Ecco il passaggio finale: la costituzione di una generazione di sopravvissuti, cioè di un popolo che per nascere è dovuto passare al vaglio dell'accettazione da parte dei genitori. È un po' come se non lo Stato né un gruppo etico ma la semplice routine applicasse prima della nascita un 'bollino blu' di certificazione a ogni bambino lasciando poi 'liberi' i genitori del feto senza bollino di decidere se tenerlo oppure no... Screening viene da screen che vuol dire 'setaccio'...
del 12 marzo 2007
La diagnosi prenatale serve a curare, ed è un obbligo morale per ogni coppia: conoscere in tempo una malattia del figlio per aiutarlo è un successo della medicina moderna. Cosa dire però quando la diagnosi prenatale non ha un fine curativo, ma di screening, per riconoscere malattie genetiche che non si possono curare? È lecito moralmente esplorare i segreti del figlio che si ha dentro di sé per decidere se 'è conforme alle aspettative'?
Didier Sicard, presidente laicissimo del Comitato francese di bioetica, ha precisato di recente che la diagnosi prenatale oltralpe sta diventando un fattore di eugenetica (ovviamente si riferiva al secondo tipo di diagnosi): è «quasi obbligatoria», riguarda ormai «la quasi totalità delle gravidanze», e insomma «la Francia costruisce passo dopo passo una politica sanitaria che flirta ogni giorno di più con l’eugenetica». Vari articoli apparsi su Le Monde hanno ribadito questo concetto.
Da noi è diverso? Basta pensare al numero di amniocentesi eseguite ogni anno in ogni ospedale italiano, o l’alto numero di test ematici della madre (triplo test, ecc.) fatti per conoscere il rischio che nasca un bambino Down, per iniziare un profondo esame di coscienza e cercare di capire, invece che 'ridimensionare' e 'distinguere', come invece è successo. Ma già la stessa parola 'rischio' associata a 'bambino Down' ci dovrebbe far storcere il naso: un bambino non è mai un rischio! Semmai la parola 'rischio' dovrebbe essere associata alla malattia: insomma, sarebbe corretto dire 'il bambino ha il tot per cento di rischio di avere una sindrome Down' e non 'voi avete il tot per cento di rischio di avere un bambino Down'. Sembra dunque aleggiare una sorta di fobia per la disabilità, per il 'diverso': una fobia che non nasce originariamente nel cuore di una donna, ma che lì arriva dopo una pressione sociale che ha un pressante ritornello, in apparenza buonista: 'Non mettere al mondo un bambino che può soffrire'. Che inganno... Come se qualcuno fosse immune dal soffrire, come se la sofferenza non debba essere affrontata e com-partita e come se la maggioranza dei disabili non ci testimoniasse di essere felice di stare al mondo!
Il problema, semmai è che noi non vogliamo soffrire, nel prenderci cura di un disabile. Varie pubblicazioni scientifiche spiegano come la diagnosi prenatale desti in molti seria preoccupazione: ad esempio Consumerism in prenatal diagnosis («Sul consumismo nella diagnosi prenatale»), pubblicato nel 2000 dal Journal of Medical Ethics, o i lavori di M. Aldred che sostengono l’eticità dell’aborto per evitare la nascita di bambini con anomalie dentarie. L’offerta di esami ed esami per selezionare le malattie genetiche non impone nulla, ma alla fine chi non si domanda se sono gli esami a essere troppi o piuttosto i genitori a essere 'strani' se non li fanno? Riporta D.I. Bromage sul laico Journal of Medical Ethics del 2006 che «c’è un trend in aumento di diagnosi prenatale e di aborti di feti che sarebbero nati con disabilità». In 10 anni per effetto dell’aborto non sono nati «il 43% dei feti con palato fesso e il 64% di quelli con piede torto, nonostante entrambe le situazioni siano curabili». E spiega che è stato suggerito che 'abortire feti con disabilità è una forma di altruismo'.
Ma è interessante notare che l’idea di possesso che aleggia nell’onnipotenza prenatale dei genitori sul figlio, sembra estendersi all’età post-natale. Ricordiamo, per esempio, il recente caso della donna sorda (ancora il Journal of Medical Ethics, 2002) che ha cercato un partner con la stessa patologia per concepire in vitro un figlio che voleva a tutti i costi sordo, e che per questo ha ottenuto di non farlo curare neanche dopo nato. Così come non ci può sfuggire il consenso all’eutanasia neonatale fatta anche «nell’interesse di terzi» (Bioethics, 2000). Infine, non ignoriamo il recentissimo caso della madre del soldato morto in azione che ne fa prelevare lo sperma – senza previe disposizioni da parte del morto – per fecondare un’estranea e avere un nipote. Come non pensare che dietro questi esempi di appropriazione della vita o del corpo del figlio da parte dei genitori vi sia inconsciamente uno sguardo carico di desiderio di possesso? Oggi il figlio è vissuto come una proprietà anche anni dopo la nascita, e questo pesa sulla generazione attuale. Il recente richiamo del Papa contro la maniacale ricerca del 'figlio perfetto' ha dunque qualcosa più del richiamo al rispetto della vita, è qualcosa di ultramoderno: è l’attenzione verso la manipolazione dell’equilibrio psicologico in noi e nei nostri figli, che avviene con questo incessante e fobico richiamo alla 'perfezione'.
I moderni sociologi lo dicono chiaramente: nati come risposta alle pretese di perfezione dei genitori, i giovani d’oggi vivono 'svuotati', sono pieni solo del riflesso dei desideri degli adulti. Li chiamano ragazzi-eco (echo-boomers), perché sono 'l’eco del desiderio di papà'. Serve a poco che qualcuno specifichi che la ricerca non è della 'perfezione', ma 'solo' della salute, dato che sappiamo che ogni minima anomalia potrebbe far qualificare il feto come 'non sano' e dunque 'indesiderabile'.
Ecco il passaggio finale: la costituzione di una generazione di sopravvissuti, cioè di un popolo che per nascere è dovuto passare al vaglio dell’accettazione da parte dei genitori. È un po’ come se non lo Stato né un gruppo etico ma la semplice routine applicasse prima della nascita un 'bollino blu' di certificazione a ogni bambino lasciando poi 'liberi' i genitori del feto senza bollino di decidere se tenerlo oppure no. Si capisce bene come poi la pressione sociale sia tale da far sentire 'strano' chi decidesse di non abortire. Siamo dunque in mano a una routine che non impone di abortire, ma di contare i cromosomi. Cosa c’è di male, si dirà? Non c’è nulla di male, infatti, se non fosse per la semplice osservazione che a nessuna madre con un bambino in braccio passerebbe per la testa di andare a contare i suoi cromosomi per volergli bene, per accettarlo.
Ma prima della nascita tutto è possibile, con metodi invasivi o meno. È lo screening. Già, perché screening viene da screen che vuol dire 'setaccio'. Si trattano i bambini come la farina che va separata dai residui. Bisogna dunque capire un ultimo risvolto: il problema va ben oltre la gravidanza, è un problema di educazione alla stima di sé. Il bambino non è sciocco e ha le orecchie lunghe, tanto da sentire cosa i genitori provano e come lo considerano. Nel clima attuale il bambino piccolo è considerato un giocattolo, il feto un’'appendice', l’adolescente un filtro di eterna giovinezza per genitori che non lo aiuteranno a crescere continuando a illudersi di essere giovani.
Oggi tanti segnali vanno in questo senso: dall’età sempre maggiore in cui i figli vengono lasciati staccare dal cordone ombelicale invisibile che li lega ai genitori, alla frustrazione crescente dei giovani, allo scarso appoggio morale che i genitori danno ai figli sposati perché incrementino la loro famiglia.
Scriveva Bob Dylan in Masters of war: «Avete sparso la peggior paura, quella di mettere figli al mondo». in Francia hanno iniziato a dire che sono stufi di questa paura. E qui da noi, cosa aspettiamo?
Carlo Bellieni
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