Un missionario napoletano del Pime, fratel Lucio Beninati, dal 2005 vive a Dacca e s'interessa dei ragazzi di strada. Abita nella baraccopoli di Purbar Borthola, al secondo piano di una casa di bambù: per arrivarci bisogna salire una ripida scala con gradini alti 40 centimetri (il difficile è scendere!).
del 25 febbraio 2009
Un Paese quasi totalmente islamico invita alla «missione fuori delle strutture». Numerose sono in Bangladesh le «vie nuove » tentate e percorse dai missionari. Un americano di Maryknoll, padre Bob Cahill, realizza quel che gli Atti degli Apostoli dicono di Gesù: «Passò ovunque facendo del bene e guarendo i malati». In una delle tante città dove non c’è ancora alcuna istituzione cristiana, affitta un appartamento, gira in bicicletta visitando i malati, li aiuta come può anche portandoli in un ospedale cattolico e prendendosi cura di loro. La gente gli chiede: perché fai questo? Lui risponde: «Sono un missionario di Gesù che è il mio profeta, che passò curando i malati e facendo del bene e anch’io faccio come lui. Non ho nessuna associazione alle mie spalle, ma parenti e amici in America che mi aiutano e posso aiutare chi sta male e non riceve cure». La presenza di un americano «benefico» fa discutere, ne parlano la stampa e le radio locali. Quando Bob pensa che abbiano capito chi sono i cristiani, lascia quella città e va in un’altra.
  Un missionario napoletano del Pime, fratel Lucio Beninati, dal 2005 vive a Dacca e s’interessa dei ragazzi di strada. Abita nella baraccopoli di Purbar Borthola, al secondo piano di una casa di bambù: per arrivarci bisogna salire una ripida scala con gradini alti 40 centimetri (il difficile è scendere!). Una stanzetta di due metri per tre, pavimento e pareti di bambù, nel corridoio un solo rubinetto dell’acqua (da far bollire prima di berla), i servizi al piano terra, due per una quarantina di poveracci. Nella sua cella ha un letto, la valigia con vestiti sotto il letto, un “angolo della preghiera” con un tappetino, il crocifisso di missionario alla parete e un mappamondo di plastica colorato; un tavolinetto basso e uno sgabello, uno scaffale con la 'cucina' e un altro con la Bibbia e alcuni album illustrati e colorati per i molti bambini che vengono da lui. «Io sono il nonno di questi bambini. Qui il nonno non esiste, muoiono prima».
  Lucio lavora con un’associazione di volontariato locale (sessanta volontari), che ha fissato a Dacca otto punti di incontro con i ragazzi di strada, tutte le sere alle otto. «È girata la vo­ce e questi ragazzi vengono per incontrarci, parlare, raccontare i loro problemi. Se possiamo, li aiutiamo. Vogliamo costruire ponti fra questi giovani e la società che hanno abbandonato per vari motivi. Per riportarli a casa, per farli andare a scuola, per trovare loro un lavoro, un’occupazione, per curarli. Oppure per ottenere attenzione dallo Stato per la loro situazione, anche un lavoro, un ricovero, cure mediche. Ci sono organizzazioni della Chiesa cattolica o di altri enti, che accolgono questi ragazzi: se li porti tu è un’altra cosa che se si presentano da loro stessi e poi da soli non ci andrebbero mai».
  Da quattro anni Lucio Beninati conduce una vita molto sacrificata per un giovane italiano, convinto che «per annunziare Cristo bisogna vivere come vive la gente del posto, dando testimonianza della carità con i più poveri e miseri».
 
Piero Gheddo
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