Dare nome al male per ritrovare il bene

Parla la scrittrice sopravvisuta al genoicidio. Yolande Mukagasana ha vissuto sulla sua pelle il male assoluto. Nell'aprile di diciotto anni fa, quando la follia assassina collettiva divampò nella sua terra provocando in cento giorni un milione di vittime, quasi tutte tutsi come lei, si vide strappare per sempre il marito e i tre figli, uccisi dagli estremisti hutu.

Dare nome al male per ritrovare il bene

da Quaderni Cannibali

del 02 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          Yolande Mukagasana ha vissuto sulla sua pelle il male assoluto. Nell'aprile di diciotto anni fa, quando la follia assassina collettiva divampò nella sua terra provocando in cento giorni un milione di vittime, quasi tutte tutsi come lei, si vide strappare per sempre il marito e i tre figli, uccisi dagli estremisti hutu. Ma Yolande sperimentò anche, nelle tenebre della storia, l'esistenza dei Giusti, persone in grado di opporsi al male in nome della propria umanità. Fu Jacqueline Mukansonera, una donna hutu, a salvarla miracolosamente dalla furia dei machete nascondendola per undici giorni in casa propria, a rischio della vita.

          Per questo Yolande è una testimone così importante. E per questo, dopo aver tentato di liberarsi dal dolore raccontando al mondo la sua storia (vedi box), ha trovato la forza di andare alla ricerca di sopravvissuti e carnefici, che oggi vivono fianco a fianco nel suo Paese. Voleva dare un nome all'assurdo di cui era stata testimone, cercare sprazzi di verità in un episodio che resta in larga parte non elaborato, anche dal punto di vista giudiziario: proprio all'inizio di quest'anno il risultato della perizia dei giudici francesi sull'attentato che il 6 aprile '94 costò la vita al presidente ruandese Habyarimana, dando il via ai massacri, ha reso noto che il missile che colpì l'aereo presidenziale partì da una caserma controllata dai sostenitori dello stesso Habyarimana. Si ribalta così la tesi sempre accreditata dalla Francia, che addossava la responsabilità dell'attentato al Fronte patriottico ruandese dell'attuale presidente (tutsi) Paul Kagame. «Agli assassini e ai sopravvissuti ho posto sempre le stesse domande: perché avvenne il genocidio? E come fu possibile che i vicini di casa si trasformassero in aguzzini, che l'odio divampasse nelle famiglie, che madri uccidessero i loro stessi figli? Sul perché non ho ancora ottenuto una risposta».

E sul 'come fu possibile' è riuscita a trovare qualche spiegazione?

          «Capire come un uomo sia potuto arrivare ad ammazzare la fidanzata o a sventrare una donna che aveva in grembo un bambino tutsi è quasi impossibile. Ma ho compreso che al male hanno concorso diversi fattori: l'educazione, la manipolazione della storia, la situazione socio-economica... Chi ha pianificato il genocidio è stato molto abile, perché ha toccato tutti i settori della vita, ha preparato persino le vittime a restare vittime, e così si è assicurato l'impunità. Si immagini che è stata pianificata la traumatizzazione, in modo che chi fosse sopravvissuto fisicamente ai massacri sarebbe in realtà rimasto annichilito e non avrebbe accettato più la vita. Ho visto traumi enormi, molti casi divenuti psichiatrici perché la società ruandese non era preparata al concetto di psicoterapia: tradizionalmente il proprio malessere veniva confidato ad amici, familiari... ma il genocidio ha stravolto tutto questo».

Che cosa significa 'preparare le vittime a restare vittime'?

          «I pianificatori del genocidio hanno cominciato con l'umiliazione dei bambini nelle scuole. In classe se eri tutsi sapevi che non valevi niente rispetto agli altri, te ne vergognavi. Così nel mondo del lavoro: se mandavi un curriculum per il settore pubblico, già sapevi che non ti avrebbero mai scelto, e lo trovavi normale, non comprendevi che era un'ingiustizia. Allo stesso modo, non ci stupivamo che un militare hutu non potesse sposare una donna tutsi. Vivevamo nella paura, perché sapevamo che gli hutu ci volevano sterminare, ma non facevamo niente. E alla fine, quando hanno cominciato a distribuire le armi ai nostri vicini, ci siamo appellati alla comunità internazionale, ma anch'essa ha fatto finta di niente: tutto il mondo è rimasto paralizzato, come se ciò che succedeva fosse normale. Non solo. A fianco della preparazione delle vittime, si era proceduto a preparare gli assassini: ogni volta che dei tutsi venivano uccisi - e succedeva spesso negli anni prima del '94 - i responsabili non venivano puniti. Potevi ammazzare un tutsi e il giorno dopo diventare sindaco, deputato, ministro. Non dovevi rispondere del tuo crimine, anzi, venivi ricompensato. Tutta la società viveva così, l'anormalità era diventatanormale».

È vero che furono usate anche credenze tradizionali per criminalizzare i tutsi?

          «Non so se si possa parlare di credenze tradizionali, ma ricordo che venivano diffuse voci false per manipolare l'opinione pubblica. Dopo la guerra del 1959, ad esempio, accusarono la moglie di mio fratello, che lavorava nella società idrica, di progettare di avvelenare l'acqua per sterminare gli hutu... come se i tutsi non bevessero dagli stessi rubinetti! Ad ogni modo, le mossero accuse che avevano anche un forte simbolismo, una tutsi che voleva sabotare la distribuzione dell'acqua, della vita... e mia cognata finì in carcere. Queste storie prendevano piede molto facilmente nell'immaginario della gente. Ricordo che incarceravano le più belle donne tutsi con l'accusa di voler rubare i mariti alle altre, come se avessero il potere di am¬maliare gli uomini: alla tv, o alla radio, la donna tutsi veniva sempre rappresentata come 'donna fatale'... e tutti ci credevano!».

Più volte ci si è chiesti com'è possibile che la violenza sia divampata all'interno di una società fortemente cattolica: vittime e carnefici erano fratelli nella fede...

          «Mi sono posta tante volte questa domanda. Penso che i ruandesi, in realtà, dessero più importanza alla religione tradizionale che al cristianesimo: mi sono resa conto che le persone che avevano condiviso il rito di iniziazione tradizionale si proteggevano a vicenda, mentre, purtroppo, l'aver ricevuto il battesimo non ha impedito a tantissimi ruandesi di trasformarsi in assassini. Sono convinta che la Chiesa cattolica in Ruanda abbia compiuto un grosso errore, e cioè abbia battezzato molte persone senza verificarne la reale conversione. Si è ceduto al proselitismo, e i ruandesi troppo spesso si sono fatti battezzare per opportunismo: perché la Chiesa aveva le scuole, o perché il battesimo era un mezzo di emancipazione sociale. E così abbiamo assistito a un fallimento. Ne ho parlato molto con Jacqueline, la donna che mi ha salvato la vita: entrambe siamo convinte che se i ruandesi avessero creduto davvero al Dio cristiano, all'amore per il prossimo, non avrebbero mai fatto ciò hanno fatto: si sarebbero rifiutati di assassinare, semplicemente».

Lei è religiosa?

          «Io credo a un Dio, ma dopo quello che ho visto non riesco a credere in una religione. L'orrore è andato troppo lontano, è stato sublimato. Nel mio Paese molte chiese sono diventate cimiteri, luoghi dove i carnefici hanno ammazzato, violentato. Gli assassini giravano con la Bibbia in mano, ammazzavano con il rosario al collo, dicevano che il Dio dei tutsi era morto. Ma il Dio che loro pregavano per uccidere bene era lo stesso che le vittime pregavano affinché le proteggesse. Io sono stata battezzata e ho imparato valori molto buoni dai miei genitori, che erano cristiani, ma ci sono cose che oggi non posso accettare. Un aspetto che ha disgustato molti ruandesi è che, dopo il genocidio, i religiosi implicati nei massacri sono stati spesso protetti, la giustizia verso di loro in molti casi non è stata, né è, possibile».

Può una società sopravvivere a un genocidio?

          «Sì, i ruandesi sono sopravvissuti da un punto di vista economico, ma anche sociale: dopo il '94 la società era dilaniata dall'odio, avevamo visto persone uccidere i propri parenti, eppure oggi la gente vive insieme, malgrado una ferita profondissima che per guarire richiederà secoli. Ma la sopravvivenza riguarda soprattutto le prossime generazioni, ed è una questione di volontà e di buona politica».

In Ruanda erano già avvenuti massacri, ma ciò non ha impedito di cadere nell'orrore assoluto: come si può non ripetere la storia?

          «Io ho vissuto tutti i massacri dei tutsi, e ogni volta ho visto ripetersi gli stessi meccanismi: le stragi rimanevano impunite, non c'erano mai responsabili. Ricordo che non usavamo nemmeno la parola 'massacro', si diceva 'la bufera è passata': era più facile, non c'erano colpe. Dopo il 1994, per la prima volta, abbiamo dato un nome al male, e questo è stato un inizio: dal momento in cui abbiamo accettato che nel Paese era avvenuto un genocidio, ci siamo assunti la responsabilità di impegnarci per evitare che possa succedere di nuovo. Perché sappiamo che la storia può ripetersi: dopo la Shoah l'antisemitismo non è scomparso, mentre in Turchia lo Stato si ostina a non riconoscere il genocidio degli armeni. I giovani non accettano le colpe dei loro antenati, ma il rischio è che così il male ritorni, perché le radici dell'odio non sono state estirpate».

E come è possibile estirparle?

          «Bisogna cominciare dai valori umani. Lo sviluppo economico e la giustizia sociale sono necessari, ma non sufficienti. Importante è il riconoscimento dei poteri politici che hanno partecipato agli stermini, così come la riconciliazione tra carnefici e sopravvissuti: un aspetto che nel caso del Ruanda è per certi versi più facile, visto che gli assassini e le vittime facevano parte delle stesse famiglie e dunque vivere insieme è una scelta umana, oltre che una volontà politica. Il fattore più importante di tutti, però, è quello dell'educazione. A scuola noi abbiamo studiato su libri del periodo coloniale, che riportavano una storia inventata: ci hanno insegnato la nostra stessa storia, ma era falsa. Ecco perché oggi in Ruanda stiamo riscrivendo tutto il materiale scolastico, affinché i bambini imparino la nostra storia reale».

Quanto conta fare giustizia? Per ora il Tribunale Onu per il Ruanda ha condannato solo qualche decina di persone...

          «Fare giustizia è fondamentale, ma il nostro sistema giudiziario non è in grado di affrontare decine di migliaia di processi. Per questo ho rivalutato il ruolo dei tribunali tradizionali gacaca, che all'inizio avevo rifiutato perché queste istituzioni puntano a far emergere la verità e non a punire i colpevoli: non capivo come potessimo usarle per giudicare i crimini di sangue. Ma quando ho partecipato ai gacaca mi sono resa conto di quanto sia importante sedere di fronte agli assassini e poter dire loro faccia a faccia: 'Sei stato tu a fare questo, a uccidere mio padre, a violentarmi'. E solo così possiamo sapere dove hanno gettato i corpi dei nostri cari, e offrire loro una sepoltura. Una consolazione che nel caso della Shoah è stata impossibile.

Ma questo è sufficiente?

          «No. Resto convinta che non possiamo fare nulla per opporci al male futuro se non proteggiamo i sopravvissuti al male passato. In Ruanda molte donne violentate durante il genocidio hanno contratto l'aids e non hanno accesso alle cure, mentre i loro stupratori ricevono assistenza medica nel carcere del Tribunale penale per il Ruanda... questa è una giustizia al contrario! Bisogna proteggere le vittime, guarirle dai traumi, ri-umanizzarle per permettere loro di tornare a vivere. E insieme dobbiamo educare le nuove generazioni ai valori umani, non trasmettere loro l'odio ma fare conoscere le storie dei Giusti, che al male hanno detto no. Solo così nei giovani potrà rinascere la speranza». 

CHI E': Infermiera, attivista e donna di pace 

          Nata nel 1954 a Butare, in Ruanda, da una famiglia tutsi, Yolande Mukagasana a 5 anni viene ferita nel corso della rivoluzione hutu. Infermiera anestesista, nel 1992 apre a Kigali un piccolo ambulatorio, che la espone a invidie che esploderanno durante il genocidio del '94. Nei massacri Yolande perde il marito e i tre figli e riesce a salvarsi con l'aiuto di una donna hutu. Dopo il genocidio, si rifugia in Belgio: qui inizia la sua attività di scrittrice e attivista, per la quale ottiene diversi premi. Più volte candidata al Nobel per la pace, le è stata intitolata una targa nel Giardino dei giusti di Genova. Fra le pubblicazioni italiane La morte non mi ha voluta (1998) e Le ferite del silenzio (2008), con Meridiana.

Il Male e la Grazia 

          A distanza di 18 anni, il genocidio pesa ancora come un macigno. La Chiesa cattolica, che in Ruanda contava (e conta) percentuali di battezzati da record, ha dovuto affrontare la tremenda domanda sulla qualità e la profondità dell'evangelizzazione, posto che molti di coloro che hanno imbracciato il machete o il mitra si dicevano cristiani. Ma è giusto altresì ricordare qui che, nei terribili mesi del genocidio, molti cristiani hanno dato testimonianza di santità ed eroismo, salvando dalla morte persone di etnia diversa, spesso esponendosi a rischi enormi. Il genocidio ruandese, dunque, rappresenta uno specchio nel quale si sono riverberati, contemporaneamente, il Male e la Grazia. Per questa ragione, Mondo e Missione ha dedicato diversi servizi a questo tema (ottobre 1994, pp. 546-548; aprile 2004, pp. 60-64; aprile 2009, pp. 28-30). E continuerà a farlo. 

Una giornata per i Giusti 

          Chiedere al Parlamento europeo l'istituzione di una giornata dedicata ai Giusti, gli uomini e le donne che hanno lottato e lottano per impedire i genocidi e in difesa dei diritti umani. L'appello, sottoscritto tra gli altri da Yolande Mukagasana, è stato lanciato dall'associazione Gariwo - La foresta dei Giusti. Lo scorso 16 gennaio, grazie al sostegno di numerosi parlamentari europei e in particolare dei cinque firmatari (Gabriele Albertini, Lena Kolarska-Boninska, Ioan Mircea Pascu, Niccolò Rinaldi e David Maria Sassoli) è stata presentata al Parlamento europeo la Dichiarazione per chiedere l'istituzione della Giornata europea dei Giusti da celebrare il 6 marzo. «Abbiamo voluto lanciare questo appello perché il concetto di Giusto, impiegato per la prima volta dal memoriale di Yad Vashem, ha assunto negli anni un valore universale», spiega lo storico e saggista Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, che ha promosso l'iniziativa con Marek Halter, scrittore e attivista per i diritti umani, e Pietro Kuciukian, Console onorario d'Armenia in Italia. «Ricordare i Giusti in Europa non significa avere gli occhi rivolti al passato, ma trasmettere un forte messaggio educativo alle nuove generazioni». I promotori hanno lanciato una raccolta di firme a sostegno dell'iniziativa. è possibile firmare l'appello sulla pagina ufficiale di Facebook, 'Gariwo - la Foresta dei Giusti'.

Chiara Zappa

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