Togliersi la vita può anche essere un atto libero ma una libertà che si annulla è in contraddizione con se stessa.
del 09 dicembre 2010
           “Avanti popolo, alla riscossa, dei malati vogliam le ossa; dei fragili vogliam la pelle, per far leggine sulle vite degne!”.
 
 
          Non è il grido di qualche esagitato che vorrebbe ridurre la spesa pubblica a favore di chi ha una vita meno agiata; si tratta dell’inno che accompagna l’avanzata di alcuni personaggi che si stanno insediando in molti rami della società civile, Parlamento incluso: i “progressisti” dell’avanguardia necrofila.
          L’occasione che ne ha sobillato i più recenti sussulti è stata la scomparsa del celebre regista e sceneggiatore, Mario Monicelli, il quale, ormai 95enne e  gravemente malato, la sera del 29 Novembre, si è ucciso gettandosi dal quinto piano dell’ospedale dove era ricoverato. La triste dipartita del regista ha fatto registrare un accadimento quantomeno singolare: piuttosto che elogiare le abilità artistiche dell’uomo, la maggior parte dei “notabili” hanno quasi esclusivamente rivolto i loro ossequi al suo ultimo disperato gesto.
          Lo stuolo dei “necrofili” annovera, tra i tanti, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha parlato del suicidio del regista come “un’ultima manifestazione forte della sua personalità, un estremo scatto di volontà”; Paolo Villaggio, che ha definito la scelta di Monicelli nientemeno che “eroica, magnifica”; Walter Veltroni, che ha invece detto che Monicelli era un uomo “antiretorico e coerente” e che “l’ultimo atto della sua vita gli assomiglia”; Stefania Sandrelli che ha elogiato il suo “gesto estremo di libertà, di anticonformismo, di curiosità”; il critico Mariano Sabatini, secondo il quale, togliendosi la vita, Monicelli ci “ha dato l’ennesima lezione di libertà”.
          Questi “sapienti” paladini del suicidio e della “dolce morte” (a loro piace chiamare così l’eutanasia…) dovrebbero sapere che esistono delle profonde ragioni “laiche”, filosofiche, che rendono tali gesti inaccettabili. Già Platone ed Aristotele consideravano il suicidio come un atto di viltà verso la polis.
          Tramite il suicidio si spezzano ingiustamente i legami verso la propria società familiare, nazionale ed umana, entità verso le quali abbiamo degli obblighi naturali. Inoltre, se commesso con l’intenzione di dare un esempio, il suicidio si carica anche della gravità dello scandalo verso il prossimo. La connotazione che i necrofili forniscono del suicidio come “estremo gesto di libertà”, “lezione di libertà” è filosoficamente debole perché il suicidio può essere un atto libero, ma una libertà che si annulla è in contraddizione con sé stessa.
          Inoltre non si può confondere il suicida col martire. A tal proposito è chiarissimo quel che affermava, quasi un secolo fa, Gilbert K. Chesterton: “Ho letto una solenne bestialità di qualche libero pensatore: il quale dice che il suicida è qualche cosa come un martire... Un suicida è evidentemente l'opposto di un martire. Il martire è un uomo che si appassiona a qualche cosa che è fuori di lui fino a dimenticare la sua esistenza personale, il suicida è un uomo che tanto poco si cura di tutto quello che c'è fuori di lui che ha bisogno di vedere la fine di ogni cosa.
          L'uno ha bisogno che qualche cosa cominci; l'altro che tutto finisca. Il martire confessa un estremo vincolo con la vita... muore perché qualche cosa viva. Il suicida... è puro distruttore: spiritualmente distrugge l'universo”.
          Per coloro che credono in Dio, inoltre, il suicidio non è solo un peccato, è il peccato dei peccati: l’uomo che uccide sé stesso, per quanto gli riguarda, distrugge il mondo, irride con la sua morte tutte le creature rifiutando di prendere interesse all’esistenza. Il credente sa di esser responsabile della propria vita dinnanzi a Dio che gliel’ha donata, un dono immenso, inestimabile. Il credente sa di essere amministratore e non proprietario, della vita che Dio gli ha affidato.
          Quel che è vero, e che troppo spesso viene taciuto, è che la frequenza dei suicidi è positivamente correlata con la disgregazione sociale ai vari livelli: religioso, familiare e politico. Se la società si riduce solo un insieme sconnesso di individui, il cui unico elemento socializzante viene ad essere la contiguità fisica, le persone si sentono sole, isolate e spesso inutili. In un contesto simile, in una massa numerosissima di individui soli, è più facile che insorgano idee di autodistruzione.
          Il suicidio è un atto terribilmente triste, grondante di dolore. Il suicidio cela sempre dietro di sé un profondo senso di vuoto, solitudine, infelicità e radicale disperazione: il suicida è un uomo solo. L’avanguardia necrofila, anziché sventolare disgustosamente la bandiera del suicidio per sostenere impietose battaglie ideologiche, farebbe bene ad ascoltare le richieste sottese a tale gesto estremo. Dietro ad ogni suicidio vi è sempre un infinito desiderio di amore, compagnia, felicità, un desiderio di vivere.
Andrea D’Ettorre
Versione app: 3.25.0 (f932362)