Da quell'Ave Maria, tutto!

Lo confidò Don Bosco ai suoi collaboratori alla fine della vita, guardando alle meraviglie operate attraverso l'opera degli Oratori che si era sviluppata in modo prodigioso. Tutto era nato in quel lontano 1841, giorno dell'Immacolata, quando accolse il primo giovane, Bartolomeo Garelli...

Da quell’Ave Maria, tutto!

 

Da quell’Ave Maria, tutto!

           Lo confidò Don Bosco ai suoi collaboratori alla fine della vita, guardando alle meraviglie operate attraverso l’opera degli Oratori che si era sviluppata in modo prodigioso. Tutto era nato in quel lontano 1841, giorno dell’Immacolata, quando accolse il primo giovane, Bartolomeo Garelli, infreddolito e impaurito, con il quale, prima di fargli una breve catechesi volle recitare un’Ave Maria per affidare tutto a Lei. Fu l’inizio inarrestabile di giovani che accorrevano a Don Bosco ogni domenica grazie all’effetto del “passa parola”: dieci, cinquanta, cento... Ragazzi che cercavano un amico, fondamentalmente buoni, ma tanto soli, venuti in città da paesi lontani per cercarvi pane e lavoro.

Un oratorio itinerante

           Scrive nelle Memorie: «La festa era tutta consacrata ad assistere i miei giovanetti... che vedevano un amico prendersi cura di loro». Offriva loro la possibilità di confessarsi e fare la comunione, ascoltare un po’ di catechismo, cantare qualche bella lode sacra, nei luoghi più impensati: nel coro della chiesa, nella sacrestia e, per il gioco, fino a sera, dovunque ci fosse un po’ di spazio all’aperto. Fu così, che ingrandendosi sempre più il numero dei ragazzi e per il “disturbo” che essi recavano, Don Bosco fu costretto a spostarsi da un luogo all’altro della città, in cerca di un luogo dove radunarli. Furono gli anni difficili dell’Oratorio Itinerante. A dargli coraggio fu un sogno dove vide, come nel sogno dei nove anni, lupi che si trasformavano in agnelli, agnelli che si trasformavano in pastorelli che conducevano e difendevano a loro volta gli agnelli… e, su un immenso prato, una grande chiesa… Quando scriverà le Memorie dell’Oratorio dirà che il significato del sogno si andava via via manifestando con lo sviluppo della sua opera.

Una vita da nomadi con centinaia di ragazzi

           Terminati gli studi al Convitto Ecclesiastico, Don Bosco raccoglieva i suoi ragazzi presso Il Rifugio (un Istituto per il ricupero di ragazze di strada fondato dalla Marchesa Barolo) e presso il vicino Ospedaletto (opera anch’esso della Marchesa, per le bambine malate e povere), essendone stato nominato cappellano. Ma per poco tempo. La Marchesa, pur donna di grande carità, trovando incompatibile con la sua opera la presenza di un così gran numero di ragazzi lo invitò a spostare da qualche altra parte il suo Oratorio. Non si scoraggiò don Bosco; un po’ di comprensibile sconforto invece, nei ragazzi ai quali, l’amico e collaboratore, teologo Borel – per tirarli un po’ su – raccontò l’amena storiella dei cavoli: “I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati non fanno bella e grossa testa. Diciamo così anche del nostro Oratorio... mettiamo la nostra fiducia nelle mani del Signore». Gli venne in aiuto il Vescovo Mons. Fransoni che gli ottenne la possibilità di trasferirsi presso la chiesa di San Martino dei Molassi, detto anche dei Mulini Dora, dove esisteva un grande complesso per la molitura dei cereali. Ma vi rimase solo due mesi. Scrive don Bosco: «…Si cominciò a dire che quelle adunanze di giovanetti erano pericolose, che potevano da un momento all’altro fare sommosse e rivoluzioni… Sembrava che Torino dovesse andare in rovina se noi avessimo continuato a radunarci in quel luogo». Se ne dovettero andare. Sostenuto dall’Arcivescovo, Don Bosco poté trasferire il suo Oratorio nel cortile della chiesa del SS.mo Crocifisso detto San Pietro in Vincoli nelle vicinanze dell’Opera del Cottolengo.

          Era un luogo veramente adatto per gli ampi spazi. Ma anche questa volta per poco, purtroppo, poiché, come scrive nelle Memorie «in quel luogo esisteva un terribile rivale... la serva del cappellano. Appena costei incominciò a sentire i canti e le voci, e, diciamo, anche gli schiamazzi dei ragazzi, uscì fuori di casa su tutte furie, e con la cuffia per traverso e con le mani sui fianchi, si diede ad apostrofare la moltitudine dei ragazzi che giocavano. Con lei inveiva una ragazzina, un cane, un gatto, e tutte le galline…; sembrava essere imminente una guerra europea». Don Bosco dovette andarsene anche di lì con il divieto municipale di ritornarvi. Nel chiudere questo triste capitolo Don Bosco annota «duole il dirlo» che il cappellano e la sua domestica morirono nel giro di qualche giorno. Tuttavia don Bosco per tenere uniti e allegri i suoi ragazzi nel tempo estivo, dava loro degli appuntamenti domenicali da dove partire per passeggiate sulla collina torinese o in qualche chiesa per la Santa Messa. Ma con l’inverno si fece necessaria una qualche soluzione. Con l’aiuto del suo amico e collaboratore Don Borel prese in affitto tre grandi ambienti nella casa di Don Moretta, nella zona Valdocco. Lì poté iniziare anche una scuola serale. Passato l’inverno ricominciarono le difficoltà anche in casa Moretta. Dovette andarsene anche di lì per le proteste degli inquilini che non sopportavano il via vai e il rumore dei ragazzi. Erano oltre trecento. Sfrattato da Casa Moretta Don Bosco prende in affitto il prato dei fratelli Filippi, nelle adiacenze di Casa Moretta. Nei giorni festivi, di buon mattino, Don Bosco si trovava nel prato dove già parecchi attendevano. Si sedeva su una riva per ascoltare le confessioni…, dopo ripigliavano la ricreazione… Al suono di una tromba i ragazzi si raccoglievano per ascoltare don Bosco che li preparava alla Santa Messa… Nel pomeriggio, una passeggiata con abbondante merenda procurata da amici e benefattori, sulle colline o nelle campagne di periferia.

Finalmente a casa

           È primavera del 1846. I suoi ragazzi lo cercano, con lui stanno bene perché si sentono sinceramente amati. Don Bosco lo sa e non li abbandona anche quando dovrà lasciare l’Opera della Marchesa Barolo; la sua vita sarà tutta per quei ragazzi. Ormai è proprio solo e senza niente. Scrive: «Girava la voce che fossi diventato pazzo... Così tutti i miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi». Era frattanto giunta l’ultima domenica in cui gli era permesso di tenere l’Oratorio nel prato Filippi. I ragazzi erano giunti, come ogni domenica, in massa. Leggiamo dalle Memorie: «In sulla sera di quel giorno rimirai la moltitudine dei ragazzi... ero solo, sfinito, senza sapere dove in avvenire avrei potuto radunare i miei ragazzi… Ritiratomi pertanto in disparte mi sentii commosso fino alle lagrime... “Mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare”». È proprio in quel momento che giunge un certo Pancrazio a comunicargli la disponibilità del signor Pinardi a cedere in affitto una tettoia circondata da prati e orti... disposto a fare quelle modifiche per renderla adatta ai suoi scopi…persino con entusiasmo quando seppe che doveva servire anche come chiesa: «... Sono anch’io cantore, verrò ad aiutarla: porterò due sedie, una per me e l’altra per mia moglie…». Il contratto fu fatto, sostenuto dalla inesauribile bontà di Don Borel: una piccola casa e un bel pezzo di terreno. Corse dai suoi ragazzi che stavano ancora giocando: «… Ragazzi, abbiamo un Oratorio stabile: chiesa, stanze per la scuola, spazio per la ricreazione… Domenica andremo nel nuovo Oratorio che si trova là nella casa Pinardi». E additava il luogo. Fu una ovazione di entusiasmo. Don Bosco è commosso. Scrive: «… ci siamo inginocchiati per l’ultima volta in quel prato, ed abbiamo recitato il santo Rosario...». La domenica dopo una turba di ragazzi festosi invase i prati attorno alla Casa Pinardi: il cuore che pulsa ancora oggi nella cittadella salesiana di Valdocco. Era il giorno di Pasqua del 1846. Finalmente a casa.  

 

 

Don Emilio Zeni

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