I salesiani sono oggi una realtà mondiale di sedicimila membri (oltre diecimila i sacerdoti), di migliaia tra centri giovanili, scuole, istituti professionali. Cui si aggiungono 48 case editrici, 55 tipografie, 32 radio e undici emittenti radio-tv.
del 07 gennaio 2010
Se io fossi un cardinale con la croce pettorale notereste il portamento… le distanze io terrei”. Con la faccia del cantante televisivo Marcello Cirillo, don Bosco è – canonicamente – molto simpatico e balla su un bel ritmo pop.
 
Però vederlo saltellare in mezzo a sagome di imbalsamati prelati e partire col ritornello sfotterello, “ma io sono un operaio di Dio”, fa una bizzarra impressione. E’ pur sempre il fondatore dei salesiani che prende a sante legnate l’alto clero e rilancia l’imprinting umile e operaio della spiritualità salesiana. Il musical “Don Bosco” dello “specialista” Piero Castellacci, realizzato in collaborazione con il Movimento giovanile salesiano, va in scena da oltre un anno nei teatri d’Italia, a suo modo un fenomeno del box office.
Molto “easy”, molto comunicativo, perfettamente salesiano. Chissà quanta consapevolezza c’è, o invece quanta inconsapevole ironia, del fatto che nelle alte sfere della chiesa i figli di don Bosco con “la croce pettorale” sono ormai una bella squadra. Anzi un’invasione, secondo qualcuno. Non solo il primo ministro del Papa, il cardinale Tarcisio Bertone, ma anche star dell’ecclesia globale come il cardinale di Tegucigalpa, Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, o quello di Hong-Kong, Joseph Zen Zekiun, che l’anno scorso ha scritto i testi per la Via Crucis del Papa. In tutto cinque cardinali e oltre cento vescovi.
Un eccesso di irriverenza, o l’umile coscienza del doppio binario su cui da un secolo e mezzo camminano spediti i figli di don Bosco? Sia come sia, fatto sta che hanno appena prodotto un altro musical – sì, un altro: se c’è una cosa che i salesiani hanno nel dna è il teatro leggero; e se c’è una cosa su cui non badano a spese, e sanno far funzionare bene, è la comunicazione popolare. Si intitola “Andiamo ragazzi” e viene presentato come quello “ufficiale” in vista del bicentenario del fondatore (2015), benedetto dal Rettor maggiore in persona, il messicano don Pascual Chavez Villanueva, nono successore di don Bosco, alla presenza degli stati generali dell’ordine riuniti a Valdocco.
L’ha prodotto la famiglia salesiana di Piemonte e Val d’Aosta, quella di Bertone. Non si sa mai. Musical a parte, nella canzone del prete operaio “San Giovanni Bosco” c’è molto dell’anima e della filosofia di un ordine che, nonostante l’espansione esponenziale (in pratica, ha solo 150 anni) e il ruolo di primo piano assunto all’interno della chiesa cattolica nei cinque continenti, mantiene vivo il suo carisma del “fare”. Affabile e fiducioso, semplice e caritatevole, evangelico e “naturaliter” popolare. Di se stessi dicono: “La carità pastorale è il centro e la sintesi della spiritualità salesiana. Se i francescani hanno la povertà e i gesuiti l’obbedienza, noi figli di don Bosco abbiamo la carità”. Il che però non ha impedito a questa gran famiglia operosa di crescere in virtù e forza, fino a soppiantare per dinamismo, e in certi casi per affidabilità agli occhi dei Papi, famiglie religiose di più antico lignaggio ma meno a proprio agio con la modernità.
I salesiani sono oggi una realtà mondiale di sedicimila membri (oltre diecimila i sacerdoti), di migliaia tra centri giovanili, scuole, istituti professionali. Cui si aggiungono 48 case editrici, 55 tipografie, 32 radio e undici emittenti radio-tv. Allievi celebri a dozzine, nel mondo. Per stare in Italia, Berlusconi e Confalonieri, ma anche Guido Bertolaso. Personaggi che, innegabilmente, hanno conservato in sé qualcosa della genuina operosità di famiglia. Nati per “la vita religiosa, l’educazione e la formazione dei giovani”, i salesiani non hanno mai fatto sconti nelle loro scuole, anche se hanno privilegiato un profilo meno intellettuale rispetto ad altri ordini educativi. Ma persino Luciana Littizzetto suo figlio l’ha iscritto all’istituto salesiano di Valsalice, sulla collina di Torino.
C’è una classica barzelletta clericale, sulle due cose che neppure Dio conosce: “Che cosa pensano i gesuiti, e da dove prendono i soldi i salesiani”. Per meglio dire: se i figli di Ignazio si portano dietro, nell’immaginario secolare, il fardello della doppia morale, della sottigliezza intellettuale e persino politica, i figli di don Bosco portano il carisma di una doppia personalità. Popolari, ma anche potenti. Del resto, “stare con i tempi e con don Bosco” è il sintetico slogan che li guida da oltre un secolo.
Anche quando si danno alle attività speculative in cui pure eccellono – il cardinale capo della Congregazione dei santi, Angelo Amato, collaborava da raffinato teologo con Joseph Ratzinger – la mettono più sul pastorale che sul filosofico, la questione antropologica è per loro una faccenda molto operativa: “Siamo un’istituzione a servizio della società, della chiesa e della Società di San Francesco di Sales – dicono della loro Università Pontificia salesiana – che si propone come scopo caratterizzante di dedicare particolare attenzione allo studio e alla soluzione delle questioni inerenti l’educazione e l’azione pastorale specialmente tra i giovani e i ceti popolari”.
Spirituali e pragmatici, fattivi e all’occorrenza disinvolti. Sarà che, fondati a Torino nel 1859, nascono in pratica gemelli di un’Italia massonica e aggressivamente laica. Alla quale don Bosco non faceva sconti. Ma allo stesso tempo, figlio del popolo contadino, sapeva trattare senza mai chiudersi in atteggiamenti reazionari, come ha ben raccontato Antonio Socci nel suo “La dittatura anticattolica – Il caso don Bosco e l’altra faccia del Risorgimento”.
Il suo primo incontro con Urbano Rattazzi, “lo sconosciuto signore” che era andato di persona a sentirlo in chiesa per capire chi diavolo fosse, è negli atti del processo di beatificazione: “Potrei sapere con chi ho l’onore di parlare?”. “Con Rattazzi!”. “Dunque (sorridendo) posso preparare i polsi alle manette, e dispormi per andare all’ombra della prigione”. Ma secondo i testimoni “il signor Rattazzi ascoltò con vivo interesse… si convinse appieno della bontà del sistema in uso negli oratori, e promise che dal canto suo lo avrebbe fatto preferire a ogni altro negli istituti governativi”. Lo stesso stile disinvolto e pragmatico ha garantito il successo dell’ordine e ancora oggi distingue i salesiani come un tratto peculiare – per dinamismo, per spericolato spirito di iniziativa – fra i mille ordini e movimenti del cattolicesimo contemporaneo.
Questione spirituale e carismatica, prima che scelta operativa: quella salesiana è “una spiritualità adeguata ai giovani, specialmente i più poveri”, una “spiritualità pasquale della gioia dell’operosità”. Ma anche fortemente mariana, devotissima a Maria Ausiliatrice, che certamente li rende cari a Papa Benedetto. Il quale non a caso, incontrandoli un anno fa nella Sala Clementina, li aveva spronati a rinverdire il loro carisma: “Il processo di secolarizzazione, che avanza nella cultura contemporanea, non risparmia purtroppo nemmeno le comunità di vita consacrata. Occorre per questo vigilare su forme e stili di vita che rischiano di rendere debole la testimonianza evangelica, inefficace l’azione pastorale e fragile la risposta vocazionale”. Poi c’è ovviamente il genio educativo di don Bosco, fondato su quel “sistema preventivo” che colpì pure Rattazzi: “Ragione, religione e amorevolezza”.
Anche Giovanni Gentile riconosceva in lui il “grande educatore”, anche se sottostimava l’“autore di cui invano si cercheranno gli scritti”. Fatto sta che dopo quindici anni erano già in America latina, inviati a evangelizzare la Terra del fuoco. Diventeranno in fretta i pilastri della chiesa in Sudamerica e in molte terre di missione dall’Asia all’Africa. Ciò non impedì che negli anni 60 la crisi colpisse anche loro. Sociologia anziché teologia, politica e ideologia, Concilio e contestazione ecclesiale. Salesiani come don Gerardo Lutte o il teologo Giulio Girardi, perito del Concilio ed espulso nel 1969 dall’Università salesiana per “divergenze ideologiche”, sono state figure importanti del dissenso cattolico, nulla da invidiare ai gesuiti di padre Arrupe e ai francescani e domenicani della teologia della liberazione.
Negli anni hanno recuperato, guidati anche da Paolo VI. Se non la forza espansiva dei tempi migliori, quantomeno il loro marchio di forte affidabilità, lontana dalle sbandate teologiche e naturaliter istituzionale. Lucetta Scaraffia, storica del cristianesimo ma anche torinese, ha scritto che la “piemontesizzazione” della curia vaticana è “cresciuta di pari passo con la ramificazione in Vaticano della presenza salesiana. Da quando Pio XI li valorizzò per il carattere fattivo e pragmatico del loro ordine”.
E padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa e gesuita, ha riconosciuto il valore della “comune radice del cattolicesimo sociale piemontese”, il “‘cattolicesimo del fare’ di marca piemontese”. Sviluppando un altro tratto del loro carisma originario, i salesiani sono sempre stati anche estremamente attenti ai mass media. Anche qui, nel segno del fare.
Già negli anni 30 avevano la responsabilità della tipografia che stampava l’Osservatore Romano; hanno le chiavi della Libreria editrice vaticana e la loro Università Pontificia, a Roma, è una delle più attrezzate in casa cattolica nella riflessione sui mondi della comunicazione di massa. Inoltre la Sei, colosso editoriale nella scolastica: nessun altro ordine vanta una presenza così forte in questo strategico tipo di editoria. Lo scorso anno, durante il Capitolo generale della Società di San Francesco di Sales, lo storico salesiano Francesco Motto aveva ricordato una qualità di don Bosco che riassume un secolo e mezzo di storia: “In attesa di ‘far bene il bene’ incominciò, confidando in Dio e in Maria, a ‘fare il bene come si può’”.
Maurizio Crippa
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