Parla l'economista Leonardo Becchetti: «La vera svolta è andare oltre la logica dei lupi, per riscoprire che la solidarietà è un valore anche economico». Alla finanza serve un'altra antropologia. In questo campo la Chiesa è da tempo innovatrice e protagonista: esperienze come il microcredito, il commercio equo e solidale, la finanza etica, sono nate...
del 23 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          «Non si può andare avanti così. Servono regole». Da quando sono iniziate a scoppiare le bolle speculative che hanno innescato la crisi finanziaria che tuttora stiamo vivendo lo sentiamo ripetere spesso. Ma dopo anni di vertici internazionali, dopo i salvataggi delle banche, dopo manovre su manovre di aggiustamento dei conti pubblici, a che punto siamo in questa operazione fondamentale per rimettere il bene comune davanti agli interessi individuali?
Ne parliamo con il professor Leonardo Becchetti (nella foto), ordinario di economia politica all'Università di Tor Vergata a Roma e presidente del Comitato etico di Banca Popolare Etica.
Professor Becchetti, da dove viene la crisi della finanza?
          «Intanto non è nata all'improvviso: è stata preparata da decisioni dissennate adottate negli anni Novanta. Ad esempio la scelta di alzare il limite di leva per le grandi banche d'affari: se io ammetto un rapporto tra debito e capitale di 30 a 1 vuole dire che su 31 euro che ho in cassa 30 sono presi a prestito e uno solo è capitale mio. In questa situazione basta perdere un tre per cento per trovarsi in una situazione da fallimento. Poi c'è stata l'opposizione a ogni tentativo di regolare il mercato over the counter dei titoli derivati, cioè gli scambi che avvengono al di fuori dei mercati. Strumenti che avevano una funzione assicurativa rispetto al rischio oggi vengono scambiati anche dieci volte al giorno per ottenere guadagni a breve. È come se tutti potessero comprare e vendere l'assicurazione della mia macchina: non ci vuole molto a capire che un sistema del genere non può stare in piedi a lungo. Altra follia la struttura perversa degli incentivi: un grande dirigente di banca aveva tutto l'interesse a compiere investimenti rischiosi, perché se vinceva la scommessa si trasformava in bonus sulla sua retribuzione e se perdeva aveva comunque la buonuscita miliardaria. Di fatto non pagava le conseguenze. Per non parlare, poi, dei livelli di questi incentivi: cito sempre la battuta - tratta dal monologo teatrale Pop Economy - sui 4.500 anni di lavoro che a un professore di liceo ci vorrebbero per mettere insieme i soldi che guadagnava l'amministratore delegato della Lehman Brothers l'anno prima del tracollo. Avrebbe dovuto cominciare ai tempi di sumeri... E qual è il rapporto vero tra il contributo di entrambi alla società?».
Di fronte a tutto questo dal 2008 - quando la crisi è cominciata - tutti invocano le regole. Ma quali servirebbero davvero? E perché non arrivano?
          «Le regole sono quattro o cinque e sono da tempo sul tappeto. Le hanno indicate la legge Dodd-Franck negli Stati Uniti e il lavoro della Commissione Vickers in Gran Bretagna. Intanto abbassare i limiti di leva per le grandi banche, evitando così che esistano realtà troppo grandi per essere lasciate fallire. Poi c'è la regolamentazione delle vendite dei titoli derivati over the counter, in modo che non vi siano più zone grigie in questi mercati. E l'idea della tassa sulle transazioni finanziarie (la cosiddetta Tobin Tax, ndr) che mira a penalizzazione l'uso speculativo della liquidità: se io, infatti, tasso le transazioni scoraggio chi scambia titoli ad alta frequenza, non chi investe guardando al lungo termine. Infine - altrettanto importante - la Volcker Rule, cioè la separazione tra l'attività finanziaria in proprio della banca e i depositi dei clienti. Non deve poter più capitare che a un certo punto il cliente si trova la sorpresa che la sua banca fallisce perché con i suoi soldi e a sua insaputa ha speculato sui derivati, compiendo non le operazioni che un depositante si aspetta dalla banca - prestare soldi alle imprese - ma compravendite di titoli ad alto rischio. Su queste regole c'è un consenso diffuso. Ma la politica finora non ha avuto la forza di attuarle, perché la lobby finanziaria si è messa di traverso e sta creando un danno a tutto il resto dell'economia».
Ma perché si fa così fatica a riportare nella finanza meccanismi che nell'economia reale daremmo per scontati?
          «Lo dice anche l'economia sperimentale: più le relazioni diventano anonime, più la moralità si abbassa. Ma il problema è che la finanza ha perso completamente di vista le relazioni: io trader sono davanti a uno schermo, vedo dei numeri, dei rendimenti e non mi rendo neanche conto che magari sto scommettendo per portare un Paese sul lastrico o facendo aumentare i prezzi del grano. Perdo i freni inibitori. Questo è un nodo fondamentale. Dalla crisi in cui ci troviamo usciremo solo se sapremo governare i mercati con relazioni fiduciarie nuove. I mercati da soli si comportano come greggi: seguono la corrente; sono solo le relazioni a immettere valori in grado di cambiare i parametri»
La crisi può diventare anche un'occasione anche per riequilibrare le relazioni tra aree del mondo? Notizie come quella dell'Angola che investe in Portogallo sorprendono...
          «Con questa crisi noi oggi stiamo vivendo un'esperienza attraverso cui altri Paesi sono già passati: pensiamo alla crisi russa, a quella brasiliana o a quelle del Sud-Est asiatico. Non dimentichiamoci, però, di come quei Paesi ne sono usciti: adottando controlli drastici sui movimenti di capitali a breve. Noi invece stentiamo a mettere in campo provvedimenti di questo tipo. In Paesi come il Brasile o l'India oggi ci sono limiti molto forti all'uscita dei capitali, hanno imparato la lezione. E lo stesso Fondo monetario internazionale - che prima imponeva come disciplina quella dell'apertura totale dei mercati - adesso dice che la liberalizzazione dei movimenti di capitali a breve non è una buona ricetta. Il punto è che ci vorrebbe un maggiore coordinamento tra i Paesi in surplus di ricchezza e quelli in deficit. Ed è quanto si sta cercando di fare in sede G20: promuovere gruppi di cooperazione tra le politiche monetarie e fiscali, in modo da evitare squilibri». È quanto il Pontificio Consiglio Giustizia e pace proponeva qualche mese fa indicando in un suo documento la strada di un'Autorità finanziaria mondiale?«Diciamo che quella è un'utopia, un punto di arrivo. Ma ciò che conta è l'idea: partire dal dato di fatto che con la globalizzazione l'interdipendenza aumenta sempre di più. Non possiamo pensare di risolvere con soluzioni nazionali problemi che sono mondiali. Abbiamo sempre più bisogno di regole e istituzioni globali. O almeno di luoghi dove si coordinino le politiche monetarie e fiscali. Tenendo però ovviamente presente anche l'altro polo fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa: la sussidiarietà. Deve essere sì un mondo di regole ed equilibri globali, ma aperto all'azione dal basso della società civile».
Torniamo però al problema iniziale: come ci si arriva, se persino poche regole elementari non passano, perché basta la pressione dei grandi gruppi finanziari a scoraggiare la politica dall'adottarle?
          «Ci si può arrivare attraverso due strumenti: da una parte con una campagna di pressione forte da parte della società civile per il cambiamento delle regole. È un impegno che oggi ha il volto della campagna Zero Zero Cinque, la campagna mondiale per la tassa sulle transazioni finanziarie che vede insieme tantissime organizzazioni (vedi box a pag. 50). È l'idea di una contro-lobby, un'azione di pressione politica. E qualche frutto lo sta già dando: a favore della tassa sulle transazioni finanziarie c'è un'iniziativa franco-tedesca nell'ambito dell'Unione europea e ora anche il governo Monti sembra dare segni di disponibilità. Però c'è anche un secondo ambito di azione dal basso, quello che io chiamo il voto con il portafoglio. Perché l'economia, il mercato siamo noi: è fatto di domanda e offerta e noi siamo la domanda. Se compriamo e risparmiamo in un certo modo decidiamo dove va l'economia. È evidente che tutto questo va organizzato, strutturato, che il consumatore deve prendere più consapevolezza. Ma è un'arma fondamentale».
Oggi però l'unica cosa che non sembra proprio in discussione è l'idea che al risparmiatore interessi solo ottenere il rendimento più alto sui propri investimenti.
          «Sì, è vero, sui giornali finanziari si avverte una schizofrenia evidente: nella prima parte fanno il ragionamento macro di politica, spiegano che bisogna salvare l'Italia, eccetera. Poi arrivi al consiglio al risparmiatore e si parla un'altra lingua. Penso ad esempio a quei siti in cui c'è il bell'articolo sulle regole, però corredato da banner: 'Vuoi guadagnare il 60 per cento in un giorno?'... Ma ci sono segnali importanti che vanno in un'altra direzione. Prendiamo il commercio equo e solidale: l'ultimo dato è che a livello globale cresce del 27 per cento all'anno con sei miliardi di euro di giro d'affari. Siamo su livelli nemmeno paragonabili alla stagnazione dei consumi. Vuol dire che questa è una scommessa che stiamo vincendo: la gente è disposta a pagare qualcosa in più o a guadagnare qualcosa in meno se sa che la scelta di consumo o di risparmio che fa ha anche un risvolto etico. Dobbiamo usare al massimo questo nostro potere e far capire al sistema che noi votiamo per un certo modello di economia, di banca, di finanza. In Italia oggi Banca Etica ha dieci anni di vita, sta andando avanti bene anche in questa fase difficile, è arrivata quasi al miliardo di euro tra raccolta diretta e indiretta. Ma, accanto a questo suo ruolo da pioniera, c'è anche tutto l'effetto dell'imitazione generata negli operatori tradizionali: quanto è aumentato l'impegno e la responsabilità sociale delle altre banche e la pubblicizzazione di quello che si fa? Dobbiamo sempre di più mirare a spostare l'intero mercato in questa direzione, come dice chiaramente l'enciclica Caritas in Veritate».
Ma non c'è il rischio di un'imitazione solo di facciata, con prodotti fintamente etici?
          «Senz'altro e per questo ci sono tutta una serie di strumenti su cui bisogna lavorare: i marchi, le certificazioni, le verifiche. Ma è un problema di affidabilità informativa che esiste in qualsiasi ambito dell'economia: ci si può lavorare. Quello che, però, è fondamentale è cambiare visione antropologica: non possiamo più pensare a un mondo in cui esistono gli individui che sono al 100 per cento egoisti e istituzioni benevolenti che fanno regole ottimali per evitare che questi individui si facciano del male tra di loro. Questa è l'idea hobbesiana dell'homo homini lupus su cui troppo a lungo si è fondata l'economia. Ma è un sistema che non funziona. Se siamo tutti 'lupi' da dove verrebbe un governante benevolo in grado di creare regole ottimali? Dobbiamo riconoscere un'altra antropologia che va al profondo della nostra natura e dice: sì, è vero, la persona fondamentalmente è autointeressata, ma nel suo dna ha a cuore le relazioni ed è fatta di reciprocità e solidarietà e riconosce queste come componenti fondamentali della propria felicità. Compito della politica è attivare e stimolare queste componenti solidali per il bene di tutti».
Citavamo prima il documento sulla riforma della finanza presentato dal Pontificio Consiglio Giustizia e pace: su quel testo, però, anche in casa cattolica non sono mancate le critiche...
          «A me sono sembrate polemiche più legate a rivalità e gelosie interne che alla sostanza del documento. E poi si può immaginare che quando la Chiesa prende una posizione così forte a favore delle regole del mercato finanziario chi è più vicino a certi ambienti esprima dissenso... Ma il Pontificio Consiglio Giustizia e pace non ha fatto altro che presentare idee su cui c'è un ampio consenso. E il documento si inserisce nel solco dell'enciclica Caritas in Veritate: quando parla di certi temi il Magistero non inventa, riflette su un vissuto. E in questo campo la Chiesa è da tempo innovatrice e protagonista: esperienze come il microcredito, il commercio equo e solidale, la finanza etica, sono nate e si sono sviluppate all'interno di organizzazioni religiose. La debolezza vera a mio avviso è un'altra: quanta parte del popolo di Dio oggi sente come un richiamo importante la dottrina sociale? C'è un problema di sensibilità ed è un lavoro che dobbiamo sforzarci di continuare, perché la vita sociale è una e separare tra loro i suoi diversi volti è un grave errore».
Giorgio Bernardelli
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