Da chi le vive accanto il limpido riconoscimento d'un fatto elementare.

È una ragione semplice quella delle suore, che sa dirsi in così poche parole, senza condanne, senza alcuna retorica: «Lasciatela a noi, che la sentiamo viva». Dove il 'sentire' non è sfumatura sentimentale o pietosa, ma perce¬≠zione elementare della realtà.

Da chi le vive accanto il limpido riconoscimento d’un fatto elementare.

da Attualità

del 16 novembre 2008

«Se c’è chi la considera morta, lasci che Eluana resti con noi che la sentiamo viva». Le parole delle suore della clinica di Lecco che da molti anni assistono Eluana Englaro stanno in undici righe (la sentenza della Cassazione che non ha ammesso il ricorso contro la sospensione di alimentazione e idratazione alla malata è lunga invece ventuno pagine fitte di giurisprudenziale sapienza).

  È una ragione semplice quella delle suore, che sa dirsi in così poche parole, senza condanne, senza alcuna retorica: «Lasciatela a noi, che la sentiamo viva». Dove il 'sentire' non è sfumatura sentimentale o pietosa, ma perce­zione elementare della realtà. Dopo sedici anni di stato vegetativo, Eluana Englaro respira tuttavia autonomamente, e vive del nutrimento e dell’acqua che le arrivano da una sonda. Nessuna macchina le ventila i polmoni o si accanisce a tenerla forzosamente in vita. In stato vegetativo, incosciente, tutta­via la malata – è un’evidenza – è viva.

  La ragione semplice di quelle poche parole pronunciate a bassa voce è qui, prima di tutto: nel riconoscimento lim­pido di un fatto elementare. Riconoscono viva Eluana, le suore che da anni giorno e notte le stanno accanto in una stanza: testimoni di una malattia, una sofferenza, di una lontananza che nella sua drammaticità non può però negare l’evidenza di un respiro che libero persiste. Chiedono, le suore della clinica Beato Luigi Talamoni, che Eluana non venga fatta morire di sete e di fame. E anche qui, la semplicità delle loro parole è assoluta. Ciò che molti chiamano «vittoria dello Stato di diritto», ciò che è palestra sui giornali di abili argomentazioni, per bocca delle suore di Lecco si rivela nella sua scabra brutalità: morirà, Eluana, di lento sfinimento, solo la mancanza d’acqua e di nutrimento potendo aver la meglio di quel suo ostinato respiro. L’urto tra le undici righe – non una parola che non sia essenziale – e la dotta complessità delle 21 pagine di diritto della sentenza, è netto. Ma che cosa sta dietro, e alla radice, di una tale divaricazione di sguardo? C’è, nella trama lineare dell’intervento delle suore, uno stare di fronte alla realtà data, all’og­gettività di un respiro autonomo, pure nel mistero di una coscienza apparentemente per sempre perduta. C’è un inchinarsi davanti all’incomprensibi­le destino di una giovane donna, e la tenace costanza nell’accompagnarla: lavandola, vestendola, amandola come è, muta e assente, segno enigmatico di mistero e dolore.

  Dall’altra parte le ragioni del padre, ai cui occhi quella vita incosciente è un limbo di pena, una condanna infinita da cui proprio per amore, dice, vuol liberarla. Sennonché la vita, agli occhi del signor Englaro e di molti intollerabile, è tenacemente, spontaneamente viva. In un modo agli occhi degli uomini contemporanei assurdo: che vita è, se non vede, non reagisce, non 'fa' nulla? Occorre liberare Eluana dalla crudele schiavitù del suo stesso respiro. Il contrasto dunque attorno a quel letto d’ospedale è tra la ribellione di uomini che pretendono, perché vivere sia tollerabile, qualità della vita, salute, coscienza, libertà; e l’umiltà del servizio radicale, che non chiede ragioni, non contesta, non pretende standard di 'dignità' minima, e semplicemente riconosce e onora la vita. Il contrasto è in quelle scarne righe da Lecco che mitemente domandano: « Lasciateci la libertà di amare e donarci a chi è debole». In un tempo di dotti, di padroni di sé, di fieri rivendicatori di pretese e diritti, lo scandalo di un ' sì' semplice: capace di quattordici anni accanto a una giovane donna muta e dormiente, senza in cambio nemmeno una parola.

Marina Corradi

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