Educare, diceva Don Bosco, è opera del cuore. E ‚Äì aggiungiamo ‚Äì è l'opera più bella e affascinante della vita. Non lasciamoci rapinare dalla mentalità di questo mondo, e neanche dallo Stato, il compito che ci rende costruttori di società ed artefici di speranza.
del 12 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Non entro in merito né nella discussione sull’aborto né sulla sostanza della questione posta alla Corte Costituzionale. C’è però una domanda che sorge spontanea: «Che cosa significa che una ragazza di 16 anni possa rimanere incinta e poi decida di abortire, e senta come estranei ad ogni sua decisione la madre, il padre e i familiari in genere?»
          Sembra che si sia perso ogni legame con dei valori comuni e condivisi, come se la vita segnasse una terribile estraneità e solitudine e non si fosse più capaci di riconoscere, nella famiglia, una compagnia e un prezioso punto di riferimento.
          Allora si chiede allo Stato di intervenire, di decidere, di legiferare. E così si perde un’altra occasione per costruire uno spazio umano di rapporti. Certo, poi si inseriranno in questo spazio le sciocchezze di chi parla della vita del concepito come di un «parassita» o di chi ritiene che la libertà della donna possa prescindere dal rispetto della vita di un embrione, cioè di un bambino. Fino a non saper più riconoscere che il concepimento è frutto di due volontà, ed è un atto di amore che ci auguriamo sia ancora, pensato, voluto, costruito con affetto e pazienza, non improvvisato in una istintività da «dieci secondi».
          Perché non ripartire allora da quanto Benedetto XVI scriveva ai cristiani di Roma il 21 gennaio 2008 proprio sul tema gravissimo della educazione? Ascoltate:
«Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una “frattura fra le generazioni”, che certamente esiste e pesa, ma che è l’effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori.Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare? E’ forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita. […] Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l’incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano.
L’educazione non può dunque fare a meno di quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero. L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch’egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione. […] La responsabilità è in primo luogo personale, ma c’è anche una responsabilità che condividiamo insieme, come cittadini di una stessa città e di una nazione, come membri della famiglia umana e, se siamo credenti, come figli di un unico Dio e membri della Chiesa. Di fatto le idee, gli stili di vita, le leggi, gli orientamenti complessivi della società in cui viviamo, e l’immagine che essa dà di se stessa attraverso i mezzi di comunicazione, esercitano un grande influsso sulla formazione delle nuove generazioni, per il bene ma spesso anche per il male. La società però non è un’astrazione; alla fine siamo noi stessi, tutti insieme, con gli orientamenti, le regole e i rappresentanti che ci diamo, sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno. C’è bisogno dunque del contributo di ognuno di noi, di ogni persona, famiglia o gruppo sociale, perché la società, a cominciare da questa nostra città di Roma, diventi un ambiente più favorevole all’educazione.»
          Educare, diceva Don Bosco, è opera del cuore. E – aggiungiamo – è l’opera più bella e affascinante della vita. Non lasciamoci rapinare dalla mentalità di questo mondo, e neanche dallo Stato, il compito che ci rende costruttori di società ed artefici di speranza.
Don Gabriele Mangiarotti
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