Diario di scuola

Dietro al "somaro" c'è una persona a cui si rischia di rubare il futuro. Al "somaro" è precluso l'avvenire, lui non potrà "diventare", poiché i suoi voti lo inchiodano ad un presente senza speranza.

Diario di scuola

da Quaderni Cannibali

del 03 settembre 2010

 

 

 Apologia del 'somaro'

          Non sempre i 'somari' sono destinati al fallimento nella vita. Accanirsi sui 'somari' da parte degli insegnanti può indurre a 'scaricare' le proprie rabbie. I docenti 'servi inutili'.

          La scuola italiana è ancora nell'occhio del ciclone, e viste le riforme strutturali che l'attendono, soprattutto in relazione alle secondarie superiori, lo sarà ancora per un pezzo. Non intendiamo soffermarci sul dibattito politico e sociale che questo processo ha innescato, quanto piuttosto - a partire dalle considerazioni dello scrittore francese Daniel Pennac nel suo ultimo Diario di scuola - attirare l'attenzione sul protagonista dimenticato della didattica: il 'somaro'. Di questo tratta il suo ultimo e fortunato testo che, in forma di diario, racconta la trasformazione che ha portato un ragazzino francese un po' dislessico e disamorato degli studi a diventare uno dei più famosi romanzieri contemporanei. Al di là delle note biografiche, il suo testo ha il pregio di mettere il dito sulla piaga dell'educazione, ovvero sulla capacità o meno che si ha di insegnare ai 'somari', giacché con i 'bravi' sono capaci tutti.

La fenomenologia del 'somaro'

          Cominciamo dall'inizio, da una sorta di 'fenomenologia del somaro' con cui Pennac inizia il racconto autobiografico: «Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infanzia tornavo perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l'ultimo della classe, ero il penultimo. (Evviva!) Refrattario dapprima all'aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione dei luoghi geografici, inadatto all'apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti) portavo a casa risultati pessimi che non erano riscattati né dalla musica né dallo sport né peraltro da alcuna attività parascolastica» (p. 15).

          È una vera e impietosa rassegna in cui chiunque sia stato a scuola può trovare almeno una delle caratteristiche che lo hanno fatto sentire un po' somaro. Il problema è che qui tutte queste deficienze sono assommate in un'unica persona. E chi frequenta le aule scolastiche come insegnante o come genitore sa bene che non stiamo parlando di un caso raro o in via di estinzione.

          Ciò che interessa a Pennac non è l'ennesimo libro sulla scuola, come afferma in un dialogo con suo fratello: «Non sulla scuola! Tutti si occupano della scuola, eterna disputa degli antichi e dei moderni: i suoi programmi, il suo ruolo sociale, le sue finalità, la scuola di ieri, quella di domani… No, un libro sul somaro! Sulla sofferenza di non capire, e i suoi danni collaterali» (p. 18).

          Dietro al 'somaro' c'è una persona a cui si rischia di rubare il futuro. Al 'somaro' è precluso l'avvenire, lui non potrà 'diventare', poiché i suoi voti lo inchiodano ad un presente senza speranza. «Alle elementari, alle medie, poi al liceo ci credevo anch'io, vero come l'oro, a questa esistenza senza avvenire. È addirittura la primissima cosa di cui si convince il ragazzo che va male a scuola. 'Con dei voti del genere, cosa puoi sperare?', 'Credi di poter andare in prima media? (in seconda, in terza, in prima liceo…)'» (p. 47). Essere bollati come colui che non capisce genera una profonda ferita, spesso mascherata da disinteresse se non da vera e propria spavalderia o aggressività. Una ferita però che l'educatore accorto sa di dover lenire.

          Con molto realismo, Pennac non propone una riforma del 'sistema', spesso alibi per non incidere su ciò che ciascuno può fare, ma indica la via dell'utilizzare bene il tempo che si ha a disposizione con i ragazzi che 'vanno male': «Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell'indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e su quelle ragazzine, nel senso botanico del termine, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti» (p. 55).

          Usare bene del tempo di cui si dispone non è così scontato.Spesso, infatti, chi ricopre ruoli educativi - e il discorso si può estendere anche alla catechesi - è tentato di scaricare su coloro che 'non vanno bene' tutta la 'giustificata' rabbia che il loro comportamento suscita. Ci si sente investiti in prima persona del loro fallimento che non ci si vuole accollare: allora è facile scaricare questa rabbia proprio su colui che se la 'merita', salvo però farlo sprofondare sempre più in quel baratro da cui dovremmo cercare di tirarlo fuori.

          Nell'altro, infatti, questi atteggiamenti rinforzano il senso di essere una nullità: «Orbene, nella società in cui viviamo un adolescente tenacemente convinto di essere una nullità- questo, almeno, l'esperienza vissuta ce lo ha insegnato -è una preda» (p. 65). E allora che fare? Pennac, attingendo alla sua esperienza, indica una strada efficace: «Poi venne il mio primo salvatore. Un professore di francese. In prima superiore. Che mi scoprì per quello che ero: un affabulatore sincero e allegramente suicida. Colpito dalla mia propensione ad affinare scuse sempre più fantasiose per le lezioni non studiate o i compiti non fatti, decise di esonerarmi dai temi per commissionarmi un romanzo. Un romanzo che dovevo redigere nell'arco del trimestre, in ragione di un capitolo alla settimana» (p. 76). Nella semplicità del racconto, troviamo esplicitate le indicazioni che 'in teoria' animano le varie predisposizioni ministeriali sulla programmazione scolastica, ma che, raramente, si ha la capacità, il coraggio o le opportunità di mettere in pratica.

Un 'nuovo' ruolo educativo

          Innanzitutto, la personalizzazione degli itinerari di apprendimento: a ognuno il suo, perché tutti siamo diversi. Principio questo che, molto faticosamente, si sta affermando anche nella catechesi, con la sottolineatura della necessità di predisporre itinerari differenziati. Che senso ha, infatti, far avanzare 'come un sol uomo' nel catechismo persone che si trovano a livelli diversi di maturazione delle scelte di fede?

          Ma torniamo alla scuola. Un secondo principio è quello della valorizzazione del discente: egli fa fatica a scrivere correttamente? Gli propongo di scrivere un romanzo! Ovvero, punto sulla motivazione e sul coinvolgimento in una progettualità 'da grandi'.

          Viene in mente la lezione di don Milani che coinvolgeva i ragazzi più grandi, ma non di molto, nel fare gli insegnanti dei più giovani, con una vera e propria investitura. Dietro a questi tentativi c'è - più o meno consapevolmente - la rivisitazione del concetto di autorità. Come ha efficacemente detto il linguista E. Benveniste nel suo Dizionario dei termini indoeuropei, la parola auctoritas deriva dal verbo augere, far crescere. La persona autorevole allora non è quella che 'dice agli altri' cosa devono fare, bensì colui che crea le condizioni per cui gli altri diventino auctores, cioè protagonisti dell'apprendimento che si vuole trasmettere loro.

          Non di rado, invece, sia nella scuola come nella catechesi, l'unico vero auctor, colui che fa tutte le operazioni interessanti e motivanti, è proprio il docente, che riserva al discente (catecumeno) il ruolo di spettatore delle proprie performances. In questo modo, però, si ottiene il risultato paradossale - segnalato dal pedagogista E. Damiano - che l'unico che rischia di imparare veramente è il docente.

          Le persone autorevoli sono rare. Basta andare con la memoria alla folta schiera di educatori, insegnanti, catechisti che ogni persona dotata di formazione media ha incontrato, per riconoscere al volo le figure che hanno lasciato un segno. A conferma della loro rarità afferma Pennac: «Ho incrociato altri tre geni, fra la prima e la seconda superiore, altri tre salvatori: un professore di matematica, che era la matematica, una strepitosa professoressa di storia che praticava come nessun altro l'arte dell'incarnazione storica e un professore di filosofia tanto più stupito oggi della mia ammirazione in quanto lui stesso non serba alcun ricordo di me (me l'ha scritto), il che lo rende ancora più grande ai miei occhi poiché svegliò la mente senza che io dovessi nulla alla sua stima ma tutto alla sua arte» (p. 79).

Gli insegnanti 'servi inutili'

          Dalla presentazione di questi suoi 'tre salvatori' si ricava una caratteristica comune al loro insegnamento e soprattutto all'efficacia del loro comportamento nei confronti del 'somaro'.Si potrebbe dire, evangelicamente, che tutti e tre questi insegnanti si percepiscono come 'servi inutili'. Sono persone capaci di scomparire all'interno delle loro materie o - se si preferisce, di servirle - proprio come nel monito evangelico. Questo 'servizio' non è semplice come sembra, perché implica una capacità di lavorare in modo 'anonimo', senza ricercare in questa attività compensazioni affettive o narcisistiche, ma soprattutto il bene del destinatario. Quando ciò accade, l'insegnante non vede nell'insuccesso del 'somaro' una sconfitta personale, da punire o da colpevolizzare in nome del diritto di lesa maestà. Questo atteggiamento didattico viene definito da Pennac come 'incarnazione': «Il mal di grammatica si cura con la grammatica, gli errori di ortografia con l'esercizio dell'ortografia, la paura di leggere con la lettura, quella di non capire con l'immersione nel testo, e l'abitudine a non riflettere con il pacato sostegno di una ragione strettamente limitata all'oggetto che ci riguarda, qui e ora, in questa classe, durante quest'ora di lezione, fintanto che ci siamo» (p. 97).

          Se l'efficacia viene dall'esserci, la frustrazione viene dal non esserci: «Oh, che ricordo penoso, le lezioni in cui non c'ero! Come li sentivo fluttuare, in quei giorni, i miei allievi, andarsene tranquillamente alla deriva mentre io tentavo di radunare le forze. La sensazione di perdere la classe… Io non ci sono, loro non ci sono più, abbiamo mollato il colpo. Eppure il tempo passa. Io recito la parte di quello che tiene la lezione, loro fanno quelli che ascoltano» (p. 104).

          In questo passaggio, oltre alla conferma dell'utilità della metodologia dell'incarnazione, troviamo anche un altro importante suggerimento didattico: la necessità di verificare il proprio operato, cioè una sorta di esame di coscienza laico per trovare il bandolo della matassa senza scaricarlo sugli altri, 'somari' in testa.

          Da tutta l'analisi di Pennac emerge, in sostanza, una compassione reciproca per il 'somaro' e per il suo insegnante, segnati entrambi da una sottile sofferenza: quella di non imparare da un lato e di non insegnare dall'altro. Una sofferenza che, se accolta e analizzata, può dare frutti, oltre ogni ragionevole speranza.

Marco Tibaldi

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