le avanguardie storiche che propongono, in molti casi, un’eversione radicale nei confronti del concetto di opera d’arte tradizionale. Così, Marcel Duchamp (1887-1968) trasforma una ruota di bicicletta in opera museale (1913) aprendo la strada per cui qualsiasi oggetto, avulso dal proprio contesto quotidiano e d’uso, può diventare occasione di fruizione artistica. Allo stesso modo un orinatoio rovesciato posto in un museo, prendendo il nome di «Fontana», confonde la frontiera tra l’artista e gli altri uomini, tra l’opera d’arte e gli oggetti di uso comune. Qualche anno più tardi, Hugo Ball darà vita all’avanguardia dadaista (1916-1921) che, ricorrendo al ready-made («già pronto»), al collage, all’assemblage, al fotomontaggio, cercherà di destrutturare il concetto di arte tradizionale in nome di un ampliamento degli stili, dell’abolizione della separazione tra arte e vita e della creazione di una sorta di «non – arte».           L’avanguardia futurista, negli stessi anni, consacra la superiorità dei prodotti tecnologici sulle opere d’arte. Nel «Manifesto del movimento futurista» (1909) Tommaso Marinetti scrive che l’automobile è più bella della «Nike di Samotracia», perché più moderna, così come tutte le città dovrebbero prendere ad esempio Milano, il centro industrializzato e tecnologico del Nord. In maniera provocatoria Marinetti afferma che le città museo, Roma, Venezia, Firenze, dovrebbero essere distrutte. I poeti futuristi, spesso, scrivono «poesie in libertà», accozzando parole in maniera quasi fortuita, o associandole con operazioni matematiche o ancora con l’obiettivo di creare dei calligrammi.           É evidente che queste esperienze contemporanee mettono in discussione il concetto stesso di opera d’arte, deprivata non solo del carattere della bellezza, ma anche della sua specificità rispetto agli oggetti di uso comune e quotidiano. Se l’arte è snaturata rispetto al suo statuto ontologico, l’artista stesso non avrà più una funzione educativa, morale, da poeta vate, di riferimento per la propria epoca. A che può servire un’opera d’arte che tutti possono realizzare, destituita di ogni regola, scevra dell’intero retaggio della tradizione precedente?
          Un’esperienza artistica come quella futurista, che, dal punto di vista storico, si protrae per poco più di un decennio, è, in realtà, estremamente significativa e testimonianza eloquente della contemporaneità. L’arte perde, infatti, il posto di privilegio di cui sempre ha goduto nella storia dell’umanità. Sono automobili e apparecchi tecnologici sempre più evoluti a segnare e a connotare di anno in anno i cambiamenti della società.           Quarto passaggio. Nei decenni successivi, l’evoluzione naturale della trasformazione di un oggetto d’uso corrente in opera d’arte è che chiunque può essere artista. I soggetti dell’arte vengono, ora, prelevati dal mondo della cultura di massa e dai miti prevalenti nell’immaginario collettivo (Elvis Presley, Marilyn Monroe, la Coca Cola, …). Nasce la Pop art. Se il kitsch ha trasformato un’opera artistica in fenomeno di massa, la Pop art trasforma l’oggetto di massa in prodotto artistico. L’artista statunitense Andy Warhol (1928-1987) afferma che nell’epoca contemporanea chiunque può essere famoso per un quarto d’ora. Attraverso fatti eclatanti (anche quelli più truculenti o volgari), nei talk show o nel grande fratello televisivo, grazie all’utilizzo di mezzi mass mediatici che portano ad una diffusione capillare delle informazioni, oggi, infatti, si può raggiungere il successo. Alla rapidità e all’estensione della fama corrisponde, però, in modo inversamente proporzionale la facilità in cui la fama stessa si dissolve.           Scrive Alain Finkielkraut: «L’escatologia egualitaria esige che tutti siano autori e che sia cancellata per sempre la figura paterna, trascendente, inibitoria dell’Autore. Tutti autori, in un mondo senza autore: è questa l’ultima forma dell’eguaglianza…». Così «se ogni uomo è artista, perché mai elevare gli artisti al di sopra dell’umanità comune? Se ognuno ha il dovere di realizzare le sue virtualità poetiche, perché mai celebrare i poeti?» (A. Finkielkraut, Noi, i moderni).           Il quinto passaggio consiste nell’affermazione del trash, ovvero della spazzatura. Vanificati la tradizione e il retaggio valoriale e tecnico della tradizione stessa, ovvero azzerata ogni esperienza artistica, sottovalutato tutto ciò che è del passato (purché non sia di pochi decenni prima, perché in tal caso andrebbe di moda), si può tranquillamente proporre agli occhi e agli orecchi di tutti la spazzatura: il trash. Al Museum of art di Filadelfia viene esposto nel 1992 lo «Strange Fruit», opera di Zoe Leonard, composta da bucce di banana, di arancia, di pompelmo e di altri frutti cuciti con filo di ferro. La «vera e propria spazzatura» è diventata arte: non un sogno, ma un incubo, quello della distruzione dell’arte, si sta traducendo in realtà.
Giovanni Fighera
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