I gesuiti lo fanno strano. Indossolubilità del matrimonio, unioni gay e progressismi vari. Storia della lunga - e cruenta - guerra tra i figli americani di Ignazio e l'ex Sant'Uffizio. La peggiore grana teologica di Ratzinger. È la chiesa unita nella fede, non i teologi divisi dalle dispute, che deve assolvere al compito di trarre salvezza ad ogni uomo.
del 21 settembre 2011
  
          Non c’è soltanto parte della chiesa tedesca che, come dimostra la recente intervista rilasciata al settimanale Zeit dal capo dei vescovi Robert Zollitsch, chiede al Vaticano un ripensamento circa le norme adottate da tempo nei confronti dei divorziati risposati. Ci sono anche i gesuiti statunitensi a chiedere a Roma continue riforme fino a teorizzare, con più articoli pubblicati sul prestigioso mensile Theological Studies con sede a Milwaukee, la possibilità che la chiesa riveda interamente la dottrina circa l’indissolubilità del matrimonio.
          Firmatari degli articoli due ospiti d’eccezione della rivista, il francescano Kenneth Himes, presidente della facoltà teologica del Boston College, già capo della Catholic Theological Society of America (Ctsa), e il canonista James Coriden, professore alla Washington Theological Union che, tra le innumerevoli onorificenze, ha ricevuto lo scorso giugno proprio dalla Ctsa il prestigioso John Courtney Murray Award per la teologia. «Già pionieri sul tema della riammissione all’eucaristia per i divorziati risposati», come li ha recentemente definiti l’agenzia cattolico progressista Adista, i due hanno sostenuto che ogni dottrina di per sé può essere rivista e ridiscussa e che, comunque, un dibattito aperto e non pregiudiziale non può che fare bene non soltanto alla teologia, ma anche alla chiesa nel suo insieme.
          Come nel caso della recente uscita di Zollitsch subito ridimensionata dai due interventi in rapida successione del cardinale Joachim Meisner, arcivescovo di Colonia, e di Jean-Claude Périsset, nunzio apostolico a Berlino (i due prelati in sostanza hanno insistito sul fatto che il capo dei vescovi tedeschi parlava a titolo personale), anche l’uscita del duo Himes e Coriden ha ricevuto una risposta particolarmente dura da parte della Santa Sede. Ne ha parlato in queste ore anche il National Catholic Reporter che spiega come Theological Studies in realtà è stata “obbligata dalla Congregazione per la dottrina della fede a pubblicare, con una prassi piuttosto inusuale”, un saggio proprio dedicato all’indissolubilità del matrimonio. L’articolo riparatorio il cui titolo è piuttosto esplicito (“Matrimonio indissolubile: una risposta a Kenneth Himes and James Coriden”), ha una sola tesi: asserisce l’“assoluta impossibilità” di correggere la dottrina del matrimonio indissolubile.
          Sono molteplici i venti di riforma all’interno della galassia cattolica che molto fanno pensare e preoccupare il Vaticano. Ma è coi gesuiti americani che la polemica a distanza sembra non voler mai avere una fine. Fu nel 2006 che Theological Studies pubblicava un articolo sull’etica sessuale cattolica firmato dai teologi Todd Salzman e Michael Lawler.
          I due autori, che già l’anno scorso hanno ricevuto un biasimo formale da parte questa volta della Conferenza episcopale americana per il loro libro “The Sexual Person” nel quale incorrono in “errori dottrinali inerenti la valutazione degli atti omosessuali, dei rapporti prematrimoniali, della contraccezione e della fecondazione artificiale”, vennero segnalati all’ex Sant’Uffizio, e in particolare all’attenzione del cardinale William Jospeh Levada che da poco aveva preso possesso dell’incarico che fu di Jospeh Ratzinger. Levada e i suoi uomini cominciarono a far sentire il proprio fiato sul collo del direttore di Theological Studies, David G. Schultenover, il quale, in un editoriale del dicembre 2010 sui cui contenuti si dice abbia ha detto la sua pesantemente il Vaticano, era dovuto intervenire sull’uscita di Salzman e Lawler: “Desidero precisare – scrisse – che questo articolo, nella misura in cui non aderisce all’autorevole insegnamento della chiesa, non rappresenta il punto di vista degli editori e sponsor di Theological Studies. Mentre la rivista, assecondando i mandati degli ultimi Papi di fare teologia ‘alle frontiere’, promuove una teologia professionale per i teologi professionisti, non promuove tesi che contraddicono l’insegnamento della chiesa ufficiale, anche se tali tesi trovano posto nelle nostre pagine. Se e quando accade, la nostra politica sarà quella di avvisare i lettori e affermare chiaramente l’insegnamento attuale e autorevole della chiesa sulla materia trattata”.
          Così è stato anche sull’ultimo numero, quello che ospita l’ultimo pezzo sul matrimonio “ordinato” da Roma. Una breve nota del direttore spiega che “eccezion fatta per qualche correzione di tipo stilistico, l’articolo viene pubblicato come è stato ricevuto”. Una puntualizzazione atipica che molto ha irritato sia Coriden che il francescano Himes. Si tratta di un “terribile precedente”, ha detto Coriden. Mentre per il presidente della Ctsa, John Tiel, il Vaticano “sbaglia tre volte”: primo, quando presume che la direzione di un giornale non sia in grado di fare le sue valutazioni sulle posizioni teologiche; secondo, quando vuole affermare che la teologia è una ripetizione della dottrina; terzo, quando fa pubblicare un articolo violando il processo editoriale.
          Charles Curran, docente di Teologia alla Southern Methodist University di Dallas – condannato dal Vaticano nel 1986 per il suo dissenso teologico in materia di morale – ha definito la mossa del Vaticano contro Coriden e Himes “l’attacco più grave possibile alla teologia cattolica degli Stati Uniti perché Theological Studies è la nostra rivista accademica più prestigiosa”. I teologi “di frontiera”, ha detto, ora potrebbero essere spinti “a scrivere altrove, privando così la rivista di autorevoli contributi”.
          Più diplomatica la reazione del presidente della Conferenza dei gesuiti statunitensi, padre Thomas H. Smolich: “La Compagnia di Gesù ha un rapporto cordiale e costante con il cardinale William Levada, prefetto della Dottrina della fede”; la Compagnia “appoggia in pieno Theological Studies e la sua missione di analisi e ricerca teologica. Sono grato per il bel lavoro svolto da padre Schultenover come direttore”.
          Sono anni che il Vaticano interviene per correggere alcune posizioni giudicate troppo di frontiera del mondo gesuitico statunitense. Prima di Levada, già Ratzinger fece sentire la sua voce. L’ultimo suo intervento prima di accedere al soglio di Pietro avvenne nel 2004. Il 13 dicembre di quell’anno la Dottrina della fede emise una notificazione di condanna contro il teologo gesuita Roger Haight, perché nel suo libro “Jesus Symbol of God”, la figura di Gesù era troppo lontana da quella professata nel Credo. Haight dovette abbandonare la cattedra presso la Weston School of Theology di Cambridge, nel Massachusetts, retta dai gesuiti. Passò allo Union Theological Seminar di New York, un istituto non cattolico, fondato dai presbiteriani nel 1836, in cui insegnarono teologi protestanti di prima grandezza come Reinhold Niebuhr e Paul Tillich, oggi indipendente dal controllo di singole denominazioni cristiane. E continuò a pubblicare libri di teologia che riproponevano le sue tesi di fondo. Due libri in particolare: “Christian Community in History”, in tre volumi, e “The Future of Christology”.
          Su questi due volumi è intervenuto ancora una volta la Dottrina della fede governata da Levada, non senza prima aver informato Benedetto XVI. Le ragioni portate a sostegno della condanna di Haight non sono state di poco conto. La notificazione del 2004 le elencava meticolosamente. A giudizio delle autorità vaticane Haight usa un metodo teologico che subordina i contenuti della fede alla loro accettabilità da parte della cultura postmoderna. E alle realtà oggettive definite dagli articoli del Credo sostituisce dei simboli.
          E’ lunga la lista dei gesuiti caduti sotto la censura dell’ex Sant’Uffizio. Non tutti, ovviamente sono americani: Anthony De Mello è indiano, Jacques Dupuis è belga, mentre Jon Sobrino, esponente di spicco della teologia della liberazione, è spagnolo.
          Tra gli americani c’è ancora un nome che merita di essere annotato, quello di suor Elizabeth A. Johnson, ancora oggi, negli Stati Uniti, un caso editoriale. Nel 2007 è uscito il suo “In cerca del Dio vivente – Quest for the Living God” e ancora oggi il libro vende e fa parlare di sé. Suor Elizabeth insegna teologia sistematica nell’università dei gesuiti di NewYork, la Fordham University, nonostante la commissione dottrinale dell’episcopato americano presieduta dall’arcivescovo di Washington, il cardinale Donald Wuerl, l’abbia ampiamente censurata. Wuerl, in uno statment recentemente uscito, ha spiegato che la preoccupazione prima dei vescovi della commissione dottrinale era di mettere sull’avviso “quegli studenti che leggendo questo libro possono essere indotti a pensare che questo sia anche l’insegnamento autentico della chiesa”. Perché, ha scritto in proposito il vaticanista Sandro Magister, “sono almeno sette i punti sui quali le tesi di suor Elizabeth si distaccano dalla dottrina della chiesa. A traballare sarebbero i dogmi della trinità di Dio e della creazione, a vantaggio di un’idea del divino immanente al mondo, molto imbevuta di scetticismo illuminista. Non solo. Suor Elizabeth negherebbe che Gesù Cristo sia l’unico salvatore di tutti, perché, a suo giudizio, solo la somma tra il cristianesimo, l’induismo, il buddismo, l’islam, eccetera consentirebbe di conoscere la verità di Dio”. Il tutto nonostante “nel 2008, il libro di suor Elizabeth ha vinto negli Stati Uniti il primo premio della Catholic Press Association, nella categoria delle opere di teologia”.
          Ma, a conti fatti, l’affondo del Vaticano più difficile da digerire per i gesuiti statunitensi resto quello mosso ormai sei anni fa contro l’ex direttore del settimanale America, padre Padre Thomas Reese. Un affondo che sanguina ancora oggi.
          Nel 2005 si dimise da America dopo sette anni di direzione. Tutti negli Stati Uniti scrissero che venne allontanato dal Vaticano per le prese di posizione della sua rivista troppo liberal, in particolare su temi come i matrimoni gay, i rapporti con l’islam, l’atteggiamento che i politici devono tenere sull’aborto. L’attrito di Reeese con Roma nacque nel 2000, quando uscì il documento “Dominus Jesus” che ribadiva la visione del cattolicesimo come strada principale per la salvezza dell’uomo e la sua sostanziale supremazia per questo sulle altre religioni. Reese criticò il documento mettendosi contro l’allora cardinale Ratzinger.
          L’allora direttore del National Catholic Repoter Tom Roberts ha definito le dimissioni di Reese “una tragedia assoluta, un affronto sconvolgente alla discussione intelligente”. “Se è vero che è una decisione del Vaticano – disse il teologo Stephen Pope del Boston College – questa vicenda avrà un effetto raggelante. I teologi cattolici che vogliono fare domande decisive, non le pubblicheranno più su riviste cattoliche”. Dopo l’elezione di Benedetto XVI, in un editoriale America ha affermato che una chiesa “che non può discutere le questioni apertamente, è una chiesa destinata a un ghetto intellettuale”.
          Una volta dimessosi Reese si è ritirato per un po’ di tempo in California. Qui ha conciato a farsi sentire via mail da una cerchia ristretta di amici. A loro un giorno ha suggerito di leggere un articolo che meglio di altri spiegava il perché della severità dell’attuale Pontefice nei suoi confronti. L’articolo fu pubblicato su “Commonweal”, prestigioso quindicinale americano di cattolici progressisti, che ha tra le sue firme Williamm Pfaff, Paul Baumann, Margaret e Peter Steinfels.
          Dice ancora Magister: “Il suo autore era Joseph A. Komonchak, prete dell’arcidiocesi di New York, professore alla Catholic University of America di Washington, nonché collaboratore di spicco della ‘Storia del Concilio Vaticano II’ in cinque volumi diretta da Giuseppe Alberigo. Komonchak individuava in Ratzinger, fin dagli studi giovanili, una costante avversione al pensiero di san Tommaso d’Aquino e una preferenza marcata per sant’Agostino e per il suo seguace medievale san Bonaventura. Tra i contemporanei, Ratzinger si è sempre collocato vicino a figure come Henri De Lubac e Jean Daniélou, fautori di un ritorno alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, e lontano invece da teologi d’ispirazione più tomista come Marie-Dominique Chenu, Karl Rahner, Bernard Lonergan, Edward Schillebeeckx. All’inizio del Vaticano II queste due correnti lavorarono assieme, ma quando si arrivò alla costituzione Gaudium et Spes sulla chiesa nel mondo contemporaneo si divisero. Ratzinger criticò duramente la bozza ispirata dal tomista Chenu, ritenendola troppo ottimistica e cedevole nei confronti del pensiero moderno. Da quella posizione, secondo Komonchak, Ratzinger non ha più deflettuto. Ritiene che la chiesa si sia arresa al mondo smarrendo identità e spinta missionaria. A questo stato di crisi, la sola sua risposta è la riproposizione integrale del messaggio cristiano come vera forza liberatrice. Per Ratzinger nulla ci sarebbe di positivo nelle culture oggi affermatesi al di fuori della chiesa, quasi sempre antitetiche allo specifico cristiano”.
          Nella sua prima omelia da Papa in piazza San Pietro Benedetto XVI ha descritto il mondo moderno come un “deserto” e come “acque di morte”, da cui solo la chiesa può trarre a salvezza ogni uomo. Ed è la chiesa unita nella fede, non i teologi divisi dalle dispute, che deve assolvere a questo compito. Da qui la severità mostrata da Ratzinger in qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, “come indica – ha scritto ancora Komonchak – uno dei suoi ultimi atti, la rimozione di padre Thomas Reese da direttore di ‘America’”.
 
Paolo Rodari
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