Nel confronto durissimo della nostra epoca, tra la cultura della vita e la cultura della morte, occorre scegliere da che parte stare. Se dalla parte di Maria o di Giuda. Non si vince l'ideologia del nulla con un'altra ideologia. La si combatte con una vita che è capace di assumersi tutte le responsabilità e che crea l'alternativa al nulla: la carità.
del 05 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
            'La nostra vita di oggi, come ci ha insegnato Giovanni Paolo II, è un confronto durissimo tra la cultura della vita e la cultura della morte”. Parto da queste parole di mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, che compaiono nella postfazione al libro E adesso vado al Max. Non esiste una via di mezzo, una No man’s land: una terra di nessuno.
          “Cultura della vita” significa sì alla vita sempre: dal concepimento alla fine naturale. “Cultura della morte” significa, letteralmente, quel che dicono le parole. Anche se l’ideologia dominante tenta in tutti i modi di confonderci le idee usando perifrasi, elencando le possibili eccezioni alla regola, edulcorando i termini o coniandone di nuovi, in una distorsione della realtà menzognera se non diabolica.
          Nel “confronto durissimo tra la cultura della vita e la cultura della morte” è chiesto a ciascuno, nessuno escluso, da che parte vuole stare, perché in gioco la posta è altissima: in gioco c’è l’uomo. Ora riporterò alcune recenti affermazioni citando nomi, cognomi e fonti. Ognuno è responsabile di ciò che dice o che scrive. Ognuno dice (o scrive) ciò che pensa, segno che inequivocabilmente ha deciso se difendere e impegnarsi a costruire una cultura della vita e per la vita o se inginocchiarsi di fronte al mondo e alla sua logica di morte.
          “Affrontando le questioni che riguardano la fine della vita, non si può evitare di parlare anche dell’eutanasia. (…) C’è chi rivendica (…) il diritto non tanto a una morte dignitosa ma piuttosto a una vita dignitosa e di conseguenza a una morte opportuna. (…) Oltre che essere eventualmente legittimato dallo Stato, questo gesto può anche essere considerato etico? E, infine, in casi definibili ‘estremi’, è giusto condannare il gesto di una persona che agisce su richiesta di un ammalato in condizioni terminali, per puro sentimento d’amore?”. (Ignazio Marino, Credere e conoscere, Einaudi)          “Non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé”. (Cardinale Carlo Maria Martini, Credere e conoscere, op. cit.)          “La legge (odierna nda) si basa sul principio di indisponibilità della vita, che non è da considerarsi come privo di eccezioni. Partendo da questo punto si potrebbe immaginare di ripensare alla legge per renderla più aderente alle reali necessità degli ammalati”. (Cardinale Carlo Maria Martini, Credere e conoscere, op. cit.)          “Per il medico c’è anche un problema pratico: per iniettare con una siringa nella vena di una persona una sostanza che la condurrà al decesso nel giro di qualche attimo non basta la compassione verso un malato, serve anche la fredda determinazione di compiere un atto che intenzionalmente e immediatamente causa la morte. Un discorso molto diverso si può fare a proposito della somministrazione di farmaci analgesici in grado di ridurre sensibilmente il dolore di un malato terminale, anche in dosi tali da accorciarne l’esistenza”. (Ignazio Marino, Credere e conoscere, op. cit.)          “Ho accettato volentieri la richiesta di Carlo Troilo di scrivere una prefazione al suo libro per due ragioni. La prima è la solidarietà con la sua battaglia in favore della eutanasia: una battaglia che egli combatte nell’ambito della Associazione Coscioni (…). Sono belle e commoventi le pagine in cui Troilo racconta la vicenda del suicidio di suo fratello Michele, un malato terminale di leucemia che non aveva trovato un medico disposto a consentirgli una ‘morte dignitosa’. E trovo giusta l’enfasi che egli dà – accanto alle sofferenze fisiche – a un altro aspetto, la sofferenza connessa alla perdita di autonomia provocata dalla malattia che si traduce in una condizione per tanti insopportabile di perdita di dignità (…). L’autore ripercorre la storia e i precedenti del testamento biologico in America e in Europa ricostruendo anche l’evoluzione politica del dibattito e del confronto civile fino alla approvazione di leggi semplici e rigorose, ovunque rispettose del diritto di autodeterminazione senza ipocrisie, tentativi di svuotamento, limitazioni (…) In particolare Troilo si è applicato alle leggi di Germania, Francia e Inghilterra, occupandosi anche del diverso atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche di questi Paesi rispetto a quello delle gerarchie italiane. Esemplare da questo punto di vista il documento elaborato per i ‘cittadini cristiani’ dalla Conferenza episcopale tedesca e dalla Chiesa luterana, così lontano dalla rigidità e dalla intolleranza della Cei in una Chiesa italiana in cui pure non sono mancate autorevolissime voci dissonanti (dal cardinale Martini al cardinale Tettamanzi, da Vito Mancuso a Vittorio Possenti)”. (Prefazione di Emma Bonino, in Carlo Troilo, Liberi di morire, Rubbettino)
          “Vivere la malattia (la Sla ndr) come un’opportunità, fare della sofferenza una fortissima esperienza, tutto ciò mi permette di affrontare la vita in modo diverso (…). Ne ho ben tre di fortune: come medico, come malato e come uomo. Come medico perché ho realmente capito i bisogni fondamentali del paziente. Oggi so che un buon medico deve saper fondere l’obiettività e il rigore della scienza con l’empatia e l’umiltà. Deve condividere con il malato e la sua famiglia il percorso della malattia (…). E poi c’è la parte più profonda, quella che mi riguarda come uomo. La malattia mi sta insegnando ad apprezzare gli autentici valori della vita. A gioire delle cose semplici, a non dare nulla per scontato, ad accettare i miei limiti. Ora, finalmente, mi sento sereno (…). Ai politici vorrei dire di andare a trovare le persone malate. Io l’ho fatto e ho scoperto che hanno bisogno di comunicare perché la loro testa funziona. (…). La malattia può essere addirittura una cosa positiva. Purché il malato sia messo in condizione di vivere dignitosamente, e purché qualcuno si faccia carico dei suoi problemi e di quelli della sua famiglia. Di tutto questo purtroppo si parla pochissimo. Sono tempi in cui si discute sempre più spesso, e con sempre minore chiarezza, di diritto alla morte, di eutanasia, di suicidio assistito, del principio di autodeterminazione del paziente. Io penso che riconoscere la dignità dell’esistenza di ciascun essere umano sia il punto di partenza di una società che si definisce civile”. (Mario Melazzini con Marco Piazza, Un medico, un malato, un uomo, Lindau)          “Quel che mi ferisce è incontrare persone che considerano ‘senza dignità’ né valore le vite come quella di mio figlio, mentre a me sembra un’infamia solamente pensare di giudicare così chi ha dovuto lottare con immensa fatica per la propria esistenza. (…). Molti restano in silenzio, uno trova il coraggio di provocarlo: ‘Max, avresti preferito morire o rimanere così?’ La risposta è immediata e tranciante; portandosi il dito alla tempia, Massimiliano risponde: ‘Sei matto?’. E sempre a gesti spiega che è felice così, grazie alla famiglia e agli amici. (…) Nel frattempo, chi ha seguito il caso di Eluana e incontra Massimiliano non può che domandarglielo: ‘Come mai tv e giornali non hanno mai pensato di proporci un confronto fra lei e te?’ Rispondo che ‘io e Ernesto (il marito ndr) abbiamo cercato di metterci in contatto con i mass media, ma, a parte Avvenire, ci hanno sempre e tutti ignorato’”. (Lucrezia Tresoldi con L. Bellaspiga e P. Ciociola, E adesso vado al Max. Massimiliano Tresoldi-10 anni di ‘coma’ e ritorno, Ancora)          “Dieci anni di ‘coma’ sono lunghissimi e nessuno pensa che un disabile così grave si possa un giorno risvegliare. Max, invece, è la testimonianza vivente che il miracolo è possibile e che la scienza ancora non ci può dire tutto sull’esistenza, sul cervello umano, sulle diverse condizioni di vita. Questo ragazzo è stato per noi tutti un pugno nello stomaco, una presa di coscienza salutare che ci ha fatto comprendere, una volta di più, come sia fragile la condizione umana, ma anche come sia presuntuoso l’atteggiamento di chi pensa di essere padrone dell’uomo e dell’esistenza (…). Max ci ha fatto comprendere, in un solo attimo, con la sua presenza (…) che il dono della vita è stupendo, qualunque sia il suo stato. Se è un dono significa che non ci appartiene, ma significa anche che nessun altro lo può toccare”. (Francesco Zanotti, direttore del Corriere Cesenate e presidente Fisc, in E adesso vado al Max, op. cit.)          “Alcuni sostengono che vite come quella di Max siano inutili e un inutile spreco di risorse della società. Avessero un briciolo della sua fermezza andrebbero a trovarlo, a parlarci, a starci insieme un po’ di tempo. E se non fossero ciechi e sordi, scoprirebbero come la vita di Max sia assai più utile della mia e delle loro messe insieme. (...) Adora la vita. Non la considera una pozzanghera limitata alle capacità fisiche e mentali, ma un oceano”. (Pino Ciociola, in E adesso vado al Max, op. cit.)          “E noi, che abbiamo gambe e braccia, che l’acqua la beviamo dal bicchiere, che arrotoliamo spaghetti e digitiamo sms, che se ci pizzica il naso ci grattiamo da soli. Noi, i normodotati. Noi i sani. Noi i perfetti, le vite degne, gli abili non diversamente. Noi: lo invidiamo, perché alzi la mano chi sarebbe capace di fare un centesimo. Non per venti anni, per venti minuti! E avere anche la voglia di gridare ogni giorno: ‘Io sono FE-LI-CE!’. Anzi, di esserlo davvero”. (L. Bellaspiga, in E adesso vado al Max, op. cit.)          Chi ha avuto la pazienza di leggere sin qui, è bene che si ponga ora una domanda: la stessa che mi sono posta io, pagina dopo pagina, leggendo i testi da cui sono tratte le citazioni e tanti altri libri che non ho qui ricordato. La stessa che mi pongo ogni giorno, ad ogni ora.
          Io una risposta me la sono data. Me l’ha insegnata la vita, me l’hanno suggerita gli incontri che ho fatto. Credo, in realtà, che questa risposta sia incisa nel cuore, ed è una risposta secca, senza “se” e senza “ma”. La vita di un uomo, ogni uomo, in qualsiasi stato, fase o condizione si trovi, ha un valore in-calcolabile, in-estimabile ed è, dunque, un bene indisponibile. Mentre scrivo, però, non posso non soffermarmi su una riflessione, scaturita dal cognome di Massimiliano: Tresoldi.
          Tre soldi e cioè… niente, la sua vita, forse, per qualcuno: per quella “cultura della morte” che vede come un impiccio i malati terminali, i pazienti in ‘coma’; anche i risvegli. Quella “cultura della morte” che ha chiamato Max “il numero 6” o lo ha paragonato al tronco morto che, dall’ambulatorio medico, si vedeva in giardino. “Vostro figlio è così, non potrà mai più fare niente”.Scrivo e penso che anche la vita di Gesù, Figlio di Dio, è stata “valutata”. Trenta denari.Scrivo e penso invece a Maria, sorella di Marta, che “presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: ‘Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?’” (Gv 12, 3-5)
          Nel confronto durissimo della nostra epoca, tra la cultura della vita e la cultura della morte, occorre scegliere da che parte stare. Se dalla parte di Maria o di Giuda.Noi scegliamo Maria, perché – prendo in prestito ancora alcune riflessioni di monsignor Negri – “è la cultura del bene reso esperienza. (…) Non si vince l’ideologia del nulla con un’altra ideologia. La si combatte con una vita che è capace di assumersi tutte le responsabilità e che crea l’alternativa al nulla: la carità. La sola che trionfa di fronte all’ideologia del nulla. La novità (…) è che c’è una carità che abita nel mondo, e che prende il volto di coloro che vivono come ha vissuto Dio”.
Sara Luisella
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